"L'area di
Broca", XXI, 59, 1994
ANIMALI
Mariella Bettarini
Animali
("Homo homini lupus"? No. "Lupus
lupo homo"? Nemmeno...)
Capovolgere la celeberrima massima "homo
homini lupus"), di hobbesiana memoria, con
"il lupo è uomo al lupo" significa (credo)
introdurre il tarlo, il virus benefico della
dialettica, della contraddizione (che non è semplice
contrapposizione, ma anche il germe stesso del
superamento del dualismo. Dire, infatti, che il lupo
è uomo al lupo significa ancora rendere negativo
qualcosa a qualcuno, ossia usare ancora negativamente
d'una categoria (in questo caso l'umanità,
nell'altro la "lupità") vista quale fonte
di mali, di storture, di nefandezze. Dovremmo dunque
superare anche questa (non tanto per rispetto di noi
uomini quanto per rispetto dei lupi). Ma intanto, per
ora, eccoci - uomini e donne - geneticamente,
storicamente, eticamente presi alla tagliola delle
nostre oscure dualità, di cui quella uomo-lupo è
solo una delle infinite possibili. Eccola, la nostra
umanità "lupina", la nostra ferocia, la
nostra colpevolezza verso il lupo (quasi mai
consapevoli, noi, d'esser lupi a noi stessi) per dire
- in metafora - verso l'intero Regno animale, nostro
antecedente, misterioso "antenato".
Un discorso, un tema di moda, questo, si dirà. Ed
è vero. Un argomento scontato, previsto. Ma non mai
a sufficienza scandagliato, mai esaurito, specie se
ad affrontarlo (l'argomento, il problema
"animali", gli animali in sé, ma anche
questi nel loro rapporto con l'uomo, e nostro con
essi) non sono zoologi, etologi, studiosi mossi da un
interesse diretto, contingente, né animalisti,
ambientalisti, mossi anch'essi da passione
dedicatoria, da giustizialismo e debita
"civiltà" (doppiamente valevole se, a
tentare di riequilibrare lo stravolto habitat del
pianeta, l'uomo non ha che da guadagnarne); se il
problema viene affrontato non da moralisti, da
"teologi della liberazione" (in questo caso
animale), da illuministi post litteram, ma da
scrittori soprattutto, da "cercatori", da
pensatori senza presunzione, da cives che hanno
riflettuto insieme sul leopardiano gallo silvestre e
sulle favole di Mamma Oca, sul cetaceo di Melville e
sulle rane aristofanesche, su Paperone e sul lupo
della steppa, sull'uomo dei lupi e sul gatto con gli
stivali, sul kafkiano scarafaggio e sugli
"scarafaggi" di Liverpool, sullo zoologico
karma buddista e sulla balena di Pinocchio, sulle
infinite metamorfosi animali delle mitologie di tutto
il mondo e sulla lonza e sul veltro danteschi, sul
perché della salvezza degli animali nell'arca e
sulle prediche agli uccelli di S. Francesco (qui ci
sarebbe da aprire un immenso capitolo su certe
devianti radici cattoliche che, con l'insopportabile
ricatto della presenza o presunta assenza dell'anima,
hanno contribuito a demonizzare ugualmente donne e
uomini colpevoli - secondo una non remota teologia -
d'essere privi d'anima, insieme ai "perfidi
Giudei", agli atei e agli "infedeli"
d'ogni sorta. E andrebbe indagato a fondo quando e
perché s'è creata tanta distanza incolmabile tra
gli animali degni di salvezza, appunto, nell'arca e
il seguente disprezzo cattolico).
Un approccio, quindi, il nostro, non proprio da
specialisti, ma da raziocinanti e appassionati
individui che tentano di non chiudere gli occhi, di
non tapparsi le orecchie dinanzi a una sterminata
materia di riflessione e di indagine.
Mariella Bettarini
da Anime/animali
Nel mio (sempre parco) zoo domestico, anni
addietro, mi trovai ad acquistare (ma si possono
"acquistare", vendere e comprare animali?
