Giovanni R. Ricci
L'INTERPRETAZIONE
RIMOSSA.
I primi due versi del "Contrasto" di Cielo
d'Alcamo. *
Rosa fresca aulentis[s]ima
ch'apari inver' la state,
le donne ti disiano, pulzell'e maritate:
come il lettore avrà facilmente riconosciuto,
sono, questi, nell'edizione continiana,1
i versi iniziali del più famoso fra i testi
giullareschi pervenutici, il Contrasto (spesso
denominato col primo emistichio del suo primo verso)
composto, sicuramente per essere recitato,2 dal colto poeta e
giullare siciliano Cielo d'Alcamo in una data
compresa fra il 1231 e il 1250. La lingua è
fondamentalmente il siciliano del Duecento, "pur
restando probabile una mediazione (scritta)
continentale o più d'una"3
fra la Sicilia e la Toscana. Qui il mercante anonimo
che sappiamo aver compilato, fra fine del '200 e
inizi del '300, la maggior parte del Codice Vaticano
3793 vi trascrisse anche questo testo.4
Com'è noto, larga parte del fascino del Contrasto
deriva dal suo mischiare modi aulici e raffinati
con espressioni anche marcatamente popolari. I versi
sopra riportati possono così tradursi: "Rosa
fresca profumatissima, che sbocci verso l'estate, le
donne ti desiderano, fanciulle e maritate". A
parlare è il protagonista maschile, probabilmente un
giullare, come si può dedurre dal termine canzoneri
del v. 39, e la ragazza che lo ascolta, in attesa di
replicare, si è ipotizzato, da parte di alcuni
studiosi, che sia una contadina, interpretando in tal
senso il villana del v. 75 (ma v. oltre). Dopo
quest'avvio prossimo agli accenti della lirica
cortese, già al terzo verso il registro linguistico
muta radicalmente: tràgemi d'este focora, se
t'este a bolontate, ovvero "toglimi
da questi fuochi d'amore, se ciò è in tuo
volere". È il verso citato da Dante nel De
vulgari eloquentia (I, XII, 6) come esempio del
volgare parlato dai siciliani di media condizione.
Anche il ceto sociale dei due personaggi è da
ascrivere, secondo parte della critica più recente,
non a un contesto popolare bensì 'piccolo-borghese'
(il che escluderebbe l'interpretazione sopra citata
del v. 75 ove l'espressione villana significa
verosimilmente "donna scortese"), con forse
una qualche superiorità di status del protagonista
maschile: essi comunque parlano la stessa lingua ed
appartengono sostanzialmente ad un medesimo ambito
socioculturale. Ed anche il gioco che Cielo immagina
pongano in atto, entrambi lo conoscono bene: come
scriveva De Sanctis, si tratta infatti d'una
"tenzone o dialogo" in cui troviamo
"Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e
in ultimo concede".5
I due protagonisti sanno fin da principio quale sarà
l'esito conclusivo del cerimoniale di corteggiamento
di cui Madonna è l'oggetto ma il contesto culturale
prevede appunto un'opposizione (reale o, come qui,
simulata) della donna a quella che fin verso la fine
del testo parrebbe essere, ma non è, una strategia
di seduzione volta a disarticolare e vincere le sue
resistenze. Che le cose non stiano così è
potentemente dimostrato dal penultimo dei 160 versi
in cui Madonna, ormai 'convinta', dice ad Amante: a
lo letto ne gimo a la bon'ora. I due personaggi
(che dovevano essere interpretati da un singolo
giullare) hanno inoltre per tutto il testo messo in
atto un'altra simulazione, relativa questa non alla
macrocultura della società di appartenenza bensì
alla loro collocazione sociale, fingendo entrambi uno
status ben più elevato della loro umile condizione
di gente del popolo o di 'piccolo-borghesi': e il
doppio registro linguistico, aulico e popolare, ha la
funzione di sottolineare parodisticamente questo
dato. Alla fine, però, a uscire demistificata è
"proprio l'ideologia cortese dell'amore,
discoprendosi, al di là della occasionale
velleitaria sublimazione tematica e formale, la
naturalità carnale dell'eros".6
Ma torniamo ai primi due versi: il secondo di essi
è stato, in qualche misura comprensibilmente,
oggetto di un lungo dibattito che fino a qualche
tempo fa pareva esser giunto ufficialmente a
conclusione, cioè a un punto fermo interpretativo.
Stavano davvero così le cose? Sul secondo verso non
vi era più nulla da dire salvo ripetere la verità
che era stata conseguita? Personalmente pensavo
proprio di no. Ho dunque accolto con sincera
soddisfazione, pur avendo ultimata la prima stesura
di questo mio saggio, l'uscita, a fine '97, del
volume iniziale dell'Antologia della poesia
italiana diretta da Cesare Segre e Carlo Ossola7
ove una valente studiosa, Luigina Morini,
(ri)proponeva sul v. 2, sebbene con scarsa
risolutezza, una posizione interpretativa non nuova
ma da lungo tempo negletta e da me condivisa.
Proviamo ora, per amor di ragionamento, a porci
nell'ottica di un lettore che viva in un immaginario
mondo possibile identico al nostro salvo il fatto che
sul v. 2 del Contrasto nessuno abbia mai
scritto nulla, neppure nelle note al testo: ipotesi
meno assurda di quanto possa apparire dato che per
esempio non dicono niente del v. 2 né l'edizione
dell'Ugolini8 né quella del Panvini.9
Poniamo che questo lettore abbia qualche
conoscenza della letteratura medievale e che abbia
letto anche il Contrasto in una edizione
criticamente e filologicamente ben curata: come
intenderà dunque il v. 2? A mio avviso è da
ritenere che, sia pure con un certo stupore (e se è
moralista con un certo imbarazzo), egli concluda che
oggetto del desiderio di pulzelle e
maritate siano, secondo l'esplicito complimento
dell'uomo, tanto la donna quanto la rosa che ne è
metafora. Naturalmente il lettore che ho immaginato
non è un accademico e non è detto dunque che la sua
interpretazione sia senz'altro corretta. Tuttavia, in
quel mondo e nel nostro, tale interpretazione si
configurerebbe (si configura) come possibile, e
dunque come meritevole di discussione e, se del caso,
di motivata confutazione. Ebbene, a quanto mi consta
- salvo D'Ancona come soluzione estrema, Contini un
po' fra le righe (e molti l'hanno travisato), Fo in
chiave comica e appunto recentemente la Morini -
nessun commentatore ha mai preso in esame detta
ipotesi, sia pure per respingerla: essa, insomma, è
stata percepita, dalla quasi totalità degli
studiosi, come talmente immorale e perturbante da
divenire indicibile, d'una indicibilità che da etica
si è presto fatta ontologica. L'ipotesi in
questione, cioè, è finita per apparire - prima
dell'uscita del citato volume dell'Antologia della
poesia italiana ma verosimilmente tutt'oggi agli
occhi della maggioranza degli storici della nostra
letteratura - non nominabile non solo perché
indecente ma più radicalmente perché inconcepibile,
non pensabile, al di fuori di quanto può esservi sul
piano sia del reale che dell'immaginario. Quando
però qualcosa è così fortemente rimosso, il dubbio
che abbia in sé qualche elemento di verità diviene
assai forte. Vediamo dunque cosa è stato detto e
cosa può dirsi di questo - inquietante per molti -
secondo verso.
Le più diffuse interpretazioni del v. 2 del Contrasto
sono due: la prima, ormai superata, ha inteso
leggere in chiave maschile il termine donne e
anche, di conseguenza, l'espressione pulzell'e
maritate; la seconda ha ritenuto che i primi due
versi, o parte di essi, fossero riferiti
esclusivamente alla rosa metafora della donna e non
anche a quest'ultima . Per brevità definirò di qui
in poi con la sigla H1 la prima interpretazione, con
la sigla H2 la seconda e con la sigla H3 quella che
possiamo definire l'interpretazione rimossa, ultimamente
(ri)portata alla luce, come ho detto, dalla Morini (H
è ovviamente abbreviazione di hypothesis).
H1 nacque presto, rispetto naturalmente alla
storia della critica del testo e non delle sue
rappresentazioni giullaresche nelle piazze d'Italia.
Nel '500, infatti, il letterato iesino Angelo
Colocci, che pure aveva redatto il Codice Vaticano
4823 (che è una copia del Vaticano 3793), in certi
suoi appunti - compresi nel Vaticano 4817 - citò il
v. 2 del Contrasto sostituendo alle parole le
donne l'espressione gli uomini: una
distrazione che appare come un lapsus (nel senso
tecnico del termine) vero e proprio. Così Leone
Allacci, nella prima edizione del Contrasto,10
dette due diverse lezioni della prima strofa: in una
leggiamo al v. 2 gli uomini ti disiano, polzele
e maritate,11
nell'altra lo stesso v. 2 più congruamente suona le
donne te disiano, pulcelle maritate.12
Evidentemente Allacci aveva tratto la lezione
parzialmente maschilizzata dagli appunti del Colocci.
