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Alessandro Franci

Daniele

 

Avevo appuntamento con Daniele dopo pranzo, ma quando arrivai lui non c'era ancora; immaginai che forse non sarebbe più venuto. Daniele aveva sempre molti impegni; non poteva certo perdere tempo con me che di impegni non ne avevo per niente. Mentre lo aspettavo pensavo a cosa avrei potuto fare se non fosse arrivato; ma non mi veniva in mente nulla. Da solo non sapevo mai cosa fare, a meno che non prendessi precise istruzioni. Osservavo tutti, come se qualcuno mi dovesse dare un ordine.
   Il caldo rovente sull'asfalto scioglieva poltiglie e grassi, disperdendo nell'aria odori repellenti. Vedevo il calpestio delle poche persone a quell'ora, sopra filamenti elastici e grumi molli.
   Sulle pagine di un giornale gualcito, gettato tra la polvere sul marciapiede, campeggiavano le scritte: "Cape Canaveral", poi ancora qualcosa d'illeggibile per le pieghe della carta, infine s'intravedeva lo spezzone di un'altra parola: "onauti"; allora ricordai che presto l'uomo avrebbe messo piede per la prima volta sulla Luna, come diceva mio padre. Cercai, aiutandomi con la punta della scarpa, di spalancare le pagine che sembravano incollate, non per leggere cosa vi fosse scritto, a me queste cose non interessavano; così, tanto per fare qualcosa. Però l'operazione mi parve subito troppo complicata, e soprattutto inutile; l'abbandonai.
   Guardai il cielo: blu, senza nuvole, come sempre.
   Aspettavo rassegnato, solo; davanti a me vedevo dilatarsi nel sole caldo, il vuoto di un lento pomeriggio. Presi a passeggiare impaziente, poi deluso e speranzoso insieme, allontanandomi più volte dal luogo fissato e riavvicinandomi subito dopo, guardando dove capitava senza curiosità. Poi però il mio amico arrivò; trafelato e sorridente, attrezzato di tutto punto. Aveva portato una canna anche per me, perché io non ne possedevo; non avevo niente per la pesca. Io non andavo a pescare. A casa mia non c'erano svaghi di questo tipo, perché mia madre il superfluo, lo identificava direttamente con il diavolo, e pescare non era certo necessario; anche se queste solitamente erano cose da uomini. Ma pure mio padre non pescava; lui era sempre pronto ad assecondare tutti, quindi anche mia madre.
   Daniele mi mostrò la mia canna: era una canna vera e propria; lì davanti a me, la potevo tenere per quel pomeriggio. Con quella potevo pescare anch'io finalmente! Non era granché per la verità; la sua era nuova, verde e gialla, telescopica. La mia invece fissa, da mettere insieme in più pezzi, grigia, graffiata e pesante; ma per uno come me poteva andar bene anche così, perché l'importante era passare un pomeriggio con Daniele.
   Mi disse che aveva tardato per aspettare il pisolino di suo padre, riuscendo così a fregargli i soldi per comperare le sigarette. Me le mostrò soddisfatto: un pacchetto da dieci, già gualcito e scolorito; sembrava l'avesse comprato una settimana prima, da come era ridotto.
   I miei genitori non volevano che frequentassi Daniele, perché suo padre non era il vero padre; il vero padre di Daniele - dicevano - non si sapeva chi fosse; forse neppure sua madre lo sapeva. Doveva essere questo il motivo principale, però sia mio padre sia mia madre non lo dichiaravano mai così chiaro e tondo; questo lo pensavo io. Per loro Daniele era soltanto un ragazzo di strada: sporco, uno che parlava male, che faceva troppe assenze a scuola. Io lo vedevo di nascosto e la cosa, anche se un po' mi agitava, non mi sembrava poi tanto grave.
   Un giorno che andai a casa sua, c'era pure sua madre: una donna alta e grossa, scura di capelli e di carnagione. Io quando la vidi pensai: "Questa è una puttana, va con tutti, e Daniele forse è il figlio di uno di questi, e lei non lo sa, non gliene frega niente di saperlo, tanto poi ha anche un marito". Quando la donna mi vide, mi fece un gran sorriso e mi carezzò i capelli. Allora mi pentii di aver pensato di lei in quel modo.
