Paolo Pettinari
BESTIE, UOMINI, VIRTU'
Esempi da due bestiari medioevali*.
Il bestiario lo si
può considerare come un genere letterario
didascalico, in cui la letteratura ha preteso di
farsi scienza così da acquisire un contenuto di
verità più certo; ma dove paradossalmente, a
seguito dei mutamenti epistemologici e
dell'acquisizione di nuove conoscenze, è la scienza
che si è fatta letteratura, continuando a vivere non
più della propria perduta verità empirica, ma della
sola verità poetica.
Parlare di verità
empirica nel contesto della cultura medioevale è ad
ogni modo quanto mai impreciso, dal momento che le
verità scientifiche derivavano raramente
dall'osservazione e dall'esperienza, ma piuttosto
dalla tradizione ellenistica tramandata dalle
generazioni di amanuensi, traduttori e volgarizzatori
monastici. Così è anche per i bestiari che, con
varie differenze, appaiono tutti derivati da un
trattato greco del II secolo d.C., il Physiologus,
ampiamente diffuso attraverso innumerevoli redazioni
latine e in altre lingue.
Fra coloro che nei
secoli XII e XIII si cimentarono nel genere si
ricordano Philippe de Thaon, poeta anglonormanno,
Guillaume le Clerc, cui si deve un Bestiaire divin,
Gervaise de Barberi e Pierre de Beauvais del quale si
conoscono due redazioni in prosa di un bestiario da
cui deriva il Bestiaire d'amour di Richart de
Fournival. Quest'ultimo, scritto intorno alla metà
del Duecento, istituisce una lunga serie di
similitudini fra comportamento animale e
comportamento amoroso, elaborando una sorta di
sistema di corrispondenze fra simbologia zoologica e
fenomenologia dell'amore, che per il successo e la
diffusione che ebbe fornì a sua volta lo spunto per
ulteriori elaborazioni.
In Italia si hanno
diversi esempi di testi poetici riconducibili al
modello di Richart. Fra i più noti possiamo citare
un ciclo di sonetti di Chiaro Davanzati, poeta del
XIII secolo, che può essere considerato un piccolo,
essenziale bestiario d'amore; un altro esempio lo
abbiamo poi nel Mare amoroso, poemetto anonimo
della fine del Duecento, in cui le similitudini
utilizzate per descrivere la passione d'amore sono in
gran parte di derivazione zoologica. Ma non è
soltanto la letteratura profana il luogo in cui gli
animali vengono ad essere termine di paragone
simbolico; è infatti soprattutto nella letteratura
religiosa o morale che il genere bestiario assume la
forma più sistematica. Il Libro della natura
degli animali (conosciuto anche come Bestiario
toscano o, nella redazione veneta, Bestiario
tosco-veneto) e il Bestiario moralizzato di
Gubbio sono i due esempi più cospicui.
Il Libro della
natura degli animali è una compilazione anonima
della fine del Duecento, in cui si possono
distinguere varie parti: 1) un prologo; 2) una serie
di circa cinquanta descrizioni di animali, ciascuna
seguita da una dettagliata interpretazione in senso
morale, che talvolta assume l'aspetto di un piccolo
sermone; 3) un gruppo di favole con animali come
protagonisti; 4) un secondo gruppo di descrizioni
moralizzate (presente solo in alcuni manoscritti). Le
fonti di questa sorta di trattato sono essenzialmente
due: il Bestiaire di Richart de Fournival e un
Libellus de natura animalium di cui esiste
anche una versione provenzale. Dal primo l'anonimo
compilatore sembra aver tratto le descrizioni degli
animali, raggruppandole in modo più sistematico; dal
secondo potrebbe avere avuto degli spunti per
integrare l'interpretazione simbolica e morale.
Il Bestiario
moralizzato di Gubbio è invece costituito da una
serie di 64 sonetti e può essere considerato come
una rielaborazione in chiave seria del breve ciclo di
Chiaro Davanzati. La struttura argomentativa delle
composizioni è costante, e ripete sostanzialmente
quella del Bestiario Toscano: una quartina, o
al massimo due, con la descrizione di certe
peculiarità di un animale, poi il resto del sonetto
per stabilire delle similitudini con la dimensione
del vivere umano e della morale cristiana. Anche la
scelta degli animali ripete quella di altre
compilazioni simili: predominano le bestie
selvatiche, ma non mancano gli animali domestici,
come la gallina o l'asino, né quelli fantastici,
come la sirena o il satiro.
Pur nelle loro
diversità formali, ci sembra che entrambi i bestiari
evidenzino un fatto importante per capire la cultura
che li ha prodotti: per gli uomini del Medioevo i
rapporti fra gli esseri avevano un carattere allo
stesso tempo gerarchico e di profonda, anche se non
sempre evidente, uniformità. Oggi l'uomo e l'animale
sono visti come il prodotto di differenti storie
evolutive e vengono considerati come elementi di un
ecosistema che entrambi contribuiscono a perpetuare e
trasformare. Nel Medioevo uomini, animali e tutte le
altre cose visibili e invisibili, erano anzitutto
creature di Dio; il loro posto nell'universo, fissato
immediatamente dopo la creazione, era immutabile; e
il sistema delle loro interazioni era grossomodo lo
stesso a tutti i livelli: nel mondo minerale, in
quello vegetale, in quello animale, in quello umano e
in quello celeste.
