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"L'area di Broca", XXI, 59, 1994

ANIMALI

 

Mariella Bettarini

Animali

("Homo homini lupus"? No. "Lupus lupo homo"? Nemmeno...)

Capovolgere la celeberrima massima "homo homini lupus"), di hobbesiana memoria, con "il lupo è uomo al lupo" significa (credo) introdurre il tarlo, il virus benefico della dialettica, della contraddizione (che non è semplice contrapposizione, ma anche il germe stesso del superamento del dualismo. Dire, infatti, che il lupo è uomo al lupo significa ancora rendere negativo qualcosa a qualcuno, ossia usare ancora negativamente d'una categoria (in questo caso l'umanità, nell'altro la "lupità") vista quale fonte di mali, di storture, di nefandezze. Dovremmo dunque superare anche questa (non tanto per rispetto di noi uomini quanto per rispetto dei lupi). Ma intanto, per ora, eccoci - uomini e donne - geneticamente, storicamente, eticamente presi alla tagliola delle nostre oscure dualità, di cui quella uomo-lupo è solo una delle infinite possibili. Eccola, la nostra umanità "lupina", la nostra ferocia, la nostra colpevolezza verso il lupo (quasi mai consapevoli, noi, d'esser lupi a noi stessi) per dire - in metafora - verso l'intero Regno animale, nostro antecedente, misterioso "antenato".

Un discorso, un tema di moda, questo, si dirà. Ed è vero. Un argomento scontato, previsto. Ma non mai a sufficienza scandagliato, mai esaurito, specie se ad affrontarlo (l'argomento, il problema "animali", gli animali in sé, ma anche questi nel loro rapporto con l'uomo, e nostro con essi) non sono zoologi, etologi, studiosi mossi da un interesse diretto, contingente, né animalisti, ambientalisti, mossi anch'essi da passione dedicatoria, da giustizialismo e debita "civiltà" (doppiamente valevole se, a tentare di riequilibrare lo stravolto habitat del pianeta, l'uomo non ha che da guadagnarne); se il problema viene affrontato non da moralisti, da "teologi della liberazione" (in questo caso animale), da illuministi post litteram, ma da scrittori soprattutto, da "cercatori", da pensatori senza presunzione, da cives che hanno riflettuto insieme sul leopardiano gallo silvestre e sulle favole di Mamma Oca, sul cetaceo di Melville e sulle rane aristofanesche, su Paperone e sul lupo della steppa, sull'uomo dei lupi e sul gatto con gli stivali, sul kafkiano scarafaggio e sugli "scarafaggi" di Liverpool, sullo zoologico karma buddista e sulla balena di Pinocchio, sulle infinite metamorfosi animali delle mitologie di tutto il mondo e sulla lonza e sul veltro danteschi, sul perché della salvezza degli animali nell'arca e sulle prediche agli uccelli di S. Francesco (qui ci sarebbe da aprire un immenso capitolo su certe devianti radici cattoliche che, con l'insopportabile ricatto della presenza o presunta assenza dell'anima, hanno contribuito a demonizzare ugualmente donne e uomini colpevoli - secondo una non remota teologia - d'essere privi d'anima, insieme ai "perfidi Giudei", agli atei e agli "infedeli" d'ogni sorta. E andrebbe indagato a fondo quando e perché s'è creata tanta distanza incolmabile tra gli animali degni di salvezza, appunto, nell'arca e il seguente disprezzo cattolico).

Un approccio, quindi, il nostro, non proprio da specialisti, ma da raziocinanti e appassionati individui che tentano di non chiudere gli occhi, di non tapparsi le orecchie dinanzi a una sterminata materia di riflessione e di indagine.

 