Ma, come già osservava Monaci, le note colocciane
avevano lo scopo di "servire agli studi che
l'autore stava facendo sulla ritmica italiana. Onde a
lui bastava di notare lo schema dei versi, citava
probabilmente a memoria e non doveva preoccuparsi
troppo della esattezza grafica".13
Basti dire che, nello stesso Vaticano 4817, in un
appunto del Colocci il primo verso del Contrasto
è così citato: Rosa fresca aulentissima
che fa la state nascere. Due secoli dopo
l'edizione di Allacci, Giusto Grion si rifece
verosimilmente anch'egli agli appunti del Colocci, in
quanto al v. 2 dette dapprima l'omini14 e in seguito li
homini,15
uniformando in entrambi i casi al genere maschile
anche gli aggettivi e dunque dando pulzelli e
maritati. Lo stesso D'Ancona - che comunque nella
sua edizione propone al v. 2 Le donne ti disiano,
pulzelle [e] maritate - scrive che
tale verso, prima della toscanizzazione conclusiva,
"doveva parlare di uomini e non di donne, e
poiché non poteva più dirsi: Li omini ti disiano
pulzelli e maritati, né sarebbe stata
ammissibile la forma: uomini maritate, si
cangiò addirittura il verso dicendo: le donne ti
disiano pulzelle e maritate".16
Ma D'Ancona, con quella correttezza critica e con
quella profonda cultura che lo contraddistinguevano,
ammette che "se la lezione homini, che
par preferibile [ma egli, come ho detto, non
l'adotta], non dovesse essere accolta, meglio sarebbe
ricordare quel che dice Bonagiunta Urbiciani alla sua
donna".17 Dell'Orbicciani, però,
parleremo più avanti, in quanto la sua ballata cui
fa riferimento D'Ancona costituisce, per così dire,
una corposa prova, o almeno un rilevantissimo
indizio, a favore di H3.
Si è visto come H1 nella versione fin qui
esaminata sia verosimilmente nata da un significativo
lapsus mnemonico del Colocci. Ma H1 è esistita anche
in una variante introdotta ad opera di Cesareo il
quale ritenne che il fondo della lingua del Contrasto
fosse "il dialetto d'una qualche provincia del
Napoletano".18 I
dialetti napoletani, osservava il critico,
preferiscono spesso la e finale, talora anche
per il maschile plurale, mentre quelli siciliani
tendono alla i conclusiva per i plurali sia
maschili che femminili: così, dato il sostantivo donno-donna,
il siciliano avrà al plurale donni sia per il
maschile che per il femminile, mentre il napoletano
avrà li donne per entrambi i generi. Ora,
seguendo il ragionamento di Cesareo, le donne del
v. 2 del Contrasto, potrebbero indicare
"uomini" oppure "donne", ma per
lui l'alternativa non si pone affatto: "le
donne sta sicuramente per li dompni, i
signori. Il testo originario aveva li dompne;
il menante toscano per ridurre la forma a
rigor di grammatica, avrà tradotto com'è nel testo
odierno".19 E
anche pulzelle e maritate per Cesareo
sono ovviamente da intendersi come maschili plurali:
la dialettologia al servizio della morale. In realtà
diciamo subito che la tesi d'una napoletanità della
lingua del Contrasto è da tempo
definitivamente superata: infatti, che il fondo
linguistico del testo di Cielo sia siciliano -
convinzione, come si è visto, già dantesca - è
ormai riconoscimento pressoché comune. È anzi
probabile, come ha mostrato Pagliaro, una sua origine
delimitata all'area linguistica messinese.20 L'impostazione di
Cesareo è in seguito tornata nell'Antologia dei
primi secoli21
di Lazzeri, uscita quando H2 era già stata
formulata. Lazzeri giudica quindi napoletana la
lingua del Contrasto e nel farlo scopiazza
alquanto la sua esplicita fonte (intendo il Cesareo)
ripetendo - non tra virgolette - espressioni (ad
esempio: "riducendo la forma a rigor di
grammatica") che già abbiamo viste utilizzate
dall'inventore della seconda ed essa stessa erronea
versione di Hl. Del fatto che H1 sia falsa - dato da
tempo acquisito dalla critica - daremo più avanti
altre dimostrazioni che varranno anche per
un'ulteriore versione di H1: quella proposta da
Guerrini Crocetti nel suo testo antologico La
Magna Curia.22
Questo studioso rifiuta tanto H2 quanto l'ipotesi
napoletana di Cesareo (dei cui studi tiene tuttavia
conto)23,
concludendo che al v. 2 "le donne non è
che una lieve deformazione di li dompni, li dunni,
(...) che nel siciliano significa signori".24
Ma passiamo ora a considerare H2,
l'interpretazione che sino a fine '97 passava per vera
e definitiva (e che certo ha
tutt'oggi legioni di sostenitori). H1 appariva a
molti decisamente sbagliata o non convincente, per
cui ci si possono immaginare i sospiri di sollievo,
non ancora conclusisi, che furono suscitati dalla
raffinate - ma non ineccepibili - considerazioni di
D'Ovidio che a proposito del v. 2 così scriveva:
"Non serve desiderar homini (distrazione
del Colocci) o giustificar donne, ché il
discorso non è ancor rivolto direttamente alla
bella: non si saprebbe intendere perché le si
dicesse che appare in primavera e poco s'intenderebbe
perché le si desse dell'odorosa. Si tratta della
vera rosa di maggio, da tutte le donne desiderata; e
la bella è semplicemente paragonata a una tal rosa.
Solo è notevole la rapida fusione fra i due termini
del paragone sicché subito nel 3 la rosa è già
divenuta la donna in carne e ossa. A rigore dovrebbe
dire: tu che sei pari alla rosa schiudente in maggio
e da ogni donna desiderata, traggimi ecc. Invece
comincia quasi obliandosi poeticamente e galantemente
nell'accenno alla rosa, e poi con irresistibile
impeto vien subito al concreto".25
H2 era così nata, già armata di tutte le
argomentazioni che i suoi numerosi seguaci non
faranno sostanzialmente che ripetere omaggiandone
l'autore, finché in tempi recenti essa è stata
sottoposta a qualche ritocco di cui diremo. Il
successo di H2 - che, sia ben chiaro, potrebbe
anche esser vera (ma personalmente mi pare molto
improbabile) - credo si spieghi facilmente:
essa è apparsa conciliare sapienza
critico-filologica, 'buon senso' e morale. Parlo di
morale, ma a ben vedere è in gioco piuttosto un
certo moralismo. Vediamo comunque di esaminare subito
le prove che D'Ovidio espone, partendo dall'iniziale
'obliarsi' che egli attribuisce al protagonista
maschile del Contrasto. Anche per risarcirlo
delle critiche che gli ho prima fatto, riprenderò
qui alcune piuttosto convincenti considerazioni di
Lazzeri che, a proposito della teoria di D'Ovidio,
ebbe a osservare come essa pecchi "di eccessiva
sottigliezza" e "sia in netto contrasto con
la psicologia" che il testo rivela: l'uomo,
infatti, scrive Lazzeri, "accatta frasi ed
atteggiamenti della lirica cortese per mostrarsi uomo
di mondo, ma tutto il suo spasimare è uno spasimare
sensuale, tanto che già ne' primi due versi del
contrasto ei si rivela tutto: lusinga subito la donna
chiamandola rosa fresca aulentissima (...),
l'odorosissima rosa di maggio, con un bel tornito
complimento; ma immediatamente dopo passa già al
concreto cui tende, con il secondo verso, pregno di
sensualità" e tale da lasciar
"intravvedere il 'don Giovanni da taverna'
definito dal De Sanctis".26
Peccato che Lazzeri, come si è visto in precedenza,
integri il suo argomentare con la riproposizione di
Hl; per lui il secondo verso significa: "i
signori, gli uomini ti desiderano, giovani e
sposati".27
Passiamo all'incongruità che avrebbe il testo,
secondo D'Ovidio, se attribuisse come rivolte (anche)
alla donna le caratteristiche d'esser profumata e di
apparire in primavera, proprietà che a suo avviso
devono ritenersi riferite esclusivamente alla rosa.
Eppure espressioni simili sono frequenti nella lirica
medievale, come in genere mostrano di ben sapere i
sostenitori di H2. Ed anche la proprietà di apparire
verso l'estate, che in sé non parrebbe in effetti
applicabile alla donna, lo diviene
raffrontandola a locuzioni semanticamente analoghe.
Limitiamoci a considerare esempi da testi della
scuola siciliana: Federico II in Poi ch'a voi
piace, amore chiama la donna amata alente più
che rosa (v. 62), Giacomino Pugliese nel discordo
Donna, per vostro amore usa l'espressione aulente
rosa col fresco colore (v. 41) e nella
canzonetta La dolce cera piagente menziona 1'aulente
bocca (v. 9) dell'innamorata, il Notaro (Giacomo
da Lentini) definisce la sua bella aulente frore (v.