   Il fiume non era lontano: bisognava salire per una strada, poi inoltrarsi lungo un sentiero; in tutto una ventina di minuti.
   Daniele disse che quelle sigarette le avremmo dovute fumare tutte il pomeriggio stesso, perché non poteva nasconderle in casa, gliele avrebbero date se l'avessero scoperto. Non avevo mai fumato; agli amici che me lo chiedevano dicevo di sì, ma non era mai accaduto, anche perché era superfluo, ed essendo superfluo era demoniaco, secondo mia madre. Lei non fumava naturalmente, mio padre ovviamente, neppure.
   L'idea di fumare tutte quelle sigarette senza averne mai fumate una prima di quel giorno, non mi preoccupava per niente, sia per il fatto che solo io sapevo di non averne mai fumate, sia perché ritenevo si trattasse di un comportamento naturale, vista la condizione.
   Daniele palava, ma non ricordo cosa dicesse, io mentre parlava gli osservavo i capelli biondi, arricciati sul davanti come andavano allora: alla Presley, credo. Anche per via dei capelli era invidiato, forse solo da me, ma il fatto che lui portasse i capelli a quel modo, e soprattutto i suoi lasciassero che lui si pettinasse così, mi faceva rabbia. Gli stavano bene, erano ordinati con quel ciuffo che risaliva gonfio e mobile sopra la testa, senza mai scomporsi. Io non riuscivo neppure a pettinarmeli, i miei capelli: fini e piuttosto radi, dovevo tagliarli corti e ravviarli con una riga dritta da sinistra a destra, e non da destra a sinistra, come mi sarebbe piaciuto fare tanto per sembrare diverso dagli altri, dal momento che tutti coloro che portavano i capelli divisi da un lato, li dividevano da sinistra a destra. Anch'io dovevo dividerli così, perché quelli che dividono i capelli con la riga da destra, sono mancini, e la mano sinistra è quella del diavolo; così diceva mia madre.
   Parlavamo, camminando con le nostre canne strette in mano, spesso ridendo non so per cosa; poi Daniele disse:
   "Milena si fa toccare."
   Lo dichiarò così, proprio senza motivo; per me fu come se a parlare fosse stata un'altra persona. Rividi Milena, con i capelli scuri, lunghi, aperti nel mezzo, il viso quasi bianco e lo sguardo assorto; a volte impenetrabile nel nero degli occhi. Sicuramente scherzava… che cosa voleva dire con quel: "Si fa toccare?"
   Con Milena non ci avevo neppure mai parlato; la vedevo a volte passare veloce, con quei suoi capelli che si muovevano tutti assieme. A me piaceva molto e sognavo di lei ad occhi aperti, anche se probabilmente lei non si era mai neppure accorta di me.
   L'avrei anche potuto uccidere Daniele per quelle parole; e poi, che cosa voleva dire, che lui la toccava? Forse adesso voleva parlarmi proprio di questo? Vantandosi delle sue prodezza con le ragazze? Ma non era possibile che fosse così, Milena non poteva farsi toccare, e avrei voluto dirgli che queste cose le fanno solo le puttane, proprio come sua madre. Volevo dirgli che chi si faceva toccare era proprio sua madre. Non dissi nulla però, anzi mi disposi in un'espressione meravigliata e fintamente incuriosita, sperando che il mio amico non si spingesse oltre; invece subito dopo aggiunse:
   "Veniamo qui al fiume; quando veniamo qui si mette la sottana per farsi toccare le cosce, però poi non vuole fare altro. È una stronza!"
   Le vampe di caldo mi chiudevano la gola, e riconobbi un distinto odore: erba bagnata ma fetida. Pensai che non fosse vero, che il mio amico parlasse così tanto per fare, anche se sapevo che lui, come altri ragazzi più grandi, andavano con certe ragazze. Lo dicevano a volte, e quando vedevano passare per strada una di loro, le rivolgevano frasi allusive; queste ridevano, oppure tiravano di lungo guardando in basso o lontano.