Mariella Bettarini

da Anime/animali

Nel mio (sempre parco) zoo domestico, anni addietro, mi trovai ad acquistare (ma si possono "acquistare", vendere e comprare animali? Si può essere padroni dell'assoluta libertà d'altri esseri viventi?) prima una, poi un'altra piccola tartaruga d'acqua. Con esse anche una vaschetta di plastica che, al centro, aveva un rialzo con due o tre scalini a formare una minima isola, al sommo della quale era stata issata una palmetta, essa pure di plastica. Le tartarughine nuotavano, salivano sulla piccola isola mangiavano larve essiccate, facevano in tutto e per tutto una obbediente vita da tartarughe da mostra, in mostra di sé, sotto gli occhi di immaturi giganti che le sollevavano, le nutrivano, le pulivano, le tormentavano padroneggiandole completamente. Demmo anche loro un nome, anzi due: due nomi antropocentrici: Samuel ed Emily, da quelli di due scrittori molto amati: Beckett e la Dickinson. Poveri, piccoli rettili (anfibi quasi, per via del duplice elemento: acqua e terra), nel gioco innocente quanto feroce d'una (per i giganti) ininfluente avventura "zoologica": della propria serissima, unica vita per essi: unica e irripetibile. Ma non sempre tanto a fondo si pensa quanto profondissimamente pur si dovrebbe: e questo è colpevole, è questa la colpa. Noi la compimmo, innocenti quanto si può, quanto si può esserlo essendo umani in un regno che non è nostro: disumani in un regno che mai è stato nostro.

Emily e Samuel vissero, dunque, nel piccolo recinto di plastica: coccolate, ammirate, vessate. Vissero vari mesi della propria invariabile vita: seri giocattoli, distrazioni minuscole, minime rarità, piccole tenerezze da mostrare ad amici e parenti. Poi, un giorno, Samuel (mi pare) felicemente tentò la scalata che tentava da sempre: salire le lisce pareti della piccola vasca per guadagnare il mondo più vasto. Portatosi in alto, si ritrovò poi (nessuno s'era accorto come), scivolando e volando, per terra. Lì continuò un suo ostinato percorso di vita e di libertà, di libertà per la vita, di vita rischiata persino pur d'accedere a libertà. Uno di noi se lo trovò sotto i piedi: una scarpa sperimentò l'efferato rumore insopportabile di schiacciare una carne vivente: Samuel l'orrore dei cingoli, il peso di quanto può pesare una vita quando è presso alla morte. Lo sollevammo con amore e dolore infiniti per quella comune tragedia: ricordo che piansi (senza consolazioni possibili) su quella ferita, su quel piccolo grumo di sangue.

Samuel visse ancora qualche tempo, prediletto per sempre, da sempre muto, accanto ad una silenziosa Emily. Poi l'uno morì e morì pure l'altra dentro quell'acqua, dentro l'orrenda vaschetta fatale. Mi cingevano assieme viva pietà e inabile colpa, compassione e pungente disagio. Non volli più avere animali. Non sottostetti più allo zoologico estro. Il loro intoccabile mondo, quell'immenso loro reame m'è dentro senza bisogno del fuori: amo le "anime", le ombre di Emily e Samuel senza avere più voglia di possederne i corpi: egocentrica, fosca necessità che appaga solo se stessa, anche se, a dire il vero, del corpo, dei corpi (animali e umani) i nostri corpi han bisogno (per essere corpi) e dunque quei corpi che ho amato riamo, non scordandomi mai né d'essi né (tramite loro) di vita e di morte, che del corpo (dei corpi) sono i necessitati complici, gli struggenti compagni.

 

Mirco Ducceschi

da Brani sciolti

Non sempre le tue parole mi giungono intere, dev'esserci come un topo (attento e beato), che le rosicchia per strada. Sarà un topo che ama i tuoi discorsi, o forse no, meglio, solo il gusto delle tue parole, il che peggiora le cose. Non ho potuto, ad esempio, farti ancora la spesa del giorno. Ho ricevuto per questa soltanto suoni mèzzi o spezzettati, tritumi, e si è presentata una lista così incerta di cibo che ho trovato disperante risolvermi, null'altro. Quel topo intacca, a mio avviso, qualcosa di essenziale tra noi, qualcosa di fondamentale per il nostro dialogo, e con ciò intendo dire il tuo sostentamento naturale.

Anche oggi, dunque, dovrai digiunare, facendo a meno persino delle lamentele, perché il topo rosicchierebbe anche quelle, rosicchierebbe anche il dolore. Lo so, dovresti forse tacere, tacere per anni, affamare il topo, farlo crepare, spingerlo ad ingozzarsi di silenzio. Ma io, nel frattempo, di cosa mi nutrirei?

*****

Incolmabile è il passo di una formica. Già alla distanza di un metro lo si scorge appena come vibrazione o tremore di un punto nero o rosso cupo, e soltanto se il suolo chiaro offre un contrasto, se una pagliuzza o un seme non lo nascondono. Pensa, allora, dalla profondità di un cielo, la vastità di quello spostamento.

*****

"Qual è per te la cosa più bella?" chiese d'improvviso lo scarafaggio al verme.

"La mia nudità".