Si può essere padroni dell'assoluta libertà d'altri
esseri viventi?) prima una, poi un'altra piccola
tartaruga d'acqua. Con esse anche una vaschetta di
plastica che, al centro, aveva un rialzo con due o
tre scalini a formare una minima isola, al sommo
della quale era stata issata una palmetta, essa pure
di plastica. Le tartarughine nuotavano, salivano
sulla piccola isola mangiavano larve essiccate,
facevano in tutto e per tutto una obbediente vita da
tartarughe da mostra, in mostra di sé, sotto gli
occhi di immaturi giganti che le sollevavano, le
nutrivano, le pulivano, le tormentavano
padroneggiandole completamente. Demmo anche loro un
nome, anzi due: due nomi antropocentrici: Samuel ed
Emily, da quelli di due scrittori molto amati:
Beckett e la Dickinson. Poveri, piccoli rettili
(anfibi quasi, per via del duplice elemento: acqua e
terra), nel gioco innocente quanto feroce d'una (per
i giganti) ininfluente avventura
"zoologica": della propria serissima, unica
vita per essi: unica e irripetibile. Ma non sempre
tanto a fondo si pensa quanto profondissimamente pur
si dovrebbe: e questo è colpevole, è questa la
colpa. Noi la compimmo, innocenti quanto si può,
quanto si può esserlo essendo umani in un regno che
non è nostro: disumani in un regno che mai è stato
nostro.
Emily e Samuel vissero, dunque, nel piccolo
recinto di plastica: coccolate, ammirate, vessate.
Vissero vari mesi della propria invariabile vita:
seri giocattoli, distrazioni minuscole, minime
rarità, piccole tenerezze da mostrare ad amici e
parenti. Poi, un giorno, Samuel (mi pare) felicemente
tentò la scalata che tentava da sempre: salire le
lisce pareti della piccola vasca per guadagnare il
mondo più vasto. Portatosi in alto, si ritrovò poi
(nessuno s'era accorto come), scivolando e volando,
per terra. Lì continuò un suo ostinato percorso di
vita e di libertà, di libertà per la vita, di vita
rischiata persino pur d'accedere a libertà. Uno di
noi se lo trovò sotto i piedi: una scarpa
sperimentò l'efferato rumore insopportabile di
schiacciare una carne vivente: Samuel l'orrore dei
cingoli, il peso di quanto può pesare una vita
quando è presso alla morte. Lo sollevammo con amore
e dolore infiniti per quella comune tragedia: ricordo
che piansi (senza consolazioni possibili) su quella
ferita, su quel piccolo grumo di sangue.
Samuel visse ancora qualche tempo, prediletto per
sempre, da sempre muto, accanto ad una silenziosa
Emily. Poi l'uno morì e morì pure l'altra dentro
quell'acqua, dentro l'orrenda vaschetta fatale. Mi
cingevano assieme viva pietà e inabile colpa,
compassione e pungente disagio. Non volli più avere
animali. Non sottostetti più allo zoologico estro.
Il loro intoccabile mondo, quell'immenso loro reame
m'è dentro senza bisogno del fuori: amo le
"anime", le ombre di Emily e Samuel senza
avere più voglia di possederne i corpi: egocentrica,
fosca necessità che appaga solo se stessa, anche se,
a dire il vero, del corpo, dei corpi (animali e
umani) i nostri corpi han bisogno (per essere corpi)
e dunque quei corpi che ho amato riamo, non
scordandomi mai né d'essi né (tramite loro) di vita
e di morte, che del corpo (dei corpi) sono i
necessitati complici, gli struggenti compagni.
Mirco Ducceschi
da Brani sciolti
Non sempre le tue parole mi giungono intere,
dev'esserci come un topo (attento e beato), che le
rosicchia per strada. Sarà un topo che ama i tuoi
discorsi, o forse no, meglio, solo il gusto delle tue
parole, il che peggiora le cose. Non ho potuto, ad
esempio, farti ancora la spesa del giorno. Ho
ricevuto per questa soltanto suoni mèzzi o
spezzettati, tritumi, e si è presentata una lista
così incerta di cibo che ho trovato disperante
risolvermi, null'altro. Quel topo intacca, a mio
avviso, qualcosa di essenziale tra noi, qualcosa di
fondamentale per il nostro dialogo, e con ciò
intendo dire il tuo sostentamento naturale.
Anche oggi, dunque, dovrai digiunare, facendo a
meno persino delle lamentele, perché il topo
rosicchierebbe anche quelle, rosicchierebbe anche il
dolore. Lo so, dovresti forse tacere, tacere per
anni, affamare il topo, farlo crepare, spingerlo ad
ingozzarsi di silenzio. Ma io, nel frattempo, di cosa
mi nutrirei?
*****
Incolmabile è il passo di una formica. Già alla
distanza di un metro lo si scorge appena come
vibrazione o tremore di un punto nero o rosso cupo, e
soltanto se il suolo chiaro offre un contrasto, se
una pagliuzza o un seme non lo nascondono. Pensa,
allora, dalla profondità di un cielo, la vastità di
quello spostamento.
*****
"Qual è per te la cosa più bella?"
chiese d'improvviso lo scarafaggio al verme.