   Ora però, forse per quello che aveva detto Daniele, avvertivo una pesantezza vicino allo stomaco.
   In quel momento per me si stava spalancando una voragine: stavo andando a pescare con Daniele, mentre non dovevo neppure vederlo; fra breve avremmo fumato più o meno cinque sigarette a testa, e anche questo doveva essere, ad occhio e croce, un peccato. Parlavamo di Milena che si faceva toccare, ed era uno dei peccati peggiori, sia quello di farsi toccare che toccare; in una graduatoria possibile, sotto soltanto all'omicidio. Più o meno al pari o quasi del furto, dipende dalla merce rubata. Considerando poi che Daniele aveva da poco rubato soldi a suo padre, e ancor prima toccato Milena io ero, in quel momento, in compagnia del diavolo e stavo andando direttamente all'inferno, e non a pescare.
   Ci fermammo in uno spiazzo erboso, protetto da un lato dal bosco e da un altro da erba alta e folta. Gettammo tutto in terra e ci sedemmo. Daniele disse:
   "Veniamo qui. Qui non ci vede nessuno, fumiamo una sigaretta, poi ci divertiamo."
   Quel "ci divertiamo", acuì il dolore che nel frattempo si era spostato verso l'alto. Io con Milena sarei stato più serio, lei con me pure, se mi avesse conosciuto. Perché "divertiamo?" Lui sì forse si divertiva, Milena no; come poteva lei divertirsi? Divertirsi sembrava leggero e pericoloso, volteggiante in aria e pronto ad abbattersi al suolo da un momento all'altro. Lontano dal sentimento che provavo io e che mi legava a lei.
   Daniele tirò fuori dalla tasca le sigarette, me ne porse una e ne prese una anche lui. Le accendemmo e l'odore di fumo si mischiò a quello pesante e oleoso dell'erba vaporosa. Mi stupiva l'istantanea disinvoltura del mio modo di fumare; mi faceva male la gola, però pensavo facesse parte del piacere di fumare. Osservavo Daniele e cercavo di atteggiare tutti i miei movimenti come fossi l'immagine dello specchio. Mentre lui parlava io pensavo a Milena, che veniva qui e stava con lui a farsi toccare le gambe; qui, proprio qui dove sedevamo noi. Questo pensiero mi premeva il petto, e non capivo se fosse per invidia nei confronti di Daniele, oppure per il dispiacere di sapere che Milena era diversa dalla persona che immaginavo.
   Fumavo, ascoltavo Daniele, mentre la gola mi bruciava e il petto se ne stava avvolto in una gabbia; ero felice di starmene lì con il mio amico, anche se non mi sentivo benissimo. Il caldo si era fatto eccessivo, e l'odore dell'erba umida chiudeva il respiro. Le parole di Daniele rimbalzavano fra di noi e svanivano nei fumi delle sigarette e dell'erba vaporosa e puzzolente; non riuscivo ad afferrarne il senso, non capivo quasi niente per la verità, solo a tratti coglievo al volo un concetto, ma subito dopo Daniele parlava d'altro.
   Poi il mio amico accese un'altra sigaretta. Rideva mostrando i denti bianchissimi e gli occhi illuminati da lampi chiari; mandava la testa all'indietro e il suo ciuffo biondo si muoveva come fosse un animale. Rideva per non so cosa, io mi limitavo ad annuire e ad atteggiarmi convenientemente a seconda delle sue espressioni. Per sentirmi in sintonia con lui, anch'io accesi un'altra sigaretta e il raschiore alla gola che si era appena placato riprese vivo, e subito dopo s'insinuò un prurito alto nel naso, tanto che più di una volta starnutii. Mancava l'aria, l'odore di quelle piante era forte, invadeva tutta la zona ed il caldo ormai si era fatto pesante sopra di noi. Daniele sembrava non soffrirne; invece le mie tempie pulsavano e avrei voluto alzarmi, andare al fiume, bagnarmi la testa, e iniziare a pescare.