In un piccolo libro
pubblicato nel 1943, E.M.W.Tillyard ci dà una
descrizione sintetica e molto suggestiva di come gli
uomini del Medioevo si raffiguravano il mondo e i
rapporti fra le creature. Essi, dice Tillyard,
descrivevano l'ordine universale ricorrendo a tre
metafore principali: una catena, una serie di piani
corrispondenti, e una danza.
L'immagine della
catena aiutava a dar conto sia delle differenze sia
dei rapporti gerachici fra le creature. Essa partiva
dal trono di Dio, si snodava lungo tutta
l'indeterminabile varietà della creazione, e
giungeva fino all'infima materia inanimata. In questo
serpeggiare vertiginoso ciascuna specie, ciascun
genere, ciascuna famiglia, da quelle spirituali a
quelle animali, giù giù fino a quelle minerali,
costituiva un anello della lunghissima catena.
Inoltre, venendo uno dopo l'altro secondo un ordine
stabilito dallo stesso creatore, gli anelli
rappresentavano anche i gradi di una scala: dal
massimo al minimo della perfezione.
All'immagine degli
anelli ordinati in successione gerarchica, così che
la catena dell'essere finiva per tradursi anche in
una scala dell'essere, si associava l'idea della
corrispondenza dei diversi piani (o anelli o
gradini). Così, ad esempio, se sul piano umano si
potevano osservare delle società organizzate in
forma monarchica, questo fatto non poteva non
ripetersi sugli altri piani: su quello animale, dove
il leone era considerato re; su quello celeste, dove
il sole era il re dei pianeti; su quello vegetale,
con la rosa regina dei fiori; su quello infernale,
con Lucifero re dei demòni; e così via. Pertanto le
relazioni esistenti fra le creature che costituivano
un anello della catena erano grossomodo le stesse che
si sarebbero potute osservare in tutti gli altri
anelli. Ciò significava anche che, osservando certi
fenomeni su di un piano, quegli stessi fenomeni erano
necessariamente presenti, seppure in forme diverse,
anche sugli altri piani, ed era compito degli uomini
saperli decifrare e scoprire.
Infine, a queste due
immagini di successione e giustapposizione, si
aggiungeva l'idea di una danza cosmica che regolava
il continuo muoversi delle creature secondo un ritmo
stabilito al momento della creazione. Come infatti
osservava Isidoro di Siviglia: "Nulla esiste
senza musica; poiché si dice che l'universo stesso
abbia avuto forma da una specie d'armonia di suoni, e
che pure i cieli ruotino secondo i toni di
quell'armonia".
Gran parte
dell'allegorismo medioevale deriva da queste idee
sull'ordine dell'universo. In particolare dalla
convinzione che fra i vari anelli della catena
dell'essere (o se preferiamo l'altra immagine: fra i
vari piani della scala) vi fossero delle
corrispondenze strutturali talvolta immediatamente
evidenti, talvolta invece così nascoste da rendere
necessaria una raffinata esegesi.
I bestiari fondano il
loro contenuto di verità proprio su questa
convinzione: che, nonostante le innegabili diversità
quanto a perfezione, fra piano animale, piano umano e
piano spirituale vi fossero profonde similitudini, e
che queste similitudini, essendo il più delle volte
oscure, andassero lette e decifrate e interpretate
con l'aiuto della retorica, della fede o, in
prospettiva laica, della filosofia d'amore.
Ciò concorda anche
con l'osservazione fatta da Jurij Lotman, in un
saggio del 1973, secondo cui la visione medioevale
del mondo si basa sul principio paradigmatico della
sostituzione, più che su quello sintagmatico della
concatenazione. In base a questo codice di cultura,
fondato sulla semantizzazione (o simbolizzazione)
dell'uomo e di tutta la realtà che lo circonda, ogni
elemento del reale ha un significato perché
confrontabile con altri elementi che, a livelli
diversi della scala gerarchica in cui è organizzato
il mondo, occupano una posizione simile.
Nei testi che abbiamo
selezionato dal bestiario toscano e da quello
eugubino, si parte sempre dall'osservazione (che in
realtà è una citazione da altri testi) di un
comportamento animale: la tigre alla ricerca dei
piccoli che resta ingannata dagli specchi; la
farfalla (parpalione) attirata dalla fiamma fino a
morirne bruciata; la salamandra che avvelena tutto
cio che tocca; il drago che non uccide la preda a
morsi, ma leccandola; la pantera che col suo odore
attira tutti gli animali tranne il drago; il corvo
che becca gli occhi e le cervella dei morti; la
sirena che attira gli uomini uccidendoli. Esaurita la
descrizione, dal piano animale si passa a cercare sul
piano umano e su quello spirituale tutte le possibili
corrispondenze: così la tigre corrisponde agli
uomini che si fanno ingannare dal demonio; la
farfalla è il peccatore attirato dalla bellezza; il
drago corrisponde al demonio adulatore; come pure la
salamandra e il corvo sono altre manifestazioni del
maligno; la pantera è Cristo che si nutre di tutte
le anime che attira; mentre la sirena è la donna che
attrae carnalmente l'uomo.