"La mia nudità".
*****
Dai via libera ai cavalli nella stalla, voglio
partire. Sciogli non le briglie ai morsi, ma dai
colli i crini appaltricciati, ché il vento della
corsa non li strappi, cava, svelto, non la loro testa
dal fieno o dalla biada, ma dagli zoccoli quei ferri
maledetti che piagano la strada, poi lascia che le
froge si dilatino e si dissolvano in brughiera e
quindi in nebbia.
Fa' come ti dico, servo, non tormentarmi. La porta
è solo affar tuo.
*****
"Freddetto", "ghiaccetto",
"stanchetto", così ti esprimevi. Una volta
trovasti addirittura un "uccelletto
feritetto", e mi sembrò una frase cosi bella:
cadere dalla feritoia di un tetto, ferirsi, ma anche
il tetto (feritetto) era ferito, cadere dunque da una
ferita e ferirsi, uccellino di tetto (uccelletto),
forse uccelferitetto, ferita di una ferita che si
apre e si ferisce.
Bello fu anche sapere che rimediasti con amore a
quella serie già sconsolata di ferite, per le tue
stesse piume.
*****
Ero pressappoco così: un animale paralizzato da
giorni di iniezioni. Mi avevano steccato gli arti,
ricucito le palpebre, bendate le orecchie; la coda
(che sapevo lunga e mobile) era fissata alle assi
della gabbia con un chiodo, una cinghia di cuoio mi
passava sul dorso e continuamente veniva serrata.
Voci di laboratorio dicevano: "Ma questa
bestia non reagisce!"
*****
Cani che si aggrediscono negli antri del
quartiere, voci (lo sono) che si accordano ai muri
fino a raggiungere l'eco (e l'apertura a valle). Un
cane si distingue per toni molto bassi e lenti
(talora gravi), un altro pare solo guaire (ma non
mostra per questo timore o timidezza e incalza).
Insieme agli altri (agli intermedi) si confondono,
latrano nel baccano dissonante, liberamente. Troppo.
Il nostro consueto udire non chiarisce (ma se ci
pensi hai una gran voglia di ululare).
*****
In quale senso "chiamo" ma non
"richiamo": nella linea netta tra
l'invocazione e il messaggio, tra la febbre lucida e
il delirio, tra il chiedere e il purché sia, senza
richiedere mirando ai particolari. Convinto che in
ciò si mimetizzi la mia trappola, schiamazzo, è la
mia interiorità.
Ecco in quale senso "schiamazza" il
lupo.
*****
Si spaventarono tutti i passeri raccolti sulla
strada, si mossero (ma poco) le foglie di un'esile
betulla, la sponda del fiume si sciolse nel barlumio
di un sole radente, il volto di un giovane seduto
all'angolo di un bar s'incupì. Allora svettò, alta,
tra i palazzi, la carlinga lucente di un aeroplano, i
girasoli, rasi dei petali, si chinarono come crani
stanchi e solenni, e l'aria, scottante, sembrò un
faticoso boccone da consumare. Per più di un momento
un dolore sordo risalì da un piccolo viale alberato,
spinto da mani fraterne, e ancor più a lungo la mano
tesa di un bambino indicò un uomo distante, che
passava in bicicletta. Senza opprimere, la calma si
distese (parve di attraversare allora un aperto
corridoio di brezza) e uno scrittore, da una stanza
foresta, si accorse che nel finire dell'estate anche
il suo attimo, maturando, rallentava. Sorridendo
scrisse: "Dato: la fame del lupo è proverbiale,
ma la sua vera fama resta l'inappetenza".
Alessandro Franci
da Amati animali
Per il "bollito misto" sono consigliati
seicento grammi di polpa di manzo, presa dalla
culatta, oppure dalla spalla; un capponcello, o mezza
gallina; sono indispensabili poi altri seicento
grammi di vitello tra punta di petto, coda, lingua,
testina; volendo, infine, un cotechino.
Per la "finanziera", invece,
quattrocento grammi di interiora di pollo, in
prevalenza fegatini, creste, bargigli, ovette; cento
grammi di polpa di manzo; cento grammi di polpa di
vitello; cento grammi di filoni di vitello; cento
grammi di animelle di vitello.
Chi dovesse preferire il pesce, può ripiegare sul
"cacciucco alla livornese": un chilo e
mezzo di pesce tra scorfano, triglia, nasello, murena
(facoltativa), grongo, seppie, cicale, totani, polpi;
infine un'aragosta, in alternativa, alcuni gamberoni
per un peso di circa seicento grammi.