*****

Dai via libera ai cavalli nella stalla, voglio partire. Sciogli non le briglie ai morsi, ma dai colli i crini appaltricciati, ché il vento della corsa non li strappi, cava, svelto, non la loro testa dal fieno o dalla biada, ma dagli zoccoli quei ferri maledetti che piagano la strada, poi lascia che le froge si dilatino e si dissolvano in brughiera e quindi in nebbia.

Fa' come ti dico, servo, non tormentarmi. La porta è solo affar tuo.

*****

"Freddetto", "ghiaccetto", "stanchetto", così ti esprimevi. Una volta trovasti addirittura un "uccelletto feritetto", e mi sembrò una frase cosi bella: cadere dalla feritoia di un tetto, ferirsi, ma anche il tetto (feritetto) era ferito, cadere dunque da una ferita e ferirsi, uccellino di tetto (uccelletto), forse uccelferitetto, ferita di una ferita che si apre e si ferisce.

Bello fu anche sapere che rimediasti con amore a quella serie già sconsolata di ferite, per le tue stesse piume.

*****

Ero pressappoco così: un animale paralizzato da giorni di iniezioni. Mi avevano steccato gli arti, ricucito le palpebre, bendate le orecchie; la coda (che sapevo lunga e mobile) era fissata alle assi della gabbia con un chiodo, una cinghia di cuoio mi passava sul dorso e continuamente veniva serrata.

Voci di laboratorio dicevano: "Ma questa bestia non reagisce!"

*****

Cani che si aggrediscono negli antri del quartiere, voci (lo sono) che si accordano ai muri fino a raggiungere l'eco (e l'apertura a valle). Un cane si distingue per toni molto bassi e lenti (talora gravi), un altro pare solo guaire (ma non mostra per questo timore o timidezza e incalza). Insieme agli altri (agli intermedi) si confondono, latrano nel baccano dissonante, liberamente. Troppo. Il nostro consueto udire non chiarisce (ma se ci pensi hai una gran voglia di ululare).

*****

In quale senso "chiamo" ma non "richiamo": nella linea netta tra l'invocazione e il messaggio, tra la febbre lucida e il delirio, tra il chiedere e il purché sia, senza richiedere mirando ai particolari. Convinto che in ciò si mimetizzi la mia trappola, schiamazzo, è la mia interiorità.

Ecco in quale senso "schiamazza" il lupo.

*****

Si spaventarono tutti i passeri raccolti sulla strada, si mossero (ma poco) le foglie di un'esile betulla, la sponda del fiume si sciolse nel barlumio di un sole radente, il volto di un giovane seduto all'angolo di un bar s'incupì. Allora svettò, alta, tra i palazzi, la carlinga lucente di un aeroplano, i girasoli, rasi dei petali, si chinarono come crani stanchi e solenni, e l'aria, scottante, sembrò un faticoso boccone da consumare. Per più di un momento un dolore sordo risalì da un piccolo viale alberato, spinto da mani fraterne, e ancor più a lungo la mano tesa di un bambino indicò un uomo distante, che passava in bicicletta. Senza opprimere, la calma si distese (parve di attraversare allora un aperto corridoio di brezza) e uno scrittore, da una stanza foresta, si accorse che nel finire dell'estate anche il suo attimo, maturando, rallentava. Sorridendo scrisse: "Dato: la fame del lupo è proverbiale, ma la sua vera fama resta l'inappetenza".

 

Alessandro Franci

da Amati animali

Per il "bollito misto" sono consigliati seicento grammi di polpa di manzo, presa dalla culatta, oppure dalla spalla; un capponcello, o mezza gallina; sono indispensabili poi altri seicento grammi di vitello tra punta di petto, coda, lingua, testina; volendo, infine, un cotechino.

Per la "finanziera", invece, quattrocento grammi di interiora di pollo, in prevalenza fegatini, creste, bargigli, ovette; cento grammi di polpa di manzo; cento grammi di polpa di vitello; cento grammi di filoni di vitello; cento grammi di animelle di vitello.

Chi dovesse preferire il pesce, può ripiegare sul "cacciucco alla livornese": un chilo e mezzo di pesce tra scorfano, triglia, nasello, murena (facoltativa), grongo, seppie, cicale, totani, polpi; infine un'aragosta, in alternativa, alcuni gamberoni per un peso di circa seicento grammi.

In attesa tutto quanto può essere conservato, al fresco, oppure nel surgelatore, in caso si prevedano tempi lunghi.