In tal modo, se si
pensa che anche i lapidari e gli erbari si basavano
sul medesimo concetto di corrispondenza, la natura
appare veramente una foresta di simboli, simboli per
nulla convenzionali o arbitrari, ma motivati da
questa idea di una catena dell'essere i cui anelli,
via via che si allontanavano da Dio, erano una copia
imperfetta del precedente.
Nota bibliografica
- A.Carrega e
P.Navone (a cura), Le proprietà degli animali.
Bestiario moralizzato di Gubbio. Libellus de natura
animalium, Genova, Costa e Nolan, 1983. -
G.Contini (a cura), Poeti del Duecento,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1960. - M.S.Garver e
K.McKenzie (a cura), Il Bestiario toscano, in
"Studi romanzi", VIII, 1912. - C.Segre e
M.Marti, La prosa del Duecento, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1959.
- Ju.M.Lotman, Il
problema del segno e del sistema segnico nella
tipologia della cultura russa prima del XX secolo,
in Ju.M.Lotman e B.A.Uspenskij (a cura), Ricerche
semiotiche, Torino, Einaudi, 1973. - A.Lovejoy, The
Great Chain of Being, Cambridge Mass., Harvard
University Press, 1936 (tr.it. La grande catena
dell'essere, Milano, Feltrinelli, 1966). - E.M.W
Tillyard, The Elizabethan World Picture,
Harmondsworth, Penguin, 1978 (ed.or. 1943).
* Questo breve saggio
è gia stato pubblicato su "L'Area di
Broca", XXI, 59, 1994.
Dal Libro
della natura degli animali
Della natura
del lupo.
Lo lupo si è uno
animale che have in sé due proprie nature: ché elli
sì è nominato rappace, cioè rapitore, ché elli
vive de preda; e quando elli viene a intrare in
alcuno luogo per involare, sì va molto
guardingamente, e se elli facesse alcuno sentore, sì
si prende li piedi colli denti e sì se li morde
fortemente. L'altra natura si è che elli tolle lo
vigore all'omo, se ello vede l'omo 'nansi che l'omo
vegga lui; e si l'omo vede 'nansi lui che 'l lupo 1u
vegga, sì tolle l'omo lo vigore al lupo.
E anco dice omo che
ello have cotale natura che lo maschio non ingenera
fine che 'l padre è vivo, né la femina non porta
fine che la matre è viva: e questa è la
cagione perché delli lupi sono meno che delle
pecore; ché la peccora non fa se non uno solo
figliolo l'anno, e la lupa ne porta sì como fa la
cagna. L'altra natura si è che elli hae sì reddo
lo collo, che non lo può vogliere se
non collo petto insieme.
Questo lupo sì
c'insegna e mostra esemplo di molte maniere di
òmini: ché, sì como lo lupo vive de rapina, cussì
sono òmini di tanta malvagità che tuto tempo viveno
di rapina; e sì como lo lupo intra per involare
guardingamente, cussì sono certi òmini meschini che
intrano in certi offisii ecclesiastichi e mondani
propriamente per involare e per rapire quelle cose
che lo conduceno in periculo di morte, e vanno con
grande guardia monstrandosi essere quello che non
sono per intrare in quello logo; e quando avenisse
che elli si fae sentire per alcuna sua malvagia
opera, sì tribula poi se medesmo per paura di non
essere cognosciuto.
E sì come lo lupo
che tolle la voce e lo vigore a l'omo quando lo vede
'nansi che l'omo lui vegga, così divene al malvagio
omo che non si guarda del diabole: che se 'l diavole
li entra sopra colle sue rie presure, sì
li tolle la paraula e lo vigore, che non prende
confessione né penitencia del soi peccati. Ché si
trova per scritto che uno cavallieri che era molto
amato da uno grande signore si infermò molto
fortemente; e quando lo signore che tanto l'amava
intese la sua gravessa, sì l'andoe a visitare, e
cognove che non era campatoio, sì ne li
pesò molto, e confortavalo che si
confessasse; e quello respose: "Non posso, ché
lo dimonio mi tiene sì incatenata la gola ch'io non
ho balìa". Ora in cotale mainera era questo
isvigorito dal dimonio! E cussì parlando ne portò
lo dimonio la sua anima in inferno. Sì come lo omo
che tolle lo vigore al lupo quando lo vidde 'nansi
che lo lupo vegga lui, cusì devene del buono omo che
si sa guardare e vede che cosa è lo dimonio e
cognosce le sue opere, sì li tolle forsa e vigore
che non pò fare danno alla sua anima, ansi daneggia
lo buono omo lui che con soi buone paraule e con soi
boni fatti sì li tolle 1'anime le quale elli
menarebbe ad inferno; e in cotal maniera 1'omo
isvigorisce lo dimonio.