In attesa tutto quanto può essere conservato, al
fresco, oppure nel surgelatore, in caso si prevedano
tempi lunghi.
E allora apriamolo questo frigorifero. Una luce
bianca illumina l'involucro di carta oleata, dentro,
ben accomodate l'una sull'altra, esili fette di
prosciutto dolce, di Parma, tagliato fine.
Fegati, interiora, fettine rosse, orribilmente
rosse, scatolette dorate e lucide di paté de fois,
uova, latte. Sopra, nel congelatore, i pesci, rigidi,
argentei come antichi amuleti; e altra carne, il cui
sanguigno rossore è stemperato dal ghiaccio; e poi
scatole di misero cartone scolorito contenenti
filetti di sgombro, di sogliola o nasello; in fondo,
appallottolate come niente fosse nell'alluminio
alimentare, altre parti che nessuno sa più ormai a
quale animale siano appartenute.
Certi animali sono macchine per produrre lana,
latte, miele, cuoio, grassi vari, piumini, guanciali,
materassi, giubbotti, o semplicemente cibo.
Fagiani, lepri, tordi, vitelli, galline,
cinghiali, sogliole, gamberi, vongole, cozze, al solo
nominarli non evocano più il mondo animale, ma
quello culinario; allo stesso modo, pitoni,
coccodrilli, lucertole, ermellini, visoni, castori,
fanno venire in mente cinture, borse, pellicce.
Animali amati, animali commestibili, talvolta gli
stessi.
Fuori dai frigoriferi, dalle macellerie, dalle
gabbie, gli animali non esistono.
A volte si vedono alcune impronte, si sentono
fruscii, versi o cinguettii; per un attimo, sui muri,
sulle croste di alberi secolari si manifestano come
ectoplasmi verdi rettili che spariscono subito; altri
uccelli volteggiano sopra le cime, rasenti le chiome,
ma ci sono davvero? Sono animali quelli? Ragni,
mosche, zanzare, farfalle, formiche, gasteropodi,
piccoli e viscidi, oppure mostruosi, variopinti o
trasparenti, inconsistenti, ad occhio nudo
insignificanti, li dimentichiamo subito, associandoli
ad aberranti sentimenti di disgusto o paura; la loro
vita contro la nostra. Nessuno poi vorrebbe mai avere
a che fare con orsi, squali tigre, lupi, leoni, cobra
dagli occhiali o vedove nere.
Preferiamo prendere in braccio il gatto, caldo
gomitolo di pelo sopra le ginocchia, oppure con un
fischio, ma anche senza (a volte un solo sguardo)
chiamare il cane, il nostro fedele e vero amico, e
anche vero animale, anzi proprio animale in senso
assoluto, l'unico degno di stare appena un gradino
sotto al nostro. Gatti e cani ce li coccoliamo dopo
pranzo, anzi a loro, nostri amici, offriamo avanzi
del "bollito misto" o del "cacciucco
alla livornese" così gustosi, mostrando tutto
il nostro confuso ma sincero amore per gli animali.
Gabriella Maleti
Giosuè
Pigiava il vecchio sull'acceleratore. I maiali,
dietro, affastellati, erano inquieti. Da sempre si
mostravano sensitivi. Maiali intelligenti. Che,
portati al macello, non si reggevano quasi sulle
zampe. A cui il ricciolo della coda non pareva più
una domanda, ma viluppo tetro, un incommensurabile
destino buio, qualcosa da srotolare e affiggere, lì,
su quel camion rosso, contro le inferriate di legno
che come pareti li sostenevano, pietose ed impietose,
e da cui guardavano, ansimando, traballavano in tutta
la loro carne rosa e dura pelle con setole, addossati
gli uni agli altri, a guardare dalle schiene dei
fratelli, degli zii giovani, dalle orecchie di
costoro. Maiali non addestrati alla morte.
Il vecchio s'agitò sul sedile di guida.
"Basta", disse, "questo è l'ultimo
viaggio. E' ormai diventato come un bruciaculo
guidare questo camion, portare questi animali al
macello". Ingobbito al volante, a collo teso
scrutò la strada con gli occhi porcini, muovendo il
naso largo è tozzo, come ad odorare. Tossì sputando
dal finestrino. Disse: "Ahi, ahi, il mio culo,
il mio vecchio culo". Stringeva il volante con
forza, guardando acutamente la strada bianca
polverosa e piena di buche. I suoi pochi capelli,
all'aria di quel luglio, volavano, poi sbattevano
come fili sul cranio raso. Il vecchio disse ancora:
"Ahi, la mia schiena!". E andava a tutto
gas il camion rosso, cigolando per lo sterrato.