E allora apriamolo questo frigorifero. Una luce bianca illumina l'involucro di carta oleata, dentro, ben accomodate l'una sull'altra, esili fette di prosciutto dolce, di Parma, tagliato fine.

Fegati, interiora, fettine rosse, orribilmente rosse, scatolette dorate e lucide di paté de fois, uova, latte. Sopra, nel congelatore, i pesci, rigidi, argentei come antichi amuleti; e altra carne, il cui sanguigno rossore è stemperato dal ghiaccio; e poi scatole di misero cartone scolorito contenenti filetti di sgombro, di sogliola o nasello; in fondo, appallottolate come niente fosse nell'alluminio alimentare, altre parti che nessuno sa più ormai a quale animale siano appartenute.

Certi animali sono macchine per produrre lana, latte, miele, cuoio, grassi vari, piumini, guanciali, materassi, giubbotti, o semplicemente cibo.

Fagiani, lepri, tordi, vitelli, galline, cinghiali, sogliole, gamberi, vongole, cozze, al solo nominarli non evocano più il mondo animale, ma quello culinario; allo stesso modo, pitoni, coccodrilli, lucertole, ermellini, visoni, castori, fanno venire in mente cinture, borse, pellicce.

Animali amati, animali commestibili, talvolta gli stessi.

Fuori dai frigoriferi, dalle macellerie, dalle gabbie, gli animali non esistono.

A volte si vedono alcune impronte, si sentono fruscii, versi o cinguettii; per un attimo, sui muri, sulle croste di alberi secolari si manifestano come ectoplasmi verdi rettili che spariscono subito; altri uccelli volteggiano sopra le cime, rasenti le chiome, ma ci sono davvero? Sono animali quelli? Ragni, mosche, zanzare, farfalle, formiche, gasteropodi, piccoli e viscidi, oppure mostruosi, variopinti o trasparenti, inconsistenti, ad occhio nudo insignificanti, li dimentichiamo subito, associandoli ad aberranti sentimenti di disgusto o paura; la loro vita contro la nostra. Nessuno poi vorrebbe mai avere a che fare con orsi, squali tigre, lupi, leoni, cobra dagli occhiali o vedove nere.

Preferiamo prendere in braccio il gatto, caldo gomitolo di pelo sopra le ginocchia, oppure con un fischio, ma anche senza (a volte un solo sguardo) chiamare il cane, il nostro fedele e vero amico, e anche vero animale, anzi proprio animale in senso assoluto, l'unico degno di stare appena un gradino sotto al nostro. Gatti e cani ce li coccoliamo dopo pranzo, anzi a loro, nostri amici, offriamo avanzi del "bollito misto" o del "cacciucco alla livornese" così gustosi, mostrando tutto il nostro confuso ma sincero amore per gli animali.

 

Gabriella Maleti

Giosuè

Pigiava il vecchio sull'acceleratore. I maiali, dietro, affastellati, erano inquieti. Da sempre si mostravano sensitivi. Maiali intelligenti. Che, portati al macello, non si reggevano quasi sulle zampe. A cui il ricciolo della coda non pareva più una domanda, ma viluppo tetro, un incommensurabile destino buio, qualcosa da srotolare e affiggere, lì, su quel camion rosso, contro le inferriate di legno che come pareti li sostenevano, pietose ed impietose, e da cui guardavano, ansimando, traballavano in tutta la loro carne rosa e dura pelle con setole, addossati gli uni agli altri, a guardare dalle schiene dei fratelli, degli zii giovani, dalle orecchie di costoro. Maiali non addestrati alla morte.

Il vecchio s'agitò sul sedile di guida. "Basta", disse, "questo è l'ultimo viaggio. E' ormai diventato come un bruciaculo guidare questo camion, portare questi animali al macello". Ingobbito al volante, a collo teso scrutò la strada con gli occhi porcini, muovendo il naso largo è tozzo, come ad odorare. Tossì sputando dal finestrino. Disse: "Ahi, ahi, il mio culo, il mio vecchio culo". Stringeva il volante con forza, guardando acutamente la strada bianca polverosa e piena di buche. I suoi pochi capelli, all'aria di quel luglio, volavano, poi sbattevano come fili sul cranio raso. Il vecchio disse ancora: "Ahi, la mia schiena!". E andava a tutto gas il camion rosso, cigolando per lo sterrato. Ondeggiavano le paratie recintando il carico attonito di schiene come un mare. L'uomo pareva si intestardisse in continue asserzioni del capo per via dei sussulti impressi dalla strada. "Porca di quella vacca", disse, "è proprio l'ultimo carico, il strappacuor della fine, basta basta con quei grugni che mi osservano da dietro, li sento, ho le spalle piene di quegli sguardi che mi chiamano come dei bambini, come porcellini, lasciaci andare mi pare dicano, e intanto qualcuno di loro si lamenta, si agita sulla schiena dei parenti, guardano dalle fessure, pare guardino il bene e il male, come adulti, capendo più di loro, sembra dicano certe cose noi non le facciamo, a volte mi paiono dei cristiani, basta guardarli negli occhi quando vengono caricati sul camion: rinculano, urlano, allora cerco di non pensare a niente, urlo anch'io senza guardare, via via, dico, via, salite!".