E cossì come lo lupo
non engenera né nonne engravida fine a tanto che è
vivo lo patre del rnaschio e la madre della femena,
cossì vene dell'omo peccatore che infin a tanto che
'1 peccatore dimora indel peccato, tutte le sue opere
sono sensa frutto dinansi Dio; e infine a tanto che
dimora indel peccato, lo padre e 1a matre del peccato
non pò fare frutto che piaccia tanto a Dio che lui
possa salvare. E chi è padre e madre del peccato?
Superbia, che è il
principio del
peccato, e ingratitudine, che tutti li nutrica quanti
omo ne fae. E sopra queste due malisie si potrebbe
molto dire, ma darovene verace esemplo che è come io
vo' dico. La Scrittura Santa dice che 'l primo
peccato che si pensoe si fue superbia, launde
Lucifero cadde in profondo de l'inferno, ch'era
indel'alta gloria. Apresso si è ingratitudine
notricatrice di tutti li peccati: ché similemente
Lucifero, che era lo più bello e lo più savio
angelo che Dio creasse, sì regnà in lui la
discognoscensia di tutto questo benefisio, e volse
essere pare del suo creatore; lo simigliante divenne
d'Adamo e di tutti quelli che peccano. Or questi
principi delli peccati convene che omo abandoni e
possa fare frutto che 'l conducerà indel regno del
cielo. Dunqua da che lupo, che è rapitore, ne
monstra cotanti esempli, dunqua bene dovemo aprendere
della pecora che è sì mansueta ed è di tanto
frutto.
Della natura
del cécino.
Lo cecino si è uno
uccello che è de grande corpo ed è quasi tutto
bianco, ed have cotal natura ch'elli canta
volontieri, e quando omo li sona uno stormento che
si chiarna arpa, sì s'accorda con esso in cantare,
sì como lo flauto co lo tamboro. E anco è di tale
natura che quando si appressima lo tempo che de'
morire, sì canta fortimente e bene, sì che cantando
finisse sua vita. Anco dice l'omo quando
ode uno bene cantare: "Quello cécino è al
tempo de finire".
Questo cécino puote
l'omo assimigliare a' buoni òmini del mondo, ché li
buoni òmini di questo seculo sì sono grandi
appresso del Nostro Segnore in virtude, in grasia, e
sono bianchi in puritate e in bona operasione. E sì
como lo cécino che canta voluntieri e che s'accorda
di suo cantare con quello stormento che ditto è, lo
simigliante diviene del buono omo: ché 'l
buono omo sì dice molto voluntieri lo bene che sa e
istudiasene, e sì adora lo Nostro Signore e laudalo;
e quando ello ode alcuno buono predicatore sì
s'acorda con lui, e piaceli molto lo suo predicare, e
ridicelo per quello medesemo sòno a l'altre persone
per poterli salvare per le soe buone paraule. E sì
come lo cécino che quando viene presso alla sua
fine, che se studia molto di cantare e more cantando,
cossì divene delli buoni òmini del rnondo, ch'elli
se vedeno che intanto che omo nasce in questa
temporal vita sì entra indel camino de la morte, sì
como disse lo Nostro Segnore indel Vangelio:
"Vigilate quia nescitis diem neque horam quando
Dominus noster venturus sit". E viveno tutta ora
benedicendo, e quando viene a la fine sì si
confessono de li loro peccati e pregano lo Nostro
Salvatore che li conduca al suo repuoso, e cussì
finisseno la lor vita.
Della natura
della scimia.
La simia è uno
animale di cotale natura che ella vole contrafare
ciò che vede fare; anco è d'un'altra natura, che
ella se fae dui figlioli a una volta, e nutricali
ambo voluntieri, ma pone più amore indell'uno che
indell'altro, e di questo diviene così che quando lo
cacciadore la trova, sì li va sopra per prendere lei
e li suoi figlioli. E questa, quando vede venire lo
cacciatore, sì prende questi suoi figlioli, e briga
scampare con essi in cotal mainera, che elli sì si
reca fra le braccia quello che più ama e l'altro
getta po' le spalle, e tanto fugge cussì, che lo
cacciatore la sopragionge, ed ella vede che non pò
campare correndo con due pede: sì lassa quello
figliolo che hae entra le braccia per potere campare
con quattro piedi, sì che perde quello figliolo che
più ama e quello che meno ama sì campa.
Ancora li cacciatori
che conosceno ch'ella contrafà voluntieri ciò che
ella vede fare, sì vanno in quella locora uv'eli
vedeno usare le simie, e portano calsaretti picciuli
como piedi di scimie, e ora sì si calsano e se
scalsano molte volte, e le scimie stano a vedere; e
l'omo sì si parte e lassa videre li piccioli
calsari, e la scimia guarda, e non vede l'omo, sì
descende de l'arbore a quelli calsari, métteseli in
piede e légaseli molto bene stretti, e l'omo stae al
tratto e esce fuore per prenderla, e la scimia vole
fuggire e non può, sì l'omo la prende.