Ondeggiavano le paratie recintando il carico attonito
di schiene come un mare. L'uomo pareva si
intestardisse in continue asserzioni del capo per via
dei sussulti impressi dalla strada. "Porca di
quella vacca", disse, "è proprio l'ultimo
carico, il strappacuor della fine, basta basta con
quei grugni che mi osservano da dietro, li sento, ho
le spalle piene di quegli sguardi che mi chiamano
come dei bambini, come porcellini, lasciaci andare mi
pare dicano, e intanto qualcuno di loro si lamenta,
si agita sulla schiena dei parenti, guardano dalle
fessure, pare guardino il bene e il male, come
adulti, capendo più di loro, sembra dicano certe
cose noi non le facciamo, a volte mi paiono dei
cristiani, basta guardarli negli occhi quando vengono
caricati sul camion: rinculano, urlano, allora cerco
di non pensare a niente, urlo anch'io senza guardare,
via via, dico, via, salite!".
Dietro i maiali venivano scossi, come un'onda di
lardo precipitavano nelle curve dapprima a destra e
poi a sinistra, e poi al contrario. Pur nel rumore e
nei cigolii del camion che procedeva col suo fumo
nero sulla strada sterrata, il vecchio li sentiva
addosso, dentro, e ogni poco dava un'occhiata allo
specchietto esterno. "Buoni...", disse.
Farfugliò: "L'ultimo, l'ultimo viaggio".
Stringendo ancor più il volante pensò d'essere
sudato più dei porcelli. Urlando disse loro:
"Buoni, buoni fratelli, il paradiso è pronto.
Vi vedo, fratelli, e vi sento, fra un po' sarete in
pace, ah sarete alla fine, potrete riposare, ora
penserete di andare alla morte, di andare in rovina,
vi fate venire i goccioloni, ma poi con i vostri
occhi vedrete: finirete di patire e anch'io con
quest'ultima scarrozzata avrò finito, se Dio
vuole!". Rise. "Per vostra sfortuna
incontrerete mia madre che per lei tutta la vita ho
fatto questo lavoro. Ad ogni maiale castrato io
scappavo e lei da dietro mi gridava: 'Sei il solito
vigliaccone, paura di un po' di sangue! ma tornerai a
casa, poi ti arrangio per le feste, zucca
buca!". Correvo come una lepre per scappare
ancora più lontano, poi mi toccava tornare, anche se
non avrei voluto. Mia madre mi aspettava dietro
l'uscio, io camminavo come una volpe, mi fermavo ad
ogni passo, come una faina, fino a quando non sentivo
sul coppetto un mucchio di colpi, improvvisamente, e
poi sulla testa, sulla schiena, lei dava calci e
pugni, toh e toh, diceva, questo è perché sei
scappato e questo è perché non sei tornato subito e
questo te lo do in più così impari, grande grosso
come sei, somarone, una di queste volte ti
incavicchio lì, vicino al veterinario, voglio vedere
se scappi, pelandrone!, ora vai a governare i maiali,
diceva, dandomi una spinta feroce, cos'è - diceva -
questa pistolata della paura?, e intanto mi spingeva
fuori, nel porcile stringendosi il fazzoletto in
testa; pensava: ora ne vediamo delle belle.
Continuava: 'Alla tua età, sedici anni compiuti!'.
Arrivati mi chiudeva col catenaccio, tra i maiali.