Dietro i maiali venivano scossi, come un'onda di lardo precipitavano nelle curve dapprima a destra e poi a sinistra, e poi al contrario. Pur nel rumore e nei cigolii del camion che procedeva col suo fumo nero sulla strada sterrata, il vecchio li sentiva addosso, dentro, e ogni poco dava un'occhiata allo specchietto esterno. "Buoni...", disse. Farfugliò: "L'ultimo, l'ultimo viaggio". Stringendo ancor più il volante pensò d'essere sudato più dei porcelli. Urlando disse loro: "Buoni, buoni fratelli, il paradiso è pronto. Vi vedo, fratelli, e vi sento, fra un po' sarete in pace, ah sarete alla fine, potrete riposare, ora penserete di andare alla morte, di andare in rovina, vi fate venire i goccioloni, ma poi con i vostri occhi vedrete: finirete di patire e anch'io con quest'ultima scarrozzata avrò finito, se Dio vuole!". Rise. "Per vostra sfortuna incontrerete mia madre che per lei tutta la vita ho fatto questo lavoro. Ad ogni maiale castrato io scappavo e lei da dietro mi gridava: 'Sei il solito vigliaccone, paura di un po' di sangue! ma tornerai a casa, poi ti arrangio per le feste, zucca buca!". Correvo come una lepre per scappare ancora più lontano, poi mi toccava tornare, anche se non avrei voluto. Mia madre mi aspettava dietro l'uscio, io camminavo come una volpe, mi fermavo ad ogni passo, come una faina, fino a quando non sentivo sul coppetto un mucchio di colpi, improvvisamente, e poi sulla testa, sulla schiena, lei dava calci e pugni, toh e toh, diceva, questo è perché sei scappato e questo è perché non sei tornato subito e questo te lo do in più così impari, grande grosso come sei, somarone, una di queste volte ti incavicchio lì, vicino al veterinario, voglio vedere se scappi, pelandrone!, ora vai a governare i maiali, diceva, dandomi una spinta feroce, cos'è - diceva - questa pistolata della paura?, e intanto mi spingeva fuori, nel porcile stringendosi il fazzoletto in testa; pensava: ora ne vediamo delle belle. Continuava: 'Alla tua età, sedici anni compiuti!'. Arrivati mi chiudeva col catenaccio, tra i maiali. Chissà perché mia madre non mi voleva bene. Avete sentito, fratelli? Torna il conto? E' un conto misterioso, lungo. Intanto dovevo stare chiuso nel porcile per delle ore. Stavo lì, tremando come una foglia. Le bestie mi guardavano, si avvicinavano, la paura di essere mangiato aumentava". Il vecchio si passò una mano sulla fronte, sporse il viso dal finestrino. "Aria, aria", disse. Guardò il cielo. "Se mi vedi - urlò alla madre - se mi senti, ti devi pentire! Ho passato la vita tra i tuoi maiali, come volevi, ho passato la vita a non capire chi eri, cosa volevi, allora - urlò al cielo - allora, era questa faccia che non ti piaceva? Questi occhi, queste mani che non ti andavano?". Al limitare di un campo qualcuno salutò l'uomo, alzò un braccio: "Giosuè!", chiamò. Ma il camion rosso continuò a sollevare polvere. Pareva passasse un veicolo di dannati, ora che anche i maiali avevano preso a lamentarsi. L'uomo li sentì, forte disse: "Porcellini, porcellini rosa, buoni bambini, ho il cuore a pezzi, il povero cuore a pezzi, vi sento, vi sento anche se sono tramortito, tutte le volte che penso alla mia vita mi s'imbastisce la testa, s'imbarca, m'imbarbaglio, sono come ubriaco. Poi mia madre mi diceva: 'Sei sempre coi maiali, adesso! L'hai preso per vizio?'. Il vecchio sputò ancora dal finestrino, disse: "Diceva: Puzzi sempre di maiale, non ti vergogni?'. Il vecchio s'agitò sul sedile, urlando disse ancora al cielo: "Son sempre meglio di te, i maiali!". Poi, al popolo dei porcelli, dietro, disse: "Per togliermela dagli occhi scappavo a caricare le bestie di qualche contadino, pronte al macello. Mi chiudevo le orecchie per non sentirla mentre lei, ridendo, mi rincorreva dicendo forte: 'Scappa, scappa coglione, scappa mingone, corri dai tuoi fratelli!'. Attaccavo il motore e via col camion, come il vento, come uno sparviero. E lasciavo quella babbea e la sua voce. Avete sentito, là dietro? Mi sentite, fratellini? Ma, ancora un po' di pazienza, fra poco avremo finito la partita, ah, questa partita, com'è stata lunga! Per fortuna è finita, sta per finire, andiamo al macello, figli, io che non ho mai avuto figli sento voi come figli che ho dovuto portare a morire, voi maiali che soffrite e sentite la morte. Più vi penso e più mi si stringe il cuore. Vi ho sempre portato alla morte. E' un mestiere che me l'ha rotto, questo cuore, spezzato!".

