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La stanza del figlio

di Nanni Moretti

Palma d’Oro al Festival di Cannes

 

Il padre psicanalista, la madre editrice, due figli adolescenti, pochi cocci blu sbeccati, una casa di corridoi bianchi, una felpa rossa, un’allegria pacata, sobria, una famiglia serena, medio borghese con i suoi schemi, che vive senza particolari slanci un quotidiano vagamente qualunquista.

Improvvisa, ingiusta, devastante arriva la morte del figlio per un incidente subacqueo. La vita cambia aspetto.

Moretti ha isolato il dolore, uno dei più terribili e viscerali, che sconvolge l’esistenza, rimette in gioco il passato e il futuro, porta a galla ferite antiche, incapacità, paure, frustrazioni. Lo fa in modo serio senza artifici e senza falsi pietismi e per questo comunica, raggiunge la platea, supera i mezzi cinematografici poveri e imperfetti. Un’opera di maturità dunque, innanzitutto umana. Non ha bisogno di stupire  Moretti, né di propagandare dottrine. Il percorso dei protagonisti procede per strade parallele che si scontrano nei momenti nevralgici, nelle scosse di assestamento emotivo.

Moretti descrive la realtà cruda e dolorosa della morte: della morte di un figlio. Parla del senso di colpa di un padre che avrebbe voluto evitare l’inevitabile, che vorrebbe esprimersi con la stessa franchezza che richiede ai suoi pazienti nel dialogo psicanalitico. Parla di una madre che non sa dare forma alla sua sofferenza trascorsa tra momenti di rabbia e di sconforto totale e ancora di una figlia e sorella colpevole di essere sopravvissuta.

I protagonisti vivono nella loro gabbia di prostrazione fino a toccare il fondo e poi in ultimo…appare la ragazzina sconosciuta, fidanzata di Andrea, la sua parte nascosta che si rivela alla famiglia indicando la via di uscita dal tunnel, fino al confine con la Francia, fino al limite oltre il quale forse vale la pena ricominciare. Scrive un critico di Le Monde: “Come a dire che l’accettazione della morte è legata all’accettazione di quanto è sconosciuto dentro di noi e in chi ci è vicino”.

In quanto a Moretti psicanalista… non è molto credibile. Apre numerose questioni, alcune di appoggio alla vicenda: Orlando aspirante suicida, causa involontaria dell’incidente, una giovane paziente con ansia da abbandono che lo accusa di freddezza, ( la stessa accusa che gli farà la moglie quando lo troverà avvitato su se stesso a far pezzetti di carta e prima ancora linee circolari senza concludere la lettera alla giovane Arianna, fidanzata di Andrea)… e ancora un signore incravattato di mezza età che finalmente gli dà un pretesto per piangere.

Una costellazione di altri personaggi a tratti si incrocia con la vicenda, ma vi entra a fatica, secondo Moretti dovrebbero stimolare riflessioni,  fornire chiavi di lettura, mentre i concetti serrati e l’arte cinematografica modesta non consentono purtroppo la comprensione di pensieri complessi e forse non abbastanza elaborati dall’autore.

Un film comunque da vedere, che rivela una tendenza culturale e soprattutto un bisogno di contenuti e forme espressive essenziali e poco e raffinate in controtendenza rispetto alla società “dell’apparire” che impregna il nostro vivere quotidiano.

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