Questa simia, quando
contrafae ogni cosa, sì li simigliano tutti quelli
che peccano voluntieri: ch'elli contrafanno lo
dimonio, che fue quello che prima peccò. E sì sono
altre gente che, si elli vedeno fare usura, e egli la
vogliano fare, si elli vedeno lusurii elli la
vogliano fare, se elli vedeno biastimare o involare
sì vuolono fare, e cussì fanno di tutti li peccati,
sì che '1 diaule li cognosce di quale peccato li
può prendere, sì lo impania sì che l'omo non se ne
sae partire, e ora lo sopragiunge a la fine e portane
l'anima in inferno.
E sì como la scimia
che abandona lo figliolo che più ama, e quello che
meno ama non si parte da lei, lo simigliante diviene
dell'anima del mondano omo: che l'anima di collui che
non è congiunto con Dio sì ha due cotale figlioli;
e ciascuno nutrica voluntieri l'uno figliolo, si è
lo corpo e le suoe dilettasione; l'altro figliolo si
è l'opere malvagie ch'eli fae. Lo cacciatore che lo
vae cacciando si è la morte: ché omo, fin che nasce
indel mondo, sì lo va cacciando la morte, e questi
va fuggendo dilettandosi indel corpo e in quel1e cose
che '1 corpo li dimande, e l'opere suoe si getta dipo
le spalle e no ne mette cura. E quando viene a la
fine, l'anima non pò dimorare indel corpo, ché la
morte la sopragionge, e sì è in besogno che l'anima
abandoni lo corpo e le sue delettasione; e le opere
suoie mai l'abandona. Sì como diceno li sacerdoti a
la fine de l'omo: "Opera enim illorum secuntur
illos".
De la natura
del corbo
[Nel testo che segue
il verso del corvo, "crai", viene
interpretato come una deformazione del latino cras,
che significa "domani".]
Lo corbo sì è uno
uccello tutto nero, ed ha cotal natura che quando li
suoi figlioli nasceno, sì nasceno tutti bianchi, e
quando elli vede che non sono del suo colore, sì li
abandona e non dà loro beccare fine a tanto che non
sono diventati neri; e Dio li pasce in quello messo
di rosata [rugiada]. E la sua voce sì è cotale
ch'elli dice: "Crai, crai!" Ed ancho hae
cotale natura che quando elli trova uno omo morto, la
prima cosa che elli ne becca sì ne tragge l'occhi e
vanne fine alla cervella.
Questo corbo, quando
che elli abandona li soi figlioli e Dio li pasce in
questo messo, sì ce monstra a lodare lo Nostro
Segnore che notrica quelli ucelli che sono
abandonati. Ché sono una mainera de gente che hanno
tal paura che non vegna loro meno le loro richesse,
che tutto ciò che elli hanno pare loro poco, e stano
piue in rangulo d'acquistare per lassare a li lor
figlioli, e non se ricordano de la potensia di quello
Signore che nutrica quelli corbi. E cussì sono una
mainera di gente che sono in peccati, e tanto li
tiene acecati la loro fellonia, che non cognosceno lo
loro malo stato, e sì non ne sanno 'scire, ansi pur
dicendo: "Dimane, dimane!" Sì se ne vanno
sensa confessione e sono perduti.
E sì como lo corbo,
quando trova lo omo morto, sì li becca l'occhi e la
cervella, simigliante diviene dello dimonio: ché
quando lo dimonio trova l'omo che è in peccati, sì
li trae li occhi de la mente, e sì ne cava lo
cervello, cioè che li tolle la bona materia. Che
intanto che l'omo è in peccato, sì è in morte, e
lo dimonio have adesso balìa di lui; e perciò
dovemo noi guardare di peccare e di stare in morte di
peccati, a ciò che 'l dimonio non ci possa tollere
lu lume della mente che demonstra a vedere lo
criatore nostro e le suoe virtude, né 'l senno
materiale che c'insegna la via ch'è eternamente
durabile di gloria.
Della natura
della serena
La serena si è una
criatura molto nova, ché elle sono di tre nature.
L'una si è messo pesce e messa fatta a similitudine
de femena; l'altra si è messo uccello e messo
femena; l'altra si è messo como cavallo e messo como
femena. Quella che è messo pesce sì ha sì dolce
canto, che qualunque omo l'ode sì è misteri che se
li apressime; odendo l'omo questa voce, sì si
adormenta, e quando ella lo vede adormentato sì li
viene sopra e uccidelo. Quella che è messo cavallo,
sì sona una tromba che simigliantemente è sì dolce
che occide l'omo in quella medesma maniera. Quella
ch'è messo uccello sì fa uno sono d'arpa di tale
mainera che simigliantemente è omo tradito e morto.
Questa serena potemo
noi appellare le femene che sono di bona
conversasione, che ingannano li òmini li quali
s'inamorano di loro carnalmente, che per qualunqua
cagione li òmoni s'inamorano di loro, o per belessa
di corpo o per vista che ella li faccia u per paraule
inganevile ch'ella dice, si può tenere morto sì
como collui cui la serena ne inganna: che chi di
folle amore è preso, bene pò dire che sia morto in
tutti l'altri suoi fatti. Sì como dice in uno luogo:
"Quando l'omo è d'amore preso, arivato è a mal
porto; allora non è in sua bàlia"; e chi per
sua mala ventura morisse in quello stato, puote dire
che sia morto in anima e in corpo.