Chissà perché mia madre non mi voleva bene. Avete
sentito, fratelli? Torna il conto? E' un conto
misterioso, lungo. Intanto dovevo stare chiuso nel
porcile per delle ore. Stavo lì, tremando come una
foglia. Le bestie mi guardavano, si avvicinavano, la
paura di essere mangiato aumentava". Il vecchio
si passò una mano sulla fronte, sporse il viso dal
finestrino. "Aria, aria", disse. Guardò il
cielo. "Se mi vedi - urlò alla madre - se mi
senti, ti devi pentire! Ho passato la vita tra i tuoi
maiali, come volevi, ho passato la vita a non capire
chi eri, cosa volevi, allora - urlò al cielo -
allora, era questa faccia che non ti piaceva? Questi
occhi, queste mani che non ti andavano?". Al
limitare di un campo qualcuno salutò l'uomo, alzò
un braccio: "Giosuè!", chiamò. Ma il
camion rosso continuò a sollevare polvere. Pareva
passasse un veicolo di dannati, ora che anche i
maiali avevano preso a lamentarsi. L'uomo li sentì,
forte disse: "Porcellini, porcellini rosa, buoni
bambini, ho il cuore a pezzi, il povero cuore a
pezzi, vi sento, vi sento anche se sono tramortito,
tutte le volte che penso alla mia vita mi
s'imbastisce la testa, s'imbarca, m'imbarbaglio, sono
come ubriaco. Poi mia madre mi diceva: 'Sei sempre
coi maiali, adesso! L'hai preso per vizio?'. Il
vecchio sputò ancora dal finestrino, disse:
"Diceva: Puzzi sempre di maiale, non ti
vergogni?'. Il vecchio s'agitò sul sedile, urlando
disse ancora al cielo: "Son sempre meglio di te,
i maiali!". Poi, al popolo dei porcelli, dietro,
disse: "Per togliermela dagli occhi scappavo a
caricare le bestie di qualche contadino, pronte al
macello. Mi chiudevo le orecchie per non sentirla
mentre lei, ridendo, mi rincorreva dicendo forte:
'Scappa, scappa coglione, scappa mingone, corri dai
tuoi fratelli!'. Attaccavo il motore e via col
camion, come il vento, come uno sparviero. E lasciavo
quella babbea e la sua voce. Avete sentito, là
dietro? Mi sentite, fratellini? Ma, ancora un po' di
pazienza, fra poco avremo finito la partita, ah,
questa partita, com'è stata lunga! Per fortuna è
finita, sta per finire, andiamo al macello, figli, io
che non ho mai avuto figli sento voi come figli che
ho dovuto portare a morire, voi maiali che soffrite e
sentite la morte. Più vi penso e più mi si stringe
il cuore. Vi ho sempre portato alla morte. E' un
mestiere che me l'ha rotto, questo cuore,
spezzato!".
Il vecchio s'abbandonò per un momento al sedile.
Poi senti i maiali grugnire, ancora più inquieti.
"Che vi succede?", chiese fermando di botto
il camion. Scese e un po' curvo guardò gli animali
dalle fessure delle sponde. Disse: "Cosa avete,
si può sapere?". I maiali zittirono e lo
guardarono attentamente, avvicinando il muso
all'uomo. Si videro molti occhi, una vastità di
occhi piccoli che fissavano. Ora tutti erano
immobili. Il vecchio li osservò uno ad uno. Sentì
gli sguardi di tutti, anche di quelli al centro,
addossati ai primi. "Vi vedo tutti, povere
bestie!", mormorò l'uomo allungando una mano a
toccare quei musi, quelle orecchie.
"Coraggio", disse mestamente,
"coraggio, fatevi coraggio, poveretti!".
Poi, spenta la voce, piegò la testa di lato e, senza
suono, pianse. Alzando il capo disse ancora, rivolto
ad essi: "Lo so, vi piacerebbe sentire ancora il
merlo, il rosignolo, la cincia, il fringuello, il
cucco, la tortora, lo stornello, lo so, lo so. Ma
domine Dio ha voluto così... ha voluto così? Mah,
io non so dirvi altro". Il vecchio guardò la
strada. Disse: "Ma adesso dobbiamo andare... ci
aspettano per l'ultima volta. State buoni, per
carità, state zitti". Lentamente l'uomo si
staccò dal camion, risalì mormorando: "State
buoni, figlioli".
Ora l'automezzo s'avviò lentamente, alzando
piccole nuvole di polvere. Si vide qualcosa muoversi
all'interno, di rosa, sussultare. "Piano",
disse a sé il vecchio, "piano, per i
ragazzi". Poi, continuò: "Mangiamo la
strada, o la strada ci mangia, non so. Si prende una
strada, a caso, e dopo un po' viene addosso una
stanchezza, ma che strada abbiamo preso? Quella che
ci hanno fatto prendere, si dice. Ma chi ce l'ha
fatta prendere? E che strada era? Buona? Cattiva? Una
strada. Come qualmente questa che sto percorrendo. Io
ho sempre parlato con i miei maiali. Di notte. Di
giorno. Oh! E pareva mi ascoltassero con quegli occhi
piccoli e brutti, quelle orecchie in piedi, pareva
sapessero il valore della vita, e il bene e il male,
non avrei mai immaginato di poter parlare a dei
maiali, e via e via, ma tutti portano una croce, io
ho portato la mia e quella dei maiali, li ho
consolati, sono stato un po' il prete di quelle
bestie, il loro prete anche se, dopo averli scaricati
nel cortile del macello, risalivo subito sul camion e
via, per non vederli più, per non sentire più
quell'odore, una corsa per i campi, lontano da lì,
cantando per non pensare, poi mi si spezzava tutto e
le parole cadevano, rotolavano per la strada come
mele, delle gocciole di pere, d'uva... ah, quanto
male nel cuore, negli occhi... il macello è la cosa
più, più... viene da vomitare e da piangere, pare
che qualcuno strozzi gola e testa, poi, c'è poco da
fare: ecco un altro viaggio di maiali e dolore.