5) nel sonetto Sì alta amanza à presa lo me'
core e aulente cosa (v. 23), ovvero
"sweet-smelling creature" per dirla con la
traduzione inglese di Jensen,28
nel discordo Dal core mi vene; Rosa aulente è
l'incipit d'un discordo anonimo ove il concetto torna
al v. 26 (aulente fior rosato) mentre
nell'insolito plot della canzonetta L'amor
fa una donna amare di Compagnetto da Prato (un
giullare d'origine toscana di cui nulla si sa ma che
è da ritenersi prossimo alla scuola federiciana) è
sorprendentemente la donna a chiamare l'uomo che,
senza fatica alcuna, ella sta conquistando, drudo
mio, aulente più c'ambra (v. 42): come si
vede, dunque, aulente non è impiegato solo in
chiave metaforica ma anche come attributo
dell'oggetto amato o d'una sua parte (è il caso
della canzonetta di Giacomino); nel sonetto Oi
Siri Deo, con forte fu lo punto di Filippo da
Messina leggiamo oi rosa fresca che di magio apari
(v. 13), significato analogo al rosa
novella (v. 35) che troviamo in Isplendïente del
già citato Giacomino Pugliese mentre, nell'anonimo
discordo De la primavera, l'amata del poeta è
fra l'altro detta rosa di magio - colorita e
fresca (v. 15).29
Uscendo dall'ambito siciliano, mi limiterò a citare
il Contrasto bilingue tra giullare e donna
genovese del trovatore provenzale Rambaldo
(Raimbaut) di Vaqueiras (1155 ca. - dopo il 1205), un
testo che si differenzia da quello di Cielo, oltre
che sul piano linguistico, anche per altri aspetti
fra cui la sua "tonalità (...) nell'insieme
illustre"30 e
il suo concludersi con il permanere della donna (che
qui è sposata) in una ferma posizione di ripulsa.
Tuttavia esso costituisce "il modello più
presente a Cielo".31
È dunque interessante ai nostri fini ricordarne i
versi 64-67: (...) vei e conosc e sai, / quant
vostra beutat remire / fresca cum rosa en mai,
/ qu'el mont plus bella non sai32
(= vedo, conosco e so, / quando rimiro la vostra
beltà / fresca come rosa di maggio, / che nel mondo
più bella non so). Ora, posto che, in termini
semiotici, si ha metafora quando due sememi (o due
diversi sensi d'uno stesso semema) hanno almeno un
sema in comune,33
nel v. 1 del Contrasto la rosa fresca aulentissima
che nasce inver' la state risulta essere
già metafora della donna con cui condivide il sema
"bellezza" espresso dalle qualità
dell'essere fresca, profumata, primaverile (giovane)
oltre che da quelle proprietà di piacevolezza
estetica che già il termine rosa di per sé
implica; a questo punto, anche il v. 2 deve riferirsi
sia alla donna che alla rosa, qui accomunate da un
secondo sema che possiamo definire
"desiderabilità da parte delle donne" e
che certo è conseguenziale al primo. Il concetto
molto probabilmente espresso dall'uomo nei primi due
versi è dunque il seguente: "sei bella come una
rosa e per questa tua bellezza, al pari della rosa,
sei desiderata (anche) dalle donne"
(formulazione, questa, che sintetizza
l'interpretazione da me definita H3). Del resto
D'Ovidio usa le parole "quasi obliandosi" a
proposito del meccanismo psicologico che egli pensa
sia in atto nel protagonista maschile all'inizio del Contrasto.
Quel "quasi" è molto significativo in
quanto ammette che una parte della psiche del
personaggio dovesse sapere da subito che stava
parlando alla donna dicendole cose che la
riguardavano personalmente. E ciò che sapeva il
personaggio doveva esser presente ovviamente anche
all'autore, tanto più per un testo come questo
destinato alla recitazione.
H2 ha avuto, come ho ricordato più volte, un
grande successo ma i suoi adepti, di fatto pressoché
tutti semplici epigoni di D'Ovidio, sono da
distinguere a seconda se si siano espressi prima o
dopo l'uscita dei Poeti del Duecento
(1960) di Contini. Intendo dire che chi abbia letto
cosa scrive Contini del Contrasto non dovrebbe
con animo leggero sposare con vincolo indissolubile
H2 come invece la quasi totalità degli studiosi che
si sono occupati di questo testo hanno fatto e fanno.
È in certa misura giustificabile perciò Elwert
quando - siamo nell'immediato secondo dopoguerra -
replica alle obiezioni di Lazzeri ad H2 non ritenendo
"che la psicologia ci obblighi ad abbandonare
l'interpretazione tanto sensata del D'Ovidio.
L'amante rimane uno spaccone anche a farlo diventar
più concreto solo al v. 3".34
Più interessante è comunque un ulteriore colpo che
Elwert infligge ad H1 ricordando una ballata compresa
in un memoriale bolognese35
e senz'altro posteriore al Contrasto. In essa
ai vv. 3-6 si legge: Vidila cum alegranza / là
sovrana de le belle / che de zoi menava danza / de
maritate e polcelle; e al v. 11 troviamo: danzando
la fresca rosa. Si tratta, osserva
giustamente Elwert, d'un evidente riflesso del testo
di Cielo e una prova aggiuntiva del fatto che al v. 2
pulzell' e maritate (e dunque anche donne)
hanno un significato "certamente
femminile".36
Nella fase pre-continiana di H2 si colloca anche
Monteverdi che peraltro, in suoi lavori successivi
all'uscita dell'antologia di Contini, non è tornato
sulla questione dei primi due versi del Contrasto.
Ad ogni modo, in un suo saggio sul numero di Studi
medievali uscito dopo la fine della seconda
guerra mondiale, scritto poi ripreso in volume,37 questo studioso si
richiamava all'impostazione di D'Ovidio lodandone
"il buon senso e il buon gusto".38
Ma veniamo ai Poeti del Duecento di
Contini. Ebbene, nell'apparato di note alla sua
edizione del Contrasto, questo finissimo
critico non fa riferimento a H2 ma implicitamente la
contesta nel respingere a chiare lettere Hl. Ecco
infatti cosa scrive Contini a proposito del v. 2:
"le donne: naturalmente femminile.
Chi ha proposto altra interpretazione (Cesareo) non
ha tenuto conto dell'eco scritturale che qui ricorre:
Cant. Cant., I, 2, 'adulescentulae
dilexerunt te' ".39 Peraltro
Contini stesso sorvola sul fatto che nel testo
biblico a parlare è la sposa che, sospirando il suo
sposo, osserva fra l'altro come le fanciulle lo
abbiano caro (in virtù delle qualità che gli sono
proprie). Nel testo di Cielo d'Alcamo, invece,
l'oggetto del desiderio è, ovviamente, la
protagonista femminile del dialogo, per cui al v. 2
parrebbe essere implicitamente contenuta una 'teoria'
della potenziale bisessualità femminile che
troverebbe anche un riscontro in un complimento
diffuso - secondo il Mistero buffo 40 di Fo - nella zona di
Sciacca ("Bedda tu si fighiuzza che anco
altri fighiuzze a tia vurria 'mbrazzari"). Su
quest'ultimo punto, tuttavia, i riscontri da me
effettuati sembrano escludere che almeno a Sciacca
sia stata mai in uso una frase del genere.41 Il riferimento biblico
identificato da Contini mi sembra comunque un solido
indizio in favore di H3: Cielo, nello scrivere il v.
2 ispirandosi al Cantico dei Cantici, non
poteva ignorare i significati che esso avrebbe
assunto, in primo luogo nelle piazze ove sarebbe
stato recitato. Ma sugli indizi a favore di H3
tornerò più avanti.
Quel che ora mi sembra interessante osservare è
come gli studiosi che si sono occupati dei primi due
versi del Contrasto dopo la pubblicazione
dell'antologia di Contini abbiano spesso inglobato in
H2 il richiamo scritturale, attivando l'accoppiata Cantico
dei Cantici (Contini)-H2 (D'Ovidio). Così Folena
riconosce che l'avvio del testo di Cielo "riposa
sull'autorità scritturale del Cantico dei Cantici
I, 2, con la sua simbologia erotica" ma,
ricordati l'"imbarazzo" in cui il brano in
questione ha messo gli studiosi e le erronee
interpretazioni in chiave maschile, conclude
accettando la "fine e giusta
interpretazione" 42 di
D'Ovidio. Allo stesso modo procede Frede Jensen nella
sua antologia The Poetry of the Sicilian School,
accostando la citazione continiana dalla Bibbia e
quell'interpretazione di D'Ovidio che "appears
to have won general acceptance".43
Il che è stato a lungo vero, sebbene abbiano forse
qualche significato, le già menzionate edizioni
post-continiane del Contrasto che hanno
ritenuto di non dover annotare i primi due versi,
evidentemente ritenendoli di chiara comprensione e
dunque, probabilmente, non aderendo ad H2 (cosa che
ancor più può pensarsi dell'edizione curata da Del
Monte ove troviamo solo un sintetico rimando al Cantico
dei Cantici): H2, infatti, non emerge
affatto ad una normale lettura di tali versi.