Della natura
del tiro.
Lo tiro si è una
bestia che è più currente che nulla
bestia che omo conosca, ed è de tal natura ch'elli
si deletta de mirare indel specchio, sì che quando
lo savio cacciatore vae per prendere li suoi figlioli
a la tana, se porta con seco molti specchi, e vasene
a la tana del tigro, e quinde li soi figlioli trae e
partese con essi. E quella via ond'elli fugge sì va
ponendo li specchi; e quando lo tiro torna a la tana
e non trova li figlioli, sì se mette a
correre di grande forsa, sì che bene giungerebbe
lo cacciatore; ma trova questi specchi per la
via, sì se regge a miralli, e non
seguisce più lo cacciatore: che s'elli vedesse li
suoi figlioli e vedesse li specchi, si laserebbe
portare via li figlioli per mirare li specchi.
Questo tigro
significa una partita d'òmini correnti
che non hano stabilità neiente: ché quando lo
dimonio cacciatore e furatore dell'anime li ha tolta
l'anima per alcun peccato mortale, si como per
superbia e per vanagloria e per avarisia e per
invidia e per molte altre presure con che
elli piglia l'anime, si connosceno che sono in malo
stato e briganosi di racquistare l'anima con grande
furia, digiunando, affliggendo lo corpo in
pelegrinaio. E in cotale mainera lu dimonio, che fae
più che tra tutti li òmini del mondo in male
operare, e di bene fare non ha podere neiente, sì si
traversa loro innansi con quelle cose di ch'elli li
crede fare bistentare di racquistare le lor anime, e
mostra loro ricchessa di pecunia e di possessione che
tolleno l'anime delli òmini più ch'altre cose che
li òmini danna; dall'altra parte l'inganna per
vanità e per diletto di femene e per amore di
figlioli: ché ne sono molti ciechi, che per tenerli
in agio e per lasarli in agio, che ne lassono perdere
le loro anime; e sì como traversa loro innansi
questo, così fa de molte altre cose, e li
òmini biegi sì ponno tanto lo loro entendimento in
queste cose che '1 diavole traversa loro innansi, che
n'abandonano la loro anima sie in tal guisa che lo
diavole ne va con essa in inferno. E questo divene
tutto giorno, che vedeno certanamente perdere la loro
anima, e si lassano perdere per questa vanitade.
Della natura
della pantera.
La pantera sì è una
bestia molta bella, ed è negra e bianca macchiata, e
vive in cotal guisa che della sua bocca esce sì
grande olimento che quando ella grida tutte le bestie
che sono in quello contorno trae a sé, salvo che li
serpenti fuggeno; e quando le bestie sono tutte a
lei, ed ella prende di quelle più li piaceno e
mangiale. E possa se pone in alcuno logo a dormire, e
dorme tre giorni, e poi se leva e grida;
simigliantemente e in cutal mainera se notrica tutto
tempo.
Questa pantera
significa alquanti boni òmini di questo mondo, li
quali gridano ferventemente e predicando le paraule
dolcissime che conduceno l'anime a vita eterna, si
traggeno a loro per aulimento tutte le creature che
credeno in Dio veramente. Secondo che lo serpente
fugge della pantera, così fuggeno tutti li
mescredenti iniquitosi da udire le paraule delli boni
predicatori aulimentosi. E sì como la pantera se
notrica di chelli fere che lui più
piaceno, simile fae lo bono predicatore: ché quando
elli vede li boni òmini e le bone femine che piaceno
loro, sì è loro grande vita e grande notricamento.
E ancora ce acquistano la vita durabile di paradiso:
ché quando elli per la loro predicasione fanno
salvare l'altre gente, sì n'acquistano elli le loro
anime: ché la Scrittura dice che chi per sua
predicasione o per sua bona conversasione fae salvare
l'anime, sì have quadagnato la sua anima e la
altrui.
E sì como la pantera
dorme tre giorni e possa grida simigliante como di
prima e pascesi, così fanno li boni predicatori, che
più dimorano in leggere le sante scritture e in
esponerle e in masticarle e in pensare in la
profonditate de la divinitade de Cristo, che non
fanno in predicare a la gente. E puosi bene dire
ch'elli dormeno quanto che del corpo,
quando elli sono occupati de queste ed in queste
cotale cose, sì come se trova di molti santi; e
diròvi di santo Bernardo, che fu de questi
aulimentosi predicatori, che cavalcando elli con soi
monaci in uno viaggio, passoe per una cittade e non
se ne avide, tanto era occupato indelle celestiale
cose, ansi appena lu credea alli soi monaci quando lo
disseno.
E sì como è bella
ed è de nero e di bianco macchiata, lo simigliante
diviene delli amici de Dio, ch'elli sono bellissimi
apo 'l nostro criatore, e sono macchiati quanto
ch'elli sì hanno molte volte delle tentasione e
delli mutamenti, sì como hae ciascuno omo in questo
mondo fine ch'elli ci stae. Ma sono di migliori e de'
più belli, perché provano bene ch'elli sono
simigliati all'oro che rafina indel fuoco.