Nessun posto fa dimenticare il maiale e il suo
sangue, i suoi urli, non c'è piazza, non c'è
persona, non c'è stanza. Dopo, ti pare d'esser
diventato uno di loro, e sembra d'avere zampe al
posto delle mani, e setole dappertutto". Il
vecchio tacque. Erano in vista del mattatoio. Ancora
qualche chilometro. Con un fazzoletto si asciugò la
fronte, il viso. Poi, sospirando, aumentò
l'andatura. "Forza", disse, "ancora
poco e poi ho finito per sempre, è finita, se Dio
vuole". Ma ora si agitò sul sedile, qualcosa,
addosso, lo infastidiva, sentiva prudere ogni parte
del corpo. Qualcosa premeva da ogni parte. Qualcosa
di mai sentito, un paio di mani invisibili e leggere
lo vellicavano. Si grattò allora la testa, il petto,
le orecchie, le gambe. Si strapazzò il naso. Il
mento, la gola. Dalle braccia i peli scuri andavano
visibilmente scomparendo. La carne assumeva ora una
colorazione insolita, rosa. Anche le gambe, in
minuscole ma dolorose trafitture, si coloravano di
quel rosa carico, diventando dure e piene di setole
biondicce e lunghe. Dure. Il vecchio se le toccò
spaventato, ma anche il viso andava mutando: da
dentro, qualcosa o qualcuno spingeva. Il viso gli si
stava trasformando, si allungava sotto agli occhi
dell'uomo ciò che egli avrebbe subito sentito essere
un muso d'animale. Di lato, le orecchie s'indurivano,
appuntendosi, ritte già ascoltavano. Il vecchio se
le toccò tremando. Si guardò nello specchietto.
Urlò. A lui parve d'aver urlato, ma non fu un urlo,
bensì un grugnito. Udì i suoi grugniti. Si udì nel
verso alto e acuto del maiale tirato per le orecchie.
Ora le gambe si stavano accorciando e fra poco non
avrebbero più raggiunto i pedali. Ma stava entrando
nel cortile del mattatoio. Bloccò a stento
l'automezzo. Grugnì, guardandosi attorno. Nessuno.
Ora, nemmeno le braccia-zampe raggiungevano più il
volante. Erano celermente diventate corte e ungulate.
A malapena riuscì ad aprire lo sportello. Scese a
quattro zampe. Rotolò. Cadde.
Si rialzò alzando il muso al cielo, ai maiali
prigionieri. Grugnì nella loro direzione, come
piangesse. Questi, dalle feritoie, s'ammucchiarono in
subbuglio, si spinsero schiacciandosi, guardando. Si
mossero infelicemente, cominciando ora alti lamenti,
acuti.
Poi arrivarono gli uomini. Lo videro.
"Toh, un maiale nel cortile!". Dissero:
"Prendiamolo, prendilo prendilo!".
Urlarono. Corsero. Il vecchio, nel suo nuovo corpo,
tentò di scappare. In uno stridio d'unghie si mise a
correre dal lato opposto. Ma gli uomini lo
circondarono. In un baccano corrotto, dissero:
"Non fatelo scappare!". Concitati lo
strinsero vieppiù nel cerchio. Allora non seppe più
dove andare. Corse in tondo, con la testa a
penzoloni, guardando basso. Ora vide una lama nelle
mani di quelli. Il cerchio divenne ancora più
stretto e disperato tentò di qua, di là,
brevemente. Poi si fermò. Venne preso, tenuto per le
orecchie, per la coda, che venne srotolata, tirata.
Sentì un braccio attorno al collo e il peso di un
uomo su di sé. Sentì come ultimi suoni i lamenti
dei fratelli e ridere gli uomini dopo parole che gli
si erano brevemente accostate. Il coltello gli
squarciò la gola. Lì, accanto al camion rosso,
sotto agli occhi dei compagni.
Liliana Ugolini
Bestiario
Volpe
L'astuta si dimostra nelle stole
s'abbarbica di sé nelle mantelle
(la coda era nel pregio
del rovellar dell'uva).
Passa lo sguardo vitreo
profumato, a gabellar trofeo,
la trappola, l'elogio del pelame.
Un rifugio in scaltrezza,
un sotterfugio addosso
da canidi
Capra
La barba della storia,
una gloria dell'ottimo.
Il latte si fa scaglie,
la pelle si sdoppia
nel tessuto, gli otri
al Kefir in cambio
di cortecce preludono
a capretti commestibili.