   Il mio amico improvvisamente si azzittì, divenne triste, e guardò l'aria sopra di me; ma non osservava niente, piuttosto pareva seguire un pensiero fluttuante fra di noi. Poi, di colpo sentenziò:
   "Andiamo!"
   Perentorio, come se proprio quella fosse l'ora fissata. Ci alzammo, raccogliemmo tutto e una rapida vampa mi avvolse il viso. Avevo gli zigomi in fiamme e lo stomaco premeva verso la gola. Pensai che avrei vomitato, e non sopportavo né l'odore né la vista del vomito. Invece proprio in quel momento percepivo la chiara spinta allo stomaco, quella che precede i conati.
   Daniele camminava silenzioso davanti a me, con la testa rivolta verso il basso. Sembrava più grande dei suoi sedici anni; vedevo le sue spalle ampie come quelle degli adulti, anche il modo di fare era già di un uomo. Stava a tre passi da me, camminava senza curarsi di niente, sembrava solo, e che non avesse neppure più l'intenzione di andare a pescare. Lo seguivo senza sapere cosa sarebbe accaduto.
   Ci separava un silenzio insolito, di attesa. Un silenzio incomprensibile e al quale non mi abituavo.
   Mi venne di dire: "Ci siamo!" Fu spontaneo: appena finita la pineta c'era il fiume; su Daniele però non ebbe alcun effetto la mia affermazione, come se non avessi detto niente, anzi come se non ci fossi. Poi lo vidi il fiume, prima ancora di sentirne il rumore: scorreva stretto e infestato ai lati da erba e piante contorte. Appena poco tempo dopo sentii l'odore dell'acquea e subito il rumore fluido; infine vidi il luccichio dei sobbalzi tra i sassi.
   C'era quasi buio, ora; guardai Daniele aspettando un cenno, ma continuò con quel moto lento e ondeggiante, in direzione del punto in cui io guardavo. Ero pervaso da un brivido di desiderio, per quello che stavamo per fare, ma allo stesso tempo percepivo viva fuori da me l'assoluta assenza di desideri del mio amico; d'un tratto fu come mi trovassi solo, o forse desiderassi di esserlo. La grande attesa mi aveva stremato.
   Arrivammo presto al greto erboso e vedemmo il cielo: all'improvviso di piombo e fermo come un coperchio su di noi. Daniele silenzioso iniziò tutti i preparativi: armeggiava intorno alla canna e alla lenza con impazienza e sicurezza; osservava il filo, annodava, strappava con i denti quello superfluo. Io cercavo di fare altrettanto. Ad ogni dubbio lo interrogavo con precisione, lui mi diceva: "Così," e mimava quello che avrei dovuto fare io per risolvere il problema.
   L'acqua era dello stesso colore del cielo; un vento leggero s'infilava tra gli alberi con corti sibili. Eravamo finalmente pronti, silenziosi e tristi davanti al fiume, l'uno di fianco all'altro, con le canne in mano. Quando caddero le prime gocce guardai il mio amico; lui rimase nella stessa posizione, silenzioso a fissare il rosso del galleggiante davanti a lui. Pensavo che avremmo dovuto riporre tutto e scappare a casa, prima che la pioggia ci sorprendesse; ma Daniele, pur non esprimendo alcun giudizio era certamente di parere opposto, quindi mi guardai bene di mostrare disaccordo con quello che credevo lui pensasse.