Della natura
della vipra dragone.
Uno dragone è lo
quale ha nome vipra, che non ce sono di nessuno tempo
più che dui, ed hanno una meravigliosa natura: che
quando lo maschio vole ingenerare, sì vae e mette lo
capo in bocca a la femena, e quella li taglia la
testa colli denti e lassalo quine morto. E dello
sangue che ingiotte sì ingenera dui
figlioli, uno maschio e una femena. E quando elli
vieno a nascere, sì fanno crepare la loro matre e
escino fuore, e cussì more lo maschio e la femena
malamente tutto tempo, e in cotale mainera nasceno.
Questi dragoni
significano e mostrano a lodare lo nostro criatore e
la potensia, ché indele meravigliose cose si
manifesta la grande potensia del nostro criatore.
Iesù Cristo disse a li discipuli suoi, quando elli
dimandòno d'uno ch'era nato cieco, e dissenoli:
"Magistro, per che cagione nacque questo cussì?
Che peccato avea elli fatto unde elli debbia avere
questa pena?" Elli disse: "In costui si
manifesta la gloria e la potensia de Dio".
E in altra mainera
sì podemo assimigliare lo dragone maschio al corpo
del buono omo, e la femina draga sì potemo
assimigilare all'anima del bono omo: ché l'anima e
lo corpo tramburo fanno uno omo, e partendo l'uno
dell'altro non è mai omo, e tuto tempo
che stanno insierne sì hanno contensione, ché 'l
corpo vele compiere tutte le sue voluntade e 1'anima
fare quello ch'ella vada indello regno di
Cielo: ché quando lo corpo non fa la voluntade
dell'anima, sì 'l mette l'anima e conduce in
aflissione ed in morte e in ispargimento di sangue,
sì come divenne dei santi martiri e di quelli che
hanno afflitto lo corpo per l'amore di Cristo e per
la salute della loro anima. E quando lo corpo pate
pena, sì pate pena l'anima, ché l'uno non può
patire pena senza l'altro: sì che quando l'anima ha
patito pena, sì ne nasceno altre due, cioè anima e
corpo; che quando vene lo die del Giodicio, a
ciascuna anima buona sì è renduto uno corpo
glorificato che fie lucente per sette fiate lo sole.
Or in questa maniera rinasce dell'anima e del corpo
del buono omo gentile anima e gentile corpo.
Della natura
della aquila.
L'aquila si è uno
gentile ucello, ed è ditto signore de li altri
ucelli, ed have in sé due cutale nature: l'una si è
ch'ella sì prova li suoi figlioli se elli puono
mirare fermamente indel'occhio del sole sì como può
fare ella, e dirissali inverso lo sole, e batte l'ale
sì che ela li vede chiaramente simile di sé, e
possa si fida ch'elli sono suoi figlioli; l'altra
natura si è che quando ella è invecchiata, sì si
briga di ringiovanire in cotale maniera, ch'ella vola
tanto alto in aire quant'ella può, sì che lo calore
che è in aire sì l'arde e strina tutte le penne; e
quando ella se trova dirissata sopra una fontana, e
quella vi si lassa cadere dentro, e voltasi
sottosopra tre volte, ed in cutale mainera si muta e
rinovella.
Questa aquila, in
ciò ch'ella fa prova de li suoi figliuoli s'elli
hanno la sua gentile natura, sì significa tutti
quelli che mirano co l'occhio del cuore inverso di
quello splendore che tutto lo mondo alumina, cioè
Cristo, e conosce che quelli è quello che fece lo
cielo e la terra e tutte le criature che vi sono, che
elli non ebbe unqua comminciamento né non dé avere
fine, che tutto lo mondo si governa per lui, e che
elli dà penitensia del male u quie u altroe, e che
elli dà guiardone de bene o qui o altroe, e ch'elli
è giusto e misericordioso e grasioso, e ch'elli
discese di cielo in terra per salvare la umana
generasione; e che credeno che elli è uno solo Dio
in tre persone; e che conosceno l'alta divinitade del
figliolo de Dio vivo e vero - tutti questi cotali si
puono asimigliare ad aquila, sì como divenne de
santo Giovanni evangelista, che si dipinge como
aquila per cagione ch'elli fue quelli lo quale parloe
e vide di queste altitudine che dite sono, ché elli
fue quelli che disse quello Evangelio altissimo lo
quale dice: "In principio erat verbum".
Dunque di tutti questi cotali puote ben dire lo
nostro padre celestiale: "Questi sono
veracemente li miei figliuoli".
E sì come l'aquila
che si rinovella batteggiandosi tre fiate
in acqua, lo simigliante diviene di tutti quelli che
si batteggiano del santo battesmo: che vi sono
tuffati tre fiate, che vi sono rinovellati indela
fede di Cristo e indela sua ubidiensa, ed hanno
lassati li peccati d'Adamo e la sua disubidiensia;
per li quali vecchi peccati conviene che omo prenda
battismo: che se battismo non fusse, per quelli
vecchi peccati saremmo tutti dannati. E anco si
intende che quando omo è invecchiato indeli peccati,
si conviene che si rinovelli per confessione e per
contrisione e per penitensia, che si chiama uno altro
battismo, sensa lu quale nullo omo si poe salvare. Or
in questa mainera conviene che omo si rinovelle sì
como fae l'aquila.