Il vecchio s'abbandonò per un momento al sedile. Poi senti i maiali grugnire, ancora più inquieti. "Che vi succede?", chiese fermando di botto il camion. Scese e un po' curvo guardò gli animali dalle fessure delle sponde. Disse: "Cosa avete, si può sapere?". I maiali zittirono e lo guardarono attentamente, avvicinando il muso all'uomo. Si videro molti occhi, una vastità di occhi piccoli che fissavano. Ora tutti erano immobili. Il vecchio li osservò uno ad uno. Sentì gli sguardi di tutti, anche di quelli al centro, addossati ai primi. "Vi vedo tutti, povere bestie!", mormorò l'uomo allungando una mano a toccare quei musi, quelle orecchie. "Coraggio", disse mestamente, "coraggio, fatevi coraggio, poveretti!". Poi, spenta la voce, piegò la testa di lato e, senza suono, pianse. Alzando il capo disse ancora, rivolto ad essi: "Lo so, vi piacerebbe sentire ancora il merlo, il rosignolo, la cincia, il fringuello, il cucco, la tortora, lo stornello, lo so, lo so. Ma domine Dio ha voluto così... ha voluto così? Mah, io non so dirvi altro". Il vecchio guardò la strada. Disse: "Ma adesso dobbiamo andare... ci aspettano per l'ultima volta. State buoni, per carità, state zitti". Lentamente l'uomo si staccò dal camion, risalì mormorando: "State buoni, figlioli".