C'è comunque una versione recente di H2, che ha
almeno il merito di non rifarsi pedissequamente a
D'Ovidio e che riformula in modo più preciso - il
che non vuol dire corretto - il rapporto metaforico
fra rosa e donna nei primi due versi del testo di
Cielo. Ne è autore Nicola Mineo, che ha anche
redatto la voce relativa a Cielo nel Dizionario
biografico degli italiani e che in un suo recente
studio scrive: "L'avvio alto del primo
emistichio, tutto allusivo alla maniera colta nella
tradizionalità dell'invenzione metaforica - 'Rosa
fresca aulentissima' - non riesce a sostenersi
neanche per la durata di un verso, poiché già nel
secondo emistichio la metafora si dissalda nella sua
unità di metaforizzante e metaforizzato, e rimane
solo soggetto il metaforizzante, la rosa. È
il fiore ovviamente che sboccia in prossimità
dell'estate e che è desiderato dalle donne di ogni
qualità. Non hanno ragione quindi gli interrogativi
relativi all'interpretazione della lettera. Dal terzo
verso invece si accampa nettamente il metaforizzato,
la donna desiderata".44 La posizione
di Mineo è insieme perentoria e sottile: mi sembra
appaia chiaro, a questo punto della mia esposizione,
che H1 e H2 sono anche (o dovrei dire
"soprattutto"?) tentativi di inibire H3,
l'interpretazione da quasi tutti innominata e
rimossa; ma la rimozione cui alludo è di natura
testuale, riguarda la letteratura critica e non le
menti di critici e studiosi che certo - salvo
eccezioni - si impegnano consapevolmente ad impedire
che H3, sia pure per rifiutarla a chiare lettere,
emerga; ebbene, per Mineo, ciò che sui primi due
versi del Contrasto doveva essere detto lo è
stato e perciò nulla vi è più da aggiungere, se
non, quando necessario, la ripetizione di H2 nella
più aggiornata versione; quest'ultima è comunque
sottile perché, superando la tesi dell'iniziale
'quasi-smemoramento' postulata da D'Ovidio, riformula
'scientificamente' un ragionamento già espresso da
Zicàri45 e quindi
giudica: l) rivolto anche alla donna il primo
emistichio del primo verso (difficile era infatti
sostenere che aulentissima riguardasse solo la
rosa come pensava D'Ovidio), 2) riferita unicamente
alla rosa la molto botanica proprietà di nascere in
maggio, sufficiente a salvaguardare da H3
l'interpretazione del temutissimo secondo verso.
Anche qui, tuttavia, uno 'smemoramento' non manca:
l'uomo inizia a proferire le lodi della donna
desiderata ma quasi subito la sua mente prende a
vagare altrove, per itinerari di orti e di feste
campestri, tornando poi bruscamente all'oggetto
specifico cui la sua libido è rivolta: che soffra
forse di personalità multipla alternando la mente
d'un mandrillesco giullare a quella d'un operoso
floricoltore? Inoltre, fuor dello scherzo, ho già
detto - avvalendomi anche di esempi - come la rosa
apparsa in maggio evochi giovinezza e bellezza e come
essa verosimilmente concorra a quel meccanismo
metaforico che associa la rosa alla donna attraverso
sia il sema "bellezza" sia,
conseguenzialmente, il sema
"desiderabilità". Ma su H3 torneremo più
avanti in quanto, per completezza, sono ancora da
ricordare una variante secondaria di H2 e una
interpretazione 'originale' che la decenza
m'impedisce di definire H4.
Già nella seconda metà dello scorso secolo, ad
opera di D'Ancona,46
era stato ipotizzato un collegamento fra il v. 2 del Contrasto
e il v. 42 di un epitalamio catulliano (è il
carme 62): multi i1lum pueri, multae optavere
puellae ("molti fanciulli lo desiderarono, e
molte fanciulle"). L'oggetto è qui un fiore
che, finché rimane intatto e radicato al suolo, è
appunto desiderato da fanciulli e fanciulle ma, una
volta che esso sia stato divelto e sia appassito, il
loro desiderio viene meno; allo stesso modo una
fanciulla, finché resta vergine, è cara ai suoi ma,
quando abbia perso il proprio castum florem,
più non è cara né ai fanciulli né alle fanciulle:
questi concetti sono cantati ai vv. 39-47 dal coro di
fanciulle e contestati subito dopo dal coro di
giovani che naturalmente hanno l'ultima parola
riguardo alla necessità che le ragazze si sposino. A
questo passo di Catullo si sono ispirati Ovidio nelle
Metamorfosi (III, vv. 353-355) a proposito
della bellezza di Giacinto e l'Ariosto nella celebre
quarantaduesima strofa del primo canto dell'Orlando
furioso i cui due ultimi versi suonano: gioveni
vaghi e donne inamorate / amano averne
e seni e tempie ornate. L'idea che Cielo abbia
guardato al testo di Catullo torna in altri studiosi
come Pepe47 e
Marmorale48: tale
convinzione, nell'istituire una connessione tra il flos
catulliano e la rosa del Contrasto, asserisce
(Pepe) o sembra sottintendere (Marmorale) che il v. 2
del testo di Cielo riguardi solo il fiore, sebbene in
Catullo esso sia anche un simbolo sessuale (il fiore
appassito e non più desiderato è simile alla
fanciulla non più amata dopo aver perso la propria
verginità). Zicàri, comunque, ricorda che non vi è
alcuna notizia "d'una conoscenza di Catullo al
tempo di Cielo nell'Italia meridionale o in
Sicilia" e afferma, giustamente, di non vedere
"perché Cielo doveva rammentare proprio le puellae
e non i pueri, del verso 42, e
parlare di donne, anziché d'uomini".49 Così egli dà la
propria spiegazione del v. 2 volta a mostrare che
esso "non è affatto illogico"50 : le donne, a suo
avviso, desiderano solo la rosa e al fine di
adornarsene, un'interpretazione che mi pare tuttavia
poco congruente con l'eco dal Cantico dei Cantici che
Zicàri, non a caso, non menziona. Egli aggiunge,
precorrendo la posizione di Mineo, che è
"abbastanza comune (...) l'identificazione al
posto della comparazione, quel rivolgersi alla donna
nel fiore, e lodare di questo qualità che non
possono essere di quella, come non tanto
'aulentissima' quanto 'c'appari inver la state'
"51 : ma ho
già detto che il secondo emistichio del primo verso,
sebbene in sé non sembri riferibile anche a un
soggetto umano, lo diviene se si tenga conto di
espressioni analoghe come il rosa novella di
Giacomino Pugliese e se si consideri l'intero primo
verso come un'espressione metaforica della bellezza
della donna. Sintomatica mi pare peraltro un'altra
frase del saggio di Zicàri: "La donna è una
rosa di maggio, bella e profumata tanto, che tutte
vorrebbero adornarsene".52
Zicàri ha ammesso che "profumata" si
riferisce anche alla donna, lo stesso vale ovviamente
per l'aggettivo "bella" (inoltre, aggiungo
io, la qualificazione "di maggio"
incrementa il concetto di bellezza proprio sia della
rosa che della donna): dunque di che cosa tutte
vorrebbero adornarsi? Della rosa o, come la frase di
Zicàri potrebbe far supporre, della donna? Anche il
linguaggio si ribella ai tentativi di scindere - nei
primi due versi del Contrasto - ciò che è
detto dell'una da ciò che è detto dell'altra. Del
resto, è ovvio che le donne desiderano la rosa per
motivi e scopi diversi da quelli per cui, al tempo
stesso, desiderano la donna: ma questo non fa venir
meno il meccanismo metaforico, così come, nella
metafora duecentesca domini canes ad indicare
l'ordine dei domenicani, di alcun rilievo era il
fatto che la fedeltà dei cani fosse verso il loro
padrone e quella dei frati verso Dio né che i primi
difendessero appunto il padrone ed i secondi i
princìpi della religione cristiana.53
La più curiosa interpretazione del v. 2 del Contrasto
- non catalogabile in nessuna delle tre che ho
identificato - è però quella che troviamo in un
saggio di Pasquini compreso nella Letteratura
Italiana diretta da Muscetta.54
Per Pasquini, che pure riporta la lezione continiana
del testo di Cielo e cita al v. 2 il Cantico dei
Cantici, l'espressione ti disiano significa
"aspirano alla tua condizione (...) ammirandoti
quasi con invidia".55
Ciò sarebbe provato dal v. 44 ove l'uomo chiama la
donna rosa invidïata. Dunque per questo
studioso desiderare qualcosa significa voler essere
quel qualcosa: è a interpretazioni come quella di
Pasquini che certo pensava Fo quando, in Mistero
buffo, ipotizzava un bambino che, volendo una
mela, diceva alla mamma: "Mamma, desidererei una
mela... no, non desidererei nel senso di
volerla mangiare, ma vorrei apparire come la
mela, rotonda e rossa da mordere".56
A parte dunque la museale H1 e l'autopasquinata
involontaria di cui sopra, l'interpretazione residua
era - fino a poco tempo fa - apparentemente una e una
sola: H2. In realtà una buona metà (e forse oltre)
delle ragioni di essere di H2 consistono nella
volontà di occultare H3. Poniamo, infatti, che H2
sia vera riguardo al primo verso del Contrasto e
che quindi il secondo emistichio parli solo della
rosa: da che cosa i sostenitori di H2 deducono che
sicuramente anche il v. 2 si riferisce soltanto al
fiore? Non lo dicono, perché farlo significherebbe
prendere in esame H3, l'interpretazione rimossa e
perniciosissima. Eppure correttezza scientifica
vorrebbe che s'interrogassero sulla probabilità che
H3 sia (o non sia) congruente con l'epoca e il
contesto culturale in cui il testo di Cielo è stato
prodotto. La rimozione in atto però genera sintomi
di cui ho dato già qualche esempio nelle pagine
precedenti: il "buon senso" e il "buon
gusto" citati da Monteverdi (a proposito di H2),
l' "imbarazzo" (generato nei critici dai
primi due versi) che evoca Folena prima di rifugiarsi
anch'egli nel porto salvifico di H2, la stessa
burbanzosità ("non hanno ragione gli
interrogativi relativi all'interpretazione della
lettera") di Mineo. Tutti segni dell'esistenza
di qualcos'altro: qualcosa di insensato, di
disgustoso, di perturbante, di innominabile. H2,
anche se fosse vera, rimarrebbe sempre - salvo una
sua improbabile evoluzione - un meccanismo
interpretativo nevrotico.