Della natura
del cervio.
Lo cervio sì ha due
nature e due figure: l'una si è ch'elli tira a sé
di sotterra o de li pertusi della pietra grandi
serpenti e mangiali, e lo loro veneno tolle molto
indel suo corpo, e allora viene con grande volontà a
la fonte de l'acqua ed empiene molto di quella acqua
lo suo ventre, e cussì vence lo veneno e fasi
giovano e getta le cornua.
Così dovemo noi
fare: quando è in noi lussuria o odio o ira o
avarisia o altri visii, sì dovemo currere a la fonte
viva, cioè a Cristo, con buone opere che per la sua
grande misericordia infunde lo Spiritu Santo in noi;
si noi serviremo a lui, farà fuggire da noi tutti li
nostri peccati, li quali in noi seranno.
E un'altra natura ha
lo cervio: che quando elli vole passare alcuno fiume
ed è fatigato di natare, apoggiase di sopra da
l'altro dosso; e cussì fanno tutti, e per questo
giamai non si fatiga quando va lungi a pascere. E
cusì dé fare ciascheduno cristiano s'elli vuole
andare ai paschi di Cristo, cioè a vita eterna; e
cusì dé ciascheduno peso de l'altro portare,
secondo che dice Paulo apostulo: "Unus alterius
honera portate, e cusì adempiete la legge di Cristo
e vita eterna possidrete".
Dal Bestiario
moralizzato di Gubbio
De la tigra
Quando la tigra va
ein alcuna parte,
Lo cacciator con grande maiestria
Li filioli fura e se departe,
E va geiettando specchi per la via.
Ella tornando trova
la mala arte;
Mettese a gire, lo vetro splendea,
La sua figura ein eso se comparte,
E pensa che lo suo filiolo sia.
Noi semo quella fera,
al mio parere,
E li filioli sono le vertudi,
E lo nemico è questo caciatore,
La cosa che non è,
te fa vedere;
Onde sono molti omini periti
Che alentano de gire a lo Signore.
Del parpalione
Lo parpalione corre
la rivera,
Là ove vede lo claro splendore,
E tanto va girando la lumera
Che lo consuma lo foco e l'ardore.
Pare che tenga simile
mainera
La creatura a l'omo peccatore,
Colla beleza de l'ornata cera
Lo lega a terribile encendore.
Chi vede creatura
delicata
Dea considerare chi la fece,
E dealini rendar laude d'onni bene.
Cusì la vita sua
serà beata;
E in altra guisa piglia mala vice,
Che perde possa e merita le pene.
De la
salamandra
La salamandra tanto
è venenosa
Che li poma de li arbori invenena,
Là ove sale, sì è nequitosa
E de mortalissimi omori plena:
Sua conversione è
dubitosa,
Ov'ademora dà tormenti e pena.
La dura salamandra vitiosa
E' lo nemico che a morir ne mena
La creatura, dove pò
salire;
Ché li envenena viso e odorato,
Audito, gusto e tatto ensiememente.
Chi non s'aiuta a lo
primo sentire,
Esso perescie e fa pericolare
Chi le ten compania lontanamente.
Del dragone
Odo che lo dragone
non mordesce:
Sotraie dolçemente e va lecando,
E per quello lecare omo peresce,
Ch'a poco a poco lo va envenenando.
Così chi co la
lengua proferisce
Belle parole e va male ordinando,
Dà lo veneno a chi lo soferesce,
Ché li falesce ciò che va sperando.
Non morde lo nemico
emprimamente:
Lecca e losinga per traiere a luie
La deletosa gente secolare.
Chi più li se farà
benevolente,
Maiuremente consuma e destruie,
Ché non è dato a fare altro che male.
Del castore
De lo castore audito
aggio contare
Una miraculosa maraveglia:
Quando lo cacciator lo dee pigliare,
Nella sua mente tanto s'asotiglia
Che sa la cosa per
che pò scampare;
Departela da sé, poi no lo piglia;
E questi son li membra da peccare,
Che occidon l'alma che non se n'esveglia.
E' lo nemico questo
cacciatore,
Che caccia l'omo, enveice de castore,
Per prendarelo stando nel peccato;
Ma l'omo che se pente
de buon core
Del male fare, e non ce fa retorno,
Remanda lo nemico sconsolato.
De la pantera
Vocase una animalia
panthera,
Che alenando tale odore rende,
Ne lo paese no remane fera
Che non ce corra, quando se protende,
Sença lo drago, ché
no'l soferrera
Lo prezioso odore che li affende:
Ella se pasce per tale mainera.
Homo a salute d'anima se 'ntende:
Cristo è la fera co
lo dolçe odore,
Quelle che corrono l'anime sante,
De le quali per vivo amor se pasce;
Lo drago è nemico
traditore,
Che de lui odorar non è possante,
E pena dolorosa le ne nasce.
[Uroboro 7, Edizioni
Mediateca, Campi Bisenzio, 1999.]