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Il
mestiere delle armi
di
ERMANNO OLMI
Giovanni
dei Medici, nipote di Clemente VII e padre di Cosimo de Medici primo Granduca di
Toscana, è capitano di un’armata pontificia nella campagna contro i
Lanzichenecchi di Carlo V, che comandati da Zorzo Frundsberg marciano verso
Roma. Colpito
ad una gamba da un falconetto ceduto da Alfonso d’Este agli Alemanni, muore il
30 novembre del 1526 dopo la tremenda agonia causata da una cancrena che nemmeno
l’amputazione riesce ad arrestare. Girato
tra le brume padane di Soncino e gli orizzonti della Bulgaria, questo film segna
il ritorno al cinema del settantenne regista bergamasco con la sua opera più
costosa, una produzione
franco-italo-tedesca da 15 miliardi: un film creato apparentemente per vincere
il 54° festival di Cannes, che invece ha visto il trionfo di Nanni Moretti. In
un secolo buio di un’era buia combatte un pugno di eroi tristi e inquieti. Il
mondo cinquecentesco di Olmi è emaciato, rinchiuso tra forma e passione. Dice
il regista: “Io credo di aver fatto un film che interpreta, immagina, il
privato di un personaggio senza modificare i fatti storici. Abbiamo impiegato più
di due anni a fare ricerche negli archivi pubblici e privati: ogni evento, ogni
parola, corrispondono nel film a un documento, a una lettera, a una realtà come
ovviamente possiamo immaginarcela oggi”. Ma
forse proprio come certa critica sostiene: “Nel Cinema di Olmi convivono due
ispirazioni: quella degli esordi, la più compiuta e convincente, di adesione al
vissuto della gente comune, e quella emersa successivamente, non sempre
all’altezza della fresca poetica della precedente, che tende a sottomettere la
materia narrativa ad un ambizioso disegno simbolico-metaforico.“ L’opera sembra frutto di una sottile alchimia. Vede mescolati i dipinti di Pontormo e di Mantegna, citati negli abiti monacali di Maria Salviati e nelle scene della morte del giovane eroe, a fedeli descrizioni di armature ed armi, come nel caso delle magiche fasi di lavorazione del falconetto, segno e presagio della morte di Giovanni e dell’inizio di una nuova era della guerra. Ma in questo lavoro di cesellatura storico-pittorica Olmi resta intrappolato: cerca l’uomo, cerca l’eroe, cerca materiale evocativo da proporre ai giovani, si interroga sul senso stesso della guerra, ma l’intero progetto non è alla sua portata, non è sufficientemente metabolizzato, resta intellettuale e distaccato. Il film inizia faticosamente, questioni fondamentali restano appena abbozzate ed il centro della vicenda è incautamente affidato ad un giovane interprete dell’est, un uomo i cui silenzi non evocano ma tacciono la vita, fintamente richiamata durante le scene della morte. Nel rispetto formale della fedeltà storica, il regista non penetra la storia e non rimane un osservatore imparziale. La sua interpretazione della vicenda è intrisa dei valori personali del cristianesimo e della sua tradizione contadina. L’atmosfera cupa ed opprimente delle scene ricorda semmai il Medioevo e tradisce il Rinascimento, che fu periodo sì, di acciaio e nuove armi, ma anche di crescita intellettuale e spirituale, punto di partenza per una nuova era culturale e filosofica. |
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