Naturalmente c'è una considerazione aggiuntiva da
fare sul successo di H2: il Contrasto, per il
suo porsi fra i primi esempi del nostro volgare
letterario, è in genere presente, almeno in parte,
nelle antologie scolastiche ed H2 ha in esse
egregiamente sostituito H1 (poco importa se H2
risponda o meno a verità). Per curiosità sono
andato a recuperare, dietro pile di libri, l'Antologia
della letteratura italiana che avevo al liceo,
quella in più volumi a cura di Angelo Gianni, Mario
Balestreri e Angelo Pasquali (vol. I, 3a ed., D'Anna,
Messina-Firenze, 1968), senz'altro un'ottima opera,
di livello quasi universitario: di Rosa fresca
aulentissima (pp.127-133) ci sono solo 14
delle 32 strofe ma l'ultima nota informa che
"incalzata sempre più da presso Madonna si
arrenderà a discrezione" (p.133). Certo però
avremmo preferito trovar stampato, se non altro per
veder arrossire le più timide fra le nostre
compagne, quel vigoroso e gaudente a lo letto
ne gimo a la bon'ora che Madonna pronuncia nel
finale. Riguardo, comunque, ai primi due versi trovo
in nota, senza sorpresa, H2 ma ciò che mi ha stupito
è il mio aver scritto, a lapis e fra parentesi
vicino a le donne (v. 2), l'espressione
"i donni": spero si trattasse, come
probabilmente attesta la parentesi, d'un richiamo
storico del professore ad Hl; molto mi dispiacerebbe
se, trattandosi d'un docente validissimo divenuto
oggi uno dei maggiori studiosi della nostra
letteratura, si fosse tuttavia all'epoca attardato
nelle anticaglie di H1. Mentre lo giustifico se, pur
essendo quei tempi prossimi al mitico '68 (che era
passato da poco), non ha pensato o non se l'è
sentita di prospettare l'eventualità di H3 (l'avesse
fatto la mia copia dell'antologia ne avrebbe serbato
traccia e inoltre, verosimilmente, me ne ricorderei).57
Veniamo dunque ad H3, che personalmente ritengo
l'interpretazione molto più probabile, anche se
lascio qualche minima possibilità residua ad H2
nella sua attuale versione. Un primo indizio a favore
di H3 è, come ho detto, il richiamo del v. 2 a un
passo connotato eroticamente del Cantico dei
Cantici. Tuttavia la verosimiglianza storica di
H3 va meglio provata e a questo scopo fondamentale è
quella duecentesca ballata del notaio e poeta
Bonagiunta Orbicciani cui D'Ancona rimandava chi non
avesse accettato H1. Ricordiamo che l'Orbicciani -
noto specialmente per esser stato posto da Dante nel
Purgatorio, ove patisce fra i golosi (XXIV, vv. 19-20
e 34-63) - fu "l'autentico trapiantatore dei
modi siciliani in Toscana"58
ed è lui, nell'invenzione dantesca, a riconoscere il
superamento della maniera poetica propria, della
scuola siciliana e di Guittone ad opera del dolce
stil novo (vv. 55-60). Ciò premesso, vediamo i vv.
25-27 della sua ballata Donna, vostre bellezze:
Maritate e pulzelle / di voi so' innamorate, /
pur guardandovi 'n mente59
(=donne sposate e fanciulle sono innamorate di voi al
solo guardarvi nella loro mente). Per chi conosca i
testi di Bonagiunta, sul significato del termine innamorate
non possono esservi dubbi e Contini - non tuttavia
nelle note al Contrasto - pone giustamente in
rapporto questi versi col le donne ti disiano,
pulzell'e maritate di Cielo: "ricorrono
'maritate e pulzelle' innamorate della donna, come in
Cielo, v. 2".60
Evidentemente i sostenitori di H2, e in particolare
coloro che hanno associato il richiamo biblico del v.
2 con la posizione di D'Ovidio, dell'antologia
continiana hanno letto solo ciò che tornava loro
più comodo. Trovo perciò di grande rilievo
scientifico e insieme - mi si perdoni l'intenzionale grossièreté
- d'esaltante goduria che, da poco più di un
anno, i rappresentanti attuali di quest'agguerrita e
a lungo totalizzante congrega abbiano qualcos'altro
su cui riflettere e forse perturbarsi: l'apparato di
note curato da Luigina Morini per il testo continiano
del Contrasto nella citata Antologia della
poesia italiana diretta da Segre e Ossola. La
Morini, peraltro, a proposito del v. 2 appare
comprensibilmente, ma in qualche misura anche
curiosamente, assai dubitosa. Ecco infatti che cosa
scrive: "2. le donne ti disiano:
espressione di ascendenza scritturale (Ct, I,
2: 'adulescentulae dilexerunt te'); oggetto del
desiderio sarà il fiore, non la donna che esso
simboleggia: ma cfr. Bonagiunta, Donna, vostre
belleze, 25-27: 'Maritate e pulzelle / di voi so'
'nnamorate, / pur guardandovi mente' ".61 Dunque la studiosa
menziona dapprima lo spesso citato (da Contini in
là) passo del Cantico dei Cantici (a questa
fonte si riferisce la sigla Ct); poi -
ricorrendo a un tempo futuro che certo intende
esprimere perplessità ma anche a una proposizione
che nel suo insieme appare ridurre dì molto la
percentuale di dubbio usualmente connessa al
"sarà" dubitativo - afferma il possibile
riferirsi dell'atto desiderante (di pulzelle e
maritate) alla rosa e non alla donna (il che
corrisponde alla riproposta, sia pur ipotetica, di
H2); infine, con una correttezza ignota a quasi tutti
gli studiosi di questo testo, ricorda il v. 2 della
ballata di Bonagiunta, che già era stato menzionato
da D'Ancona e evidenziato - ma non nelle note al Contrasto
- da Contini: nel complesso una formulazione che, pur
tenendo conto della necessità di sintesi
generalmente prescrittiva nell'elaborazione di note a
testi letterari, mi sembra non solo problematica (nel
senso d'una legittima cautela interpretativa) ma
anche conflittuale (nell'accezione psicologica del
termine). Personalmente invece ritengo che i versi di
Bonagiunta costituiscano, tenuto conto degli indizi
già dati, la prova risolutiva, o quasi, della
validità di H3. Il 'quasi' dipende da un assoluto
scrupolo scientifico, non escludendo - ma ritenendolo
pressoché impossibile - che, pur essendovi analogia
fra i due testi, non vi sia fra loro identità di
significato: in effetti questo è chiarissimo in
Bonagiunta, con un minimo di residua ambiguità in
Cielo. Questo 'minimo', comunque, è davvero
infinitesimale.
Considerato quindi che anche la scienza nel senso
stretto del termine è oggi probabilistica e che in
tale chiave è da intendersi il concetto di verità
scientifica, riterrò di qui in avanti vera H3
per il suo elevatissimo grado di probabilità.
Inoltre, anche prescindendo da questa considerazione,
resta ad ogni modo il fatto che nel testo di
Bonagiunta sussiste, senza alcuna ombra di dubbio, un
riferimento alla potenziale bisessualità femminile.
Ci si può chiedere allora quanto queste immagini
poetiche corrispondano ad una realtà esterna di
quell'epoca: la documentazione storica non è di
semplice acquisizione ed è soprattutto relativa alla
situazione francese grazie agli importanti studi di
Georges Duby e della sua scuola. Tuttavia, essendo le
dinamiche socioculturali nel corso del Medioevo
sostanzialmente analoghe in tutta Europa, quanto si
sa dell'àmbito francese può in buona misura
applicarsi a quello italiano. In particolare è
utilissimo ai nostri fini uno studio di Duby
pubblicato in Francia nel 1996 (Dames du XIIe
siècle. Ève et les prêtres, Paris, Gallimard)
e con meritoria rapidità tradotto in Italia col
titolo I peccati delle donne nel Medioevo.62 Lo storico
francese attesta che dell'esistenza di casi di
bisessualità femminile nel Medioevo si trova
testimonianza in alcuni trattati ecclesiastici, opere
scritte ovviamente da uomini e generate in
un'istituzione per la quale la donna era
costitutivamente lussuriosa: ciò non toglie che i
'peccati' sessuali di cui quei trattati parlano è da
pensare non siano frutto dell'immaginazione dei loro
autori. Già poco oltre l'anno 1000, il giureconsulto
e canonista tedesco Burcardo, vescovo di Worms, nelle
fredde pagine del suo Decretum (1007-1012) - e
in particolare nel capitolo XIX che, col titolo Corrector
o Medicus, circolò più dell'insieme del
trattato - affermava l'idea, comunque non nuova,
d'una specifica vocazione femminile alla lussuria.