Ora l'automezzo s'avviò lentamente, alzando piccole nuvole di polvere. Si vide qualcosa muoversi all'interno, di rosa, sussultare. "Piano", disse a sé il vecchio, "piano, per i ragazzi". Poi, continuò: "Mangiamo la strada, o la strada ci mangia, non so. Si prende una strada, a caso, e dopo un po' viene addosso una stanchezza, ma che strada abbiamo preso? Quella che ci hanno fatto prendere, si dice. Ma chi ce l'ha fatta prendere? E che strada era? Buona? Cattiva? Una strada. Come qualmente questa che sto percorrendo. Io ho sempre parlato con i miei maiali. Di notte. Di giorno. Oh! E pareva mi ascoltassero con quegli occhi piccoli e brutti, quelle orecchie in piedi, pareva sapessero il valore della vita, e il bene e il male, non avrei mai immaginato di poter parlare a dei maiali, e via e via, ma tutti portano una croce, io ho portato la mia e quella dei maiali, li ho consolati, sono stato un po' il prete di quelle bestie, il loro prete anche se, dopo averli scaricati nel cortile del macello, risalivo subito sul camion e via, per non vederli più, per non sentire più quell'odore, una corsa per i campi, lontano da lì, cantando per non pensare, poi mi si spezzava tutto e le parole cadevano, rotolavano per la strada come mele, delle gocciole di pere, d'uva... ah, quanto male nel cuore, negli occhi... il macello è la cosa più, più... viene da vomitare e da piangere, pare che qualcuno strozzi gola e testa, poi, c'è poco da fare: ecco un altro viaggio di maiali e dolore. Nessun posto fa dimenticare il maiale e il suo sangue, i suoi urli, non c'è piazza, non c'è persona, non c'è stanza. Dopo, ti pare d'esser diventato uno di loro, e sembra d'avere zampe al posto delle mani, e setole dappertutto". Il vecchio tacque. Erano in vista del mattatoio. Ancora qualche chilometro. Con un fazzoletto si asciugò la fronte, il viso. Poi, sospirando, aumentò l'andatura. "Forza", disse, "ancora poco e poi ho finito per sempre, è finita, se Dio vuole". Ma ora si agitò sul sedile, qualcosa, addosso, lo infastidiva, sentiva prudere ogni parte del corpo. Qualcosa premeva da ogni parte. Qualcosa di mai sentito, un paio di mani invisibili e leggere lo vellicavano. Si grattò allora la testa, il petto, le orecchie, le gambe. Si strapazzò il naso. Il mento, la gola. Dalle braccia i peli scuri andavano visibilmente scomparendo. La carne assumeva ora una colorazione insolita, rosa. Anche le gambe, in minuscole ma dolorose trafitture, si coloravano di quel rosa carico, diventando dure e piene di setole biondicce e lunghe. Dure. Il vecchio se le toccò spaventato, ma anche il viso andava mutando: da dentro, qualcosa o qualcuno spingeva. Il viso gli si stava trasformando, si allungava sotto agli occhi dell'uomo ciò che egli avrebbe subito sentito essere un muso d'animale. Di lato, le orecchie s'indurivano, appuntendosi, ritte già ascoltavano. Il vecchio se le toccò tremando. Si guardò nello specchietto. Urlò. A lui parve d'aver urlato, ma non fu un urlo, bensì un grugnito. Udì i suoi grugniti. Si udì nel verso alto e acuto del maiale tirato per le orecchie. Ora le gambe si stavano accorciando e fra poco non avrebbero più raggiunto i pedali. Ma stava entrando nel cortile del mattatoio. Bloccò a stento l'automezzo. Grugnì, guardandosi attorno. Nessuno. Ora, nemmeno le braccia-zampe raggiungevano più il volante. Erano celermente diventate corte e ungulate. A malapena riuscì ad aprire lo sportello. Scese a quattro zampe. Rotolò. Cadde.

Si rialzò alzando il muso al cielo, ai maiali prigionieri. Grugnì nella loro direzione, come piangesse. Questi, dalle feritoie, s'ammucchiarono in subbuglio, si spinsero schiacciandosi, guardando. Si mossero infelicemente, cominciando ora alti lamenti, acuti.

Poi arrivarono gli uomini. Lo videro.

"Toh, un maiale nel cortile!". Dissero: "Prendiamolo, prendilo prendilo!". Urlarono. Corsero. Il vecchio, nel suo nuovo corpo, tentò di scappare. In uno stridio d'unghie si mise a correre dal lato opposto. Ma gli uomini lo circondarono. In un baccano corrotto, dissero: "Non fatelo scappare!". Concitati lo strinsero vieppiù nel cerchio. Allora non seppe più dove andare. Corse in tondo, con la testa a penzoloni, guardando basso. Ora vide una lama nelle mani di quelli. Il cerchio divenne ancora più stretto e disperato tentò di qua, di là, brevemente. Poi si fermò. Venne preso, tenuto per le orecchie, per la coda, che venne srotolata, tirata. Sentì un braccio attorno al collo e il peso di un uomo su di sé. Sentì come ultimi suoni i lamenti dei fratelli e ridere gli uomini dopo parole che gli si erano brevemente accostate. Il coltello gli squarciò la gola. Lì, accanto al camion rosso, sotto agli occhi dei compagni.