"Mucca da poveri"
traducesi di manna,
una mannaia
Cicala
La plebaja cicada, la pigra
faticata dall'organo sonoro
non risuona per vezzi
ma placca i suoi timballi
nel fulcro delle linfe
col furore di stirpe
perforata. Un lavoro
da unghielli, una scalmata.
Dirige quell'affondo
la malizia d'una rósa
ingiustizia
Gallina
Il prestanome
che ha un cervello di,
scrive con zampe di,
vuole quel latte di,
dice di andare a,
a letto con, se mugellese
fa venire la pelle di gallina.
E' lo svilire la stranezza
dell'ottimo, il riciclarsi
a dare l'abbondanza dell'uovo,
l'usare costumanza di farsi
assaggiare a dismisura
Nadia Agustoni
Cavalli
I
tempo non è questo esserci.
mitezza di nulla, spumeggiare di criniere
codine banderuole nell'aria
sfilarsi di piaceri ottici
forati occhi minimo spargersi
incurante clop clop.
II
impara che non è ciò.
alla fine dondolano il passo
mutando presa ti sanno.
Domenico Cara
Il tarlo
Era una preghiera fragile la sua risposta al
silenzio assoluto della camera notturna? Un richiamo
che rendeva fiabesco il suono impostato come reductio
ad unum l'appuntamento con la sua presenza nella
distesa angolare dei mobili d'ombra? In ogni caso
quella specie di Robinson Crusoe isolato ci svegliava
ardimentoso, e fermava la sua voce-chiodo con
un'insistenza roditrice quando si batteva col pugno
su una superficie per farlo tacere. In piena notte,
Crack, proprio perché infastidiva nello schema della
sua specie, faceva infine fluire microfarinosi
torrenti di polvere di legno come ultimo esito. Il
principio e la fine di tutto codesto rodere maledetto
(che erano stati anche di Luigi XV) avveniva nel
buio; certo di giorno non s'avvertiva il lavorio
ritmico dell'insetto che - dopotutto - lavorava a
servizio del Tempo, senza molto soffrire come le
anime che faticano, e come il Tempo diventava, in
famiglia, severo e leggendario, faceva fluire dai
minuscoli forellini alimentari le sue polveri
godibili, ulissiaco, disseminante, carico di volontà
di destabilizzazione fisica della mobilia. Il tarlo
entrava nella nostra intimità senza colore come un
incontrollabile tiranno dei riposi difficili, nel
processo di corrompimento degli oggetti, partecipava
al crollo delle cose friabili, ritornava puntualmente
alla carica inaspettatamente con i suoi eccetera
provocatori, in parte sibillini, come un astuto
discoletto con un suo singolare senso del comico,
obbligandoci ad una strana ansietà. Fu così che
decidemmo di cambiare casa, cambiare mobili, vivere
da soli una diversa intensità interna, esistenziale,
quasi temeraria (spese condominiali più alte, altro
sgorgo di uscite pecuniarie, respiri più
clandestini, ecc.). Nel teatro di presenze attuali,
gli animali non hanno ospitalità né possibile
racconto, ma i diversi grigiori del vuoto non
impongono tenerezze nella varietà delle nuove
derive. A volte è bene per tutti cambiare angoscia,
persino partendo da un graffio per prurito.
Anna Cascella
Res animalia ferunt
E'
questa mia
una dichiarazione
mista al rimpianto
(è una commozione)
il piccolo naso
(vellutato) l'ho disposto
verso la valle
(piantata di mimose) -
il giacinto invece
l'ho portato (certo
non ero io
la sua ragazza - era
rimasta a casa
la sua gatta -
e lui solo
un piccolo animale né
il giardino quello
dei Giacinti pure
gli fioriranno addosso
quei colori
e gli diranno
ancora i nostri amori) -
così - subito dopo -
ho pensato sta
tranquillo riposa
tra due pini
(due mimose un ciuffo
di rosmarino) - sei piante
profumate lo stanno
a corteggiare - era un gatto
che sapeva
amare - potrei per lui
scrivere un poema - potrei
rincontrarlo per i paradisi
per i campi
felini degli elisi (strana
ancora la morte -
così ineludibile -
presenza così forte) -
(con la gatta
me ne dovrò scusare - potrebbe
essere gelosa e poi
graffiare) - piccole
grandi ore
di animale - lei
sta là
- vicino -
e con lui scompare -
[Riedizione elettronica realizzata
per gentile concessione della redazione de
"L'area di Broca". Uroboro 7,
Edizioni Mediateca, Campi Bisenzio, 1999.]