D'altra parte, per Burcardo, la donna è quasi sempre
passiva rispetto all'uomo nelle
pratiche sessuali, per cui ella è fortemente
peccatrice in quest'àmbito o nei rarissimi casi in
cui prende l'iniziativa o quando s'impegna in atti
illeciti ove l'uomo non è coinvolto: è il caso di
quei piaceri che le donne "si prendono lontano
dagli uomini, nel segreto della camera delle
dame",63 fra
cui ovviamente i giochi erotici che esse possono fare
tra loro. È un'epoca in cui le donne si sposano
giovanissime con un uomo scelto dalla famiglia cui
devono obbedienza: si intravede così, nelle severe
parole di Burcardo, l'esistenza d'una solidarietà
femminile che certo può esprimersi anche in termini
sessuali. Il Decretum - che, essendo
una raccolta di canoni ecclesiastici, non si occupa
ovviamente solo di sessualità - elenca, per ogni
peccato, le pene pubbliche che l'autorità religiosa
doveva infliggere e non è senza significato che, a
parità di colpa, siano più pesanti le sanzioni per
le donne di quelle per gli uomini: pochi giorni di
penitenza per un uomo che ne abbia accarezzato un
altro ma - come ricorda Duby - "da tre a cinque
anni di lamentazioni pubbliche, di digiuni, di
penosissime astinenze per riscattare il peccato delle
lesbiche o di quelle scervellate che sognano di
cavalcare nella notte in compagnia delle
diavolesse".64
Come ben rileva lo storico francese, "alle
soglie del secondo millennio, all'epoca in cui
lavorava Burcardo di Worms (...) la Chiesa decise di
porre sotto il più stretto controllo la sessualità:
essa era allora dominata dallo spirito monastico
(...). La Chiesa divise (...) gli uomini in due
gruppi. Ai servitori di Dio vietò l'uso del sesso,
lo permise agli altri, alle condizioni draconiane che
essa dettava. Rimanevano le donne, il pericolo,
perché tutto ruotava intorno ad esse. La Chiesa
decise di assoggettarle, e a questo scopo definì
chiaramente i peccati dei quali le donne, per il loro
temperamento, si rendevano colpevoli".65 Il Decretum
era dunque un'arma con cui il potere maschile
si difendeva. Nel secolo successivo, si diffonde
però nell'alta società l'amore cortese che prevede
l'attivarsi del desiderio anche nella donna, rivolto
non al marito ma all'amante per il quale - al fine di
incrementarne la passione e l'eccitazione - ella
impara a curare di più il proprio aspetto fisico.66 Non sorprende dunque il
divertimento con cui il vescovo Stefano di Fougères,
nel suo lungo poema in latino, destinato all'ambiente
di corte, Livre des manières (1174-1178),
parla dei rapporti lesbici, il peccato "contro
natura", 67 il
nuovo "gioco che hanno trovato le dame" 68 impegnandovisi assai
volentieri. Si potrebbe sospettare che il vescovo,
nel suo mixing fra reprimenda morale e godimento
perverso, un po' esageri ma, come osserva Duby, egli
"molto ben introdotto nell'ambiente cortese
(...) parla certamente di esperienze vissute ".69 Come ho detto, il
celiare di Stefano di Fougères non muta
l'atteggiamento dell'istituzione ecclesiastica verso
la donna e le sue colpe: anche nel Livre des
manières le donne sono
rappresentate come sessualmente incontenibili e il
lesbismo, nel sottrarle alle regole del microcosmo
coniugale, è ovviamente giudicato il più grave fra
i molti peccati che la lussuria femminile genera.
Come il lettore avrà notato non ho usato fin qui il
termine "omosessuale" (inteso in senso
stretto): non lo sono, in genere, le donne di cui
parlano i trattati ecclesiastici che sono sposate
(né è ragionevole pensare che, pur non avendo
spesso scelto il proprio sposo, in maggioranza
odiassero le prestazioni coniugali) e magari hanno
anche un amante, e che tuttavia - non dico tutte, non
dico di sovente - non disdegnano giochi erotici con
le loro amiche; non lo sono le fanciulle e le donne
sposate che si sentono attratte da una donna in Cielo
e in Bonagiunta: è la bellezza di lei che è
complimentosamente giudicata tale da attrarre anche
le altre donne. È giunto infatti il momento di
chiarire che quando parlo di potenziale bisessualità
femminile cui alludono i testi di Cielo e di
Bonagiunta, non mi riferisco a una sia pur minimale
anticipazione della tradizionale e scientificamente
discutibile teoria psicoanalitica della
bisessualità, ma alla più semplice e lineare
considerazione che - almeno secondo Cielo, Bonagiunta
e molti altri e altre - una ragazza molto bella può
attivare desideri anche in soggetti femminili
usualmente eterosessuali. Certo Cielo o, più
precisamente, il suo personaggio maschile (che
tuttavia gioca alla parte del corteggiator cortese) e
Bonagiunta sono assolutisti: a sentir loro qualunque
altra donna è destinata a innamorarsi della loro
amata (o almeno a desiderarla), 70
mentre nel mondo reale le cose non sono mai
così automatiche neanche fra uomo e donna (o
viceversa). Naturalmente il prof. Gustav von
Aschenbach aggiungerebbe che forse il meccanismo vale
anche per gli uomini - almeno, a lui è capitato -
quando vedano per esempio il suo Tadzio, certo non
tutti gli uomini (e questa è già una delimitazione)
ma quanti sappiano cogliere la Bellezza nel suo
apparire fenomenico: la questione andrebbe posta al
personaggio di Cielo (o direttamente a quest'ultimo)
e a Bonagiunta che però, probabilmente,
risponderebbero a male parole; io - pur con tutto il
rispetto per l'esaltato e dolente professore ed
esprimendo una posizione che non aspira al rango di
necessaria norma comune - so di me stesso che, alla
vista di Tadzio e della sua famiglia, mi sarei
interessato alle sue "monacali"71 sorelle (intendo quelle
cui allude, un po' schifiltosamente, Mann e non certo
la bambina, la bambinona e la bambinuccia del
celeberrimo film di Visconti) o magari a sua madre se
avesse avuto lo stesso aspetto della viscontiana
Silvana Mangano. Ma torniamo ai testi medievali.
Giacomo di Vitry, alla fine della sua raccolta di
sermoni pubblicata nel 1226, ha posto quelli rivolti
agli sposi. La donna non deve rifiutarsi al marito ma
- e questa è una novità - neppure deve
"credere di essere tenuta a dissimulare il
proprio desiderio"72;
ed il marito non deve farle violenza "credendola
sempre sottomessa al suo piacere".73
Inoltre, sorprendentemente, Giacomo di Vitry, a
proposito dei casi in cui una donna non riesce a
contenere il proprio desiderio sessuale, scrive:
"se la dama può liberarsi diversamente senza
scandalizzare il marito, essa non deve dirglielo. Ci
sono molte cose che i mariti non devono sapere -
visto che hanno un'eccessiva tendenza a disprezzare
le donne - e delle quali non si può parlare dal
pulpito".74
Duby osserva che "si nota qui il prete ben
informato per mestiere e perché forse, dopo due
secoli, sono arrivate fino a lui le parole del Medicus
a proposito dei rimedi che le donne usano
talvolta tra loro per calmarsi; non si sa se la sua
sia indulgenza o disprezzo, in ogni caso il tono è
discreto". 75 A
me pare si tratti d'indulgenza, come penso sia
dimostrato dall'asserzione d'una liceità di non dire
tutto al marito e dal giudizio negativo sul disprezzo
degli uomini verso le donne. Il fatto è che fin
dall'ultimo ventennio del dodicesimo secolo, la
posizione delle donne "fu in parte rivalutata,
(...) gli uomini si abituarono a trattarle come
persone, a discutere con loro, ad allargare il campo
delle loro libertà".76
Questo spiega, credo, come anche qualche
ecclesiastico possa essere stato un po' più
tollerante dei suoi predecessori, addirittura - è il
caso di Giacomo di Vitry - non sanzionando, purché
non diano scandalo al marito, certi comportamenti
femminili sessualmente trasgressivi77.
Dunque, anche all'esame della macrocultura in cui
sono stati prodotti, cioè quella europea del '200, i
vv. 1-2 del Contrasto risultano congruenti con
H3. Essi e, ovviamente, i vv. 25-27 della ballata di
Bonagiunta Orbicciani implicano insomma una 'teoria'
della potenziale bisessualità femminile che molto
piacerebbe, per citare un personaggio dell'odierna
fiction letteraria (prima ancora che filmica), alla
Emmanuelle (o ad altre meno note fanciulle) di
Emmanuelle Arsan. O, per non debordare dai confini
dell'epoca di Cielo e di Bonagiunta, alle bisessuali
signorine e signore (Aélis, Isabelle, la Signora di
Montpellier) dell'Escoufle (1200-1202) di Jean
Renart.78
NOTE
* Questo saggio, con il testo del Contrasto
corredato di note e apparati critici, è stato
pubblicato da Edizioni Gazebo, Firenze, 1999. [Torna
all'inizio]
1) Gianfranco Contini (a cura di), Poeti
del Duecento (vol. II de La letteratura
italiana. Storia e testi, diretta da
Raffaele Mattioli, Pietro Pancrazi e Alfredo
Schiaffini), Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, tomo I,
pp. 173-185 e tomo II, p. 819, citaz. t. I, p. 177.
2) Si veda al v. 112 l'espressione
giullaresca enfra esta bona jente, certo più
dell'autore-attore che del personaggio. Peraltro c'è
chi - p. es. Simonetta Bianchini - ritiene Cielo non
un giullare (quand'anche dotato d'alte capacità
poetiche e di buona cultura) ma un poeta della corte
federiciana e chi si colloca su posizioni più
sfumate. Della Bianchini si veda, a questo proposito,
"Cielo d'Alcamo, i Provenzali e i Poeti
siciliani", in AA. VV., Cielo d'Alcamo e la
letteratura del Duecento (Atti delle giornate di
studio, Alcamo, 30-31 ottobre 1991), Alcamo,
Sarograf, 1993, pp. 65-74: questa studiosa ha in
effetti dimostrato le forti similitudini fra il Contrasto
e i testi di Giacomo da Lentini e di altri poeti
della scuola federiciana nonché un comune influsso
provenzale. Ma un giullare colto (e ve n'erano) non
aveva alcuna difficoltà a far proprie modalità
espressive dei poeti curiali con cui entrava in
contatto o di cui gli giungeva l'eco.
3) G. Contini, op. cit., t.
I, p. 175.
4) Cfr. Salvatore Satta e Francesco
Egidi (a cura di), Il libro de varie romanze
volgare. Cod. Vat. 3793, fascicolo II, Roma,
Società Filologica Romana, 1903, pp. 52-55 (nel
Codice 3793 il Contrasto è anonimo;
l'attribuzione a un "Cielo dal camo" si
deve agli appunti di Angelo Colocci che la effettuò
sulla base di un qualche codice non pervenutoci: cfr.
Nicolò Mìneo, voce "Cielo d'Alcamo", in
AA. VV., Dizionario biografico degli italiani, vol.
XXV, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, 1981, pp. 438-443 e Roberto Antonelli,
"Canzoniere Vaticano latino 3793", in
Alberto Asor Rosa [a cura di], Letteratura
italiana. Le opere, vol. I, Torino,
Einaudi, 1992, pp. 27-44).
5) Francesco De Sanctis, Storia
della letteratura italiana, vol. I, Napoli,
Morano, 1903, p. 1.
6) Nicolò Mineo, op. cit.,
p. 442; id., "Per una rilettura del
'Contrasto' di Cielo d'Alcamo", in AA. VV.,
Cielo d'Alcamo e la letteratura del Duecento, cit.,
pp. 19-29, citaz. a p. 23; id., "Il 'Contrasto'
di Cielo d'Alcamo tra ritualità e realismo", La
rassegna della letteratura italiana, n. 3, 1993,
pp. 5-10, citaz. a p. 9. Sulle significazioni
erotiche del Contrasto cfr. Roberto Antonelli,
"Il problema Cielo d'Alcamo", in AA.VV., op.
cit., pp. 45-62 e Sergio Cristaldi, 'Contrasto
erotico e contrasto ascetico", in op. cit.,
pp. 155-169: entrambi questi studiosi
preferiscono però - e ciò non può che sorprendere
- tacere sull'interpretazione dei vv. 1-2.
7) Cesare Segre e Carlo Ossola (a
cura di), Antologia della poesia italiana, vol.
I (Duecento-Trecento), Torino,
Einaudi-Gallimard, 1997.
8) Francesco A. Ugolini (a cura
di), Testi antichi italiani, Torino,
Chiantore, 1942, pp. 158-164.
9) Bruno Panvini (a cura di) , Poeti
italiani della corte di Federico II, Napoli,
Liguori, 1994, pp. 241-249 e 315-317. Di ogni strofa
del Contrasto - come di ogni altro
testo compreso nella raccolta - Panvini dà comunque
una traduzione interpretatíva che per i primi due
versi così suona: "Rosa fresca profumatissima,
che appari verso l'estate, le donne ti desiderano,
donzelle e sposate" (p. 241). Nelle note,
invece, "realizzate secondo un criterio di
stringatezza e di brevità" (p. 33), Panvini
nulla dice di tali versi. Anche Faccioli (o chi per
lui) e Arveda - che entrambi riprendono la lezione
continiana - nei loro apparati di note non si
pronunciano sulla corretta interpretazione del v. 2:
cfr. Emilio Faccioli (a cura di), Il teatro
italiano, vol. I (Dalle origini al
Quattrocento), tomo I, Torino, Einaudi, 1975, p.
19 (l'espressione "o chi per lui" è
motivata dal fatto che in questo volume non è
indicato, nella nota sui curatori dei vari testi, chi
abbia redatto le note al Contrasto) e Antonia
Arveda (a cura di), Contrasti amorosi nella poesia
antica italiana, Roma, Salerno Editrice, 1992, p.
7. Lo stesso fa Antonino Pagliaro nell' edizione del Contrasto
da lui curata (compresa nei suoi Poesia
giullaresca e poesia popolare, Bari, Laterza,
1958, pp. 212-232 e Forma e tradizione, Palermo,
Flaccovio, 1972, pp. 61-99) ma le sue note indicano
solo le varianti testuali mentre questo studioso, nel
saggio "Il Contrasto di Cielo d'Alcamo"
(nel suo Saggi di critica semantica, 2a ed.,
Messina-Firenze, D'Anna, 1961, pp. 229-281), respinge
quell'interpretazione dei vv. 1-2 che più avanti
definirò H1. Si astiene di recente da prender
posizione sul v. 2 Andrea Fassò, nel capitolo su
"I primi documenti della letteratura
italiana" nella Storia della letteratura
italiana, diretta da Enrico Malato, vol. I (Dalle
origini a Dante), Roma, Salerno Editrice, 1995,
pp. 233-264: Fassò riporta, infatti, anche i primi
due versi limitandosi a dire di essi che indicano
come Cielo cerchi di "mimare fin
dall'esordio" (op. cit., p. 254)
il linguaggio della poesia cortese. Della per certi
versi clamorosa reticenza sui vv. 1-2 di Antonelli e
Cristaldi ho già detto (alla nota 6).
10) Leone Allacci, Poeti antichi
raccolti da codici manoscritti della Biblioteca
Vaticana e Barberina, Napoli, Allecci, 1661, pp.
287 e 408-416.
11) op. cit., p. 287.
12) op. cit., p. 408.
13) Ernesto Monaci, "Il
poemetto di Cielo dal Camo con due documenti ad esso
relativi", Bullettino dell'archivio
paleografico italiano, I, fasc. II, 1910-1912,
pp. 271-278, citaz. a p. 274. Sulla designazione
"dal Camo" cfr. nota 4.
14) Giusto Grion, Il serventese
di Ciullo d'Alcamo. Esercitazione critica, Padova,
Prosperini, 1858. È da rilevare, a proposito del
titolo dei lavori di Grion qui citati, che la
denominazione Ciullo, accettata come valida fin quasi
ai nostri giorni, è senz'altro da respingersi
essendo stata provata la sua erroneità.
15) Giusto Grion, "Il
serventese di Ciullo d'Alcamo. Scherzo comico del
1247", Il Propugnatore, IV,
1-2, 1871, pp. 104-181.
16) Alessandro D'Ancona, Studi
sulla letteratura italiana dei primi secoli, Ancona,
Morelli, 1883, pp. 241-458, citaz. a p. 324.
17) op. cit., p. 413.
18) Giovanni Alfredo Cesareo, Le
origini della poesia lirica e la poesia siciliana
sotto gli Svevi, Milano, Sandron, 1924, p.
372.
19) op. cit., p. 374.
20) Cfr. Antonino Pagliaro,
"Il Contrasto di Cielo d'Alcamo", cit.
21) Gerolamo Lazzeri (a cura di), Antologia
dei primi secoli della letteratura italiana,
Milano, Hoepli, 1942, pp. 466-484.
22) Camillo Guerrieri Crocetti (a
cura di), La magna Curia. La scuola poetica
siciliana, Milano, Bianchi-Giovini, 1947, pp.
235-253.
23) Cfr. op. cit., p. 236.
24) op. cit., p. 247.
25) Francesco D'Ovidio, appendice a
Versificazione italiana e arte poetica medievale, Milano,
Hoepli, 1910, pp. 589-750; poi in Opere, vol.
IX, tomo III, Napoli, Guida, 1932, pp. 169-335,
citaz. a p. 258.
26) G. Lazzeri, op. cit.,
pp. 468-9.
27) op. cit., p. 469. Anche
Guerrieri Crocetti sottolinea la "tortuosità
ambigua e senza riscontri" (op. cit., p.
247) dell'interpretazione di D'Ovidio, ma poi
anch'egli, come ho già detto, opta per H1.
28) Frede Jensen (a cura di), The
Poetry of the Sicilian School, New York-London,
Garland Publishing, 1986, p. 238.
29) I testi della scuola siciliana
citati sono in Bruno Panvini (a cura di), Le rime
della scuola siciliana, vol. I, Firenze,
Olschki, 1962 (qui la canzonetta di Giacomino
Pugliese è riportata fra le "poesie di dubbia
attribuzione" in quanto per il Codice 3793 si
deve a Giacomino ma per il Palatino 418 e per il
Chigiano L.VIII.305 è di Pier delle Vigne: Panvini
tuttavia precisa - a p. XLVII - i convincenti motivi
per cui "è bene dare credito" al Codice
3793). A cura di Panvini, cfr. anche Poeti
italiani della corte di Federico II, cit.
, ove però - per lo stretto àmbito delimitato dal
titolo del volume (che comprende solo autori
sicuramente operanti presso la corte federiciana) e
per la scelta (conseguenziale alla precedente) di non
includervi testi anonimi - fra le liriche da me
citate sono comprese solo quelle di Federico II e di
Giacomo da Lentini. Isplendiente di Giacomino
Pugliese è anche in C. Segre e C. Ossola, op. cit.;
la canzonetta di Compagnetto da Prato è anche in A.
Arveda, op. cit.; Dal core mi vene di
Giacomo da Lentini e l'anonima Rosa aulente
sono anche in Contini, op. cit.,
t.I.
30) G. Contini, op. cit., p.
173.
31) N. Mineo, voce "Cielo
d'Alcamo", cit., p. 442.
32) Cito da Aurelio Roncaglia,
"Le origini", in Emilio Cecchi e Natalino
Sapegno (a cura di), Storia della letteratura
italiana, vol. I, Milano, Garzanti, 1965,
pp. 1-269 (il testo di Rambaldo di Vaqueiras è alle
pp. 235-238).
33) Cfr. Umberto Eco, Trattato
di semiotica generale, Milano, Bompiani,
1975, pp. 347-352.
34) W. Theodor Elwert,
"Appunti sul Contrasto di Cielo d'Alcamo", Giornale
storico della letteratura italiana, CXXV,
1948, pp. 242-243, citaz. a p. 242.
35) Elwert rimanda alla Crestomazia
italiana di Ernesto Monaci ma ora si veda Sandro
Orlando (a cura di), Rime dei memoriali bolognesi
1279-1300, Torino, Einaudi, 1981, pp. 41-42.
L'espressione marita' e polzelle ricorre anche
al v. 18 di un'altra rima dei Memoriali: cfr. op.
cit., pp. 68-69.
36) W. T. Elwert, op. cit.,
p. 243.
37) Angelo Monteverdi, "Rosa
fresca aulentissima... Tragemi d'este
focora...", Studi medievali, XVI,
1943-1950, pp. 161-175; poi, con una
"postscritta", in Studi e saggi sulla
letteratura italiana dei primi secoli,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 101-123. Su Cielo
si veda, di questo stesso studioso, il saggio
"Giacomo da Lentino e Cielo d'Alcamo", Cultura
neolatina, XXVII, 1967, pp. 261-284; poi in Cento
e Duecento, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1971, pp.
277-305.
38) A. Monteverdi, Studi e saggi,
cit., p. 111.
39) G. Contini, op. cit., p.
177. Anche Alberto Del Monte, nella sua edizione del Contrasto
(che riprende quella di Pagliaro), rimanda per i
primi due versi al Cantico dei Cantici,
senza però null'altro aggiungere: non mi pare
pertanto di poterlo annoverare con sicurezza fra i
sostenitori di H3: cfr. A. Del Monte (a cura di),
"Il Duecento", in Il Duecento e il
Trecento (vol. I dell'Antologia della
letteratura italiana, diretta da Maurizio
Vitale), 2a ed., Rizzoli, Milano, 1968, pp. 3-438 (il
Contrasto è alle pp. 91-97).
40) Dario Fo, Mistero buffo, a
cura di Franca Rame, Torino, Einaudi, 1997, p. 9. La
prima stesura di Mistero buffo risale
all'autunno 1969 ma si è trattato da subito di uno
spettacolo aperto che è stato via via aggiornato. Il
tema iniziale del testo a stampa e della terza puntata
dell'edizione televisiva (oggi disponibile in
videocassetta) è costituito da una divertente e
polemica 'lezione' su Rosa fresca aulentissima. Certo
Fo, come spesso gli accade nel suo teatro
'medievistico', anche qui non è scientificamente
ineccepibile: ad esempio propende per il nome Ciullo
che da tempo si sa essere erroneo (ciò comunque gli
consente efficaci spuntí comici), oppure dà una
spiegazione storicamente scorretta della defensa di
Federico II (cfr. Giosuè Musca, "Il Medioevo di
Dario Fo ", Quaderni medievali, n. 4,
1977, pp. 164-178). Ma sul v. 2 del Contrasto, le
mordaci considerazioni di Fo - a parte la
verosimiglianza o meno del detto siciliano da lui
citato - coniugano l'esigenza di far ridere, il fine
didattico ed anche una molto probabile correttezza
interpretativa. L'impianto delle argomentazioni
polemiche, sempre in rapporto al v. 2, è comunque
più impeccabile nel testo a stampa che nel video: in
entrambi, ad ogni modo, H3 è enunciata a chiare
lettere. Del tutto campato in aria - dispiace
rilevarlo - è invece ciò che Fo ha dichiarato a
Luigi Allegri durante una nondimeno importante
intervista svoltasi nel 1989 e di recente ristampata
in occasione del Nobel: "la rosa del primo verso
non è un fiore ma il glande dell'uomo che spunta
sotto la corta veste da gabelliere" (Dario Fo, Dialogo
provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la
ragione, Roma-Bari, Laterza, 1990, 3a ed. 1997,
p. 137).
41) Ringrazio per le notizie
fornitemi (ottobre 1997) il prof. Giuseppe Corallino,
assessore alla pubblica istruzione e cultura del
Comune di Sciacca, e il prof. Giovanni Ruffino,
ordinario di Dialettologia e linguistica italiana
all'Università di Palermo.
42) Gianfranco Folena,
"Cultura e poesia dei Siciliani", in Emilio
Cecchi e Natalino Sapegno (a cura di), op. cit.,
pp. 225-289, citaz. a p. 272.
43) F. Jensen, op. cit.,
p. 238.
44) N. Mineo, "Il 'Contrasto'
di Cielo d'Alcamo tra ritualità e realismo", cit.,
p.8 e id., "Per una rilettura del 'Contrasto' di
Cielo d'Alcamo", cit., p. 23.
45) Marcello Zicàri, "Catullo
in Cielo d'Alcamo?", La rassegna della
letteratura italiana, n. 1, 1965, pp. 117-118.
46) Cfr. A. D'Ancona, op. cit.,
p. 413.
47) Luigi Pepe, "Il Contrasto
di Cielo d'Alcamo e la tradizione manoscritta del c.
62 di Catullo", in AA. VV., Romania. Scritti
offerti a Francesco Piccolo nel suo LXX compleanno,
Napoli, Armanni, 1962, pp. 369-384.
48) Enzo V. Marmorale,
"Appunti e varietà letterarie. 1, Cielo
d'Alcamo e Catullo", Giornale italiano di
filologia, XXVII, n. 1, 1964, pp. 66-67.
Anche Folena, sostenitore di H2, menziona tra le
fonti del v. 2, oltre al Cantico dei Cantici,
"riscontri classici, p. es. di Catullo" (op.
cit., p. 272).
49) M. Zicàri, op. cit.,
p. 118.
50) ibid.
51) ibid.
52) ibid.
53) Su questo esempio cfr. U. Eco, op.
cit., p. 348.
54) Emilio Pasquini, "La
poesia popolare e giullaresca", in Carlo
Muscetta (a cura di), La letteratura italiana.
Storia e testi, vol. I, 2, Roma-Bari,
Laterza, 1970, pp. 115-181.
55) op. cit., p.
120.
56) D. Fo, Mistero buffo,
cit., p. 9.
57) Delle sue frequenti
presentazioni in classe (suppongo d'una scuola media
superiore) del Contrasto, posto a raffronto
col Mistero buffo di Fo, ha fatto cenno
Marcello Tartaglia, diffondendosi però - ed assai
bene - solo sul nome e lo status sociale di Cielo e
sull'istituto della defensa, senza farci
sapere nulla di quanto dice alle sue scolaresche sui
primi due versi ed anche sul- l'interpretazione che
di essi dà Fo (cfr. " 'Rosa fresca
aulentissima'... e l'equivoco di Dario Fo", Cultura
e scuola, n. 129, gennaio-marzo 1994, pp. 37-45).
Certo non alle scuole ma senz'altro a un pubblico non
specialistico era dedicata l'antologia Lirica
italiana antica (2a ed., Firenze,
Bemporad-Seeber, 1908) della volenterosa e
moraleggiante Eugenia Levi che della prima strofa
annota solo abento indicando che vuol dire
"riposo" ma soprattutto si ferma alla
tredicesima strofa, come nel mio manuale del