 

Liliana Ugolini

Bestiario

Volpe
L'astuta si dimostra nelle stole
s'abbarbica di sé nelle mantelle
(la coda era nel pregio
del rovellar dell'uva).
Passa lo sguardo vitreo
profumato, a gabellar trofeo,
la trappola, l'elogio del pelame.
Un rifugio in scaltrezza,
un sotterfugio addosso
da canidi

Capra
La barba della storia,
una gloria dell'ottimo.
Il latte si fa scaglie,
la pelle si sdoppia
nel tessuto, gli otri
al Kefir in cambio
di cortecce preludono
a capretti commestibili.
"Mucca da poveri"
traducesi di manna,
una mannaia

Cicala
La plebaja cicada, la pigra
faticata dall'organo sonoro
non risuona per vezzi
ma placca i suoi timballi
nel fulcro delle linfe
col furore di stirpe
perforata. Un lavoro
da unghielli, una scalmata.
Dirige quell'affondo
la malizia d'una rósa
ingiustizia

Gallina
Il prestanome
che ha un cervello di,
scrive con zampe di,
vuole quel latte di,
dice di andare a,
a letto con, se mugellese
fa venire la pelle di gallina.
E' lo svilire la stranezza
dell'ottimo, il riciclarsi
a dare l'abbondanza dell'uovo,
l'usare costumanza di farsi
assaggiare a dismisura

 

Nadia Agustoni

Cavalli

I
tempo non è questo esserci.
mitezza di nulla, spumeggiare di criniere
codine banderuole nell'aria
sfilarsi di piaceri ottici
forati occhi minimo spargersi
incurante clop clop.

II
impara che non è ciò.
alla fine dondolano il passo
mutando presa ti sanno.

 

Domenico Cara

Il tarlo

Era una preghiera fragile la sua risposta al silenzio assoluto della camera notturna? Un richiamo che rendeva fiabesco il suono impostato come reductio ad unum l'appuntamento con la sua presenza nella distesa angolare dei mobili d'ombra? In ogni caso quella specie di Robinson Crusoe isolato ci svegliava ardimentoso, e fermava la sua voce-chiodo con un'insistenza roditrice quando si batteva col pugno su una superficie per farlo tacere. In piena notte, Crack, proprio perché infastidiva nello schema della sua specie, faceva infine fluire microfarinosi torrenti di polvere di legno come ultimo esito. Il principio e la fine di tutto codesto rodere maledetto (che erano stati anche di Luigi XV) avveniva nel buio; certo di giorno non s'avvertiva il lavorio ritmico dell'insetto che - dopotutto - lavorava a servizio del Tempo, senza molto soffrire come le anime che faticano, e come il Tempo diventava, in famiglia, severo e leggendario, faceva fluire dai minuscoli forellini alimentari le sue polveri godibili, ulissiaco, disseminante, carico di volontà di destabilizzazione fisica della mobilia. Il tarlo entrava nella nostra intimità senza colore come un incontrollabile tiranno dei riposi difficili, nel processo di corrompimento degli oggetti, partecipava al crollo delle cose friabili, ritornava puntualmente alla carica inaspettatamente con i suoi eccetera provocatori, in parte sibillini, come un astuto discoletto con un suo singolare senso del comico, obbligandoci ad una strana ansietà. Fu così che decidemmo di cambiare casa, cambiare mobili, vivere da soli una diversa intensità interna, esistenziale, quasi temeraria (spese condominiali più alte, altro sgorgo di uscite pecuniarie, respiri più clandestini, ecc.). Nel teatro di presenze attuali, gli animali non hanno ospitalità né possibile racconto, ma i diversi grigiori del vuoto non impongono tenerezze nella varietà delle nuove derive. A volte è bene per tutti cambiare angoscia, persino partendo da un graffio per prurito.

 

Anna Cascella

Res animalia ferunt

E'
questa mia
una dichiarazione
mista al rimpianto
(è una commozione)
il piccolo naso
(vellutato) l'ho disposto
verso la valle
(piantata di mimose) -
il giacinto invece
l'ho portato (certo
non ero io
la sua ragazza - era
rimasta a casa
la sua gatta -
e lui solo
un piccolo animale né
il giardino quello
dei Giacinti pure
gli fioriranno addosso
quei colori
e gli diranno
ancora i nostri amori) -
così - subito dopo -
ho pensato sta
tranquillo riposa
tra due pini
(due mimose un ciuffo
di rosmarino) - sei piante
profumate lo stanno
a corteggiare - era un gatto
che sapeva
amare - potrei per lui
scrivere un poema - potrei
rincontrarlo per i paradisi
per i campi
felini degli elisi (strana
ancora la morte -
così ineludibile -
presenza così forte) -
(con la gatta
me ne dovrò scusare - potrebbe
essere gelosa e poi
graffiare) - piccole
grandi ore
di animale - lei
sta là
- vicino -
e con lui scompare -

[Riedizione elettronica realizzata per gentile concessione della redazione de "L'area di Broca". Uroboro 7, Edizioni Mediateca, Campi Bisenzio, 1999.]


 
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