   La pioggia divenne fine, poi subito il vento aumentò e le gocce furono grandi e pesanti. Il rumore fu assordante sulle piante e in terra, da dove saliva un odore forte e puro che respiravo a rapide inalazioni, come si trattasse di una cura. Daniele mi guardò con uno scatto del viso, poi subito dopo, frettolosamente, prese a ripiegare la canna; anch'io feci altrettanto, mentre le gocce già ci avevano inzuppati. Ormai l'acqua cadeva dritta, pesante su di noi e intorno; in pochi attimi fummo di nuovo fuori dal greto camminando goffamente ma spediti. C'infilammo sotto delle rocce sporgenti come animali braccati; c'era giusto lo spazio per noi due. Avevamo i vestiti appiccicati alla pelle e i capelli grondanti; i nostri corpi ghiacci e sudati emanavano un odore orribile. Daniele rise, mi guardò e disse che a lui la pioggia piaceva. Io dissi che la pioggia invece mi rattristava. Non capii cosa ebbe da obiettare, e subito dopo tirò fuori il pacchetto frusto di sigarette, ne prendemmo una ciascuno, ma non potemmo fumare: i fiammiferi si erano bagnati, così rimanemmo sotto la pietra a vedere il picchiettio dell'acqua, senza parlare e in attesa di rimetterci in cammino.
   Davanti a noi la vista si perdeva, velata di un grigio instabile e opaco per l'acqua che scendeva e i vapori che risalivano. La nicchia rocciosa dove ci eravamo incastrati, sembrava però proteggerci dal mondo intero.
   "Come sapevi di questo posto?", gli chiesi.
   "È successo altre volte, alla fine ho scoperto che qui si sta al sicuro."
   Dopo queste parole Daniele provò ancora ad accendere un fiammifero; si accese. Velocemente tirò fuori di nuovo il pacchetto e prendemmo le sigarette; lo aiutai freneticamente, mentre lui si contorceva cercando di non bruciarsi. Fece in tempo ad accenderla lui, io accesi la mia con la sua; il fumo delle sigarette e quello della pioggia innalzava davanti a noi uno scudo spesso, di là tutto era grigio, mosso e rumoroso.
   A Daniele sembrava davvero interessare quel paesaggio cupo che vedevamo dal nostro nascondiglio, io invece sentivo dentro una forza ostile che mi spingeva ad andarmene. Pensavo a mia madre, alla faccia buia che avrebbe fatto al mio rientro, anzi forse già in quel momento doveva avere una faccia così; mi aspettavo, da un momento all'altro, di vedere mio padre con tanto di ombrello, sotto l'acquazzone, che gridava il mio nome a squarciagola.
   Daniele disse che forse sarebbe stato meglio andare.
   Il ritorno fu precipitoso; non pronunciammo parola lungo tutto il tragitto.
   Quando arrivai a casa, c'era soltanto mia nonna. Fu una fortuna, dal momento che la sua vista era ridottissima e pur accorgendosi del mio stato, non le permise di darle un giusto valore. M'infilai in bagno e mi asciugai, mi cambiai, e poi asciugai con il fon anche la maglietta e i pantaloni.
   Nello specchio, osservai con rabbia la mia testa grossa ed i capelli esili; vidi il mio corpo ossuto, quasi scheletrico e capii che per me non c'era più nulla da fare: ero magro all'inverosimile; secco, come diceva mia madre.
   Per il resto del pomeriggio attesi che mio padre e mia madre rientrassero senza fare nulla; non sapevo mai cosa fare in casa. Passeggiai da una stanza ad un'altra, osservai mia nonna addormentarsi e svegliarsi centinaia di volte sulla poltrona. Bevvi un bicchiere d'acqua dal rubinetto. Più volte tornai in bagno per controllare che tutto fosse in ordine.
   Casa nostra era piccola, spigolosa e scura; c'era poco spazio e mai un angolo tranquillo. In ogni punto si poteva vedere gli altri. Quando c'era soltanto mia nonna, ero libero di muovermi e di fare quello che più mi piaceva, tanto lei non vedeva più lontano di tre metri.
   Appena rientrò mia madre, mi mollò uno schiaffo senza dire niente. Poi continuò lungo il corridoio lasciando dietro sé i sui passi picchiettanti sul pavimento; disse qualcosa soltanto in camera. Dietro di lei arrivò mio padre; non mi guardò, non parlò. Si chiusero in camera dove discussero animatamente non so per quale motivo.

 

[Uroboro - Rassegna contemporanea, Edizioni Mediateca, Campi Bisenzio, 2001.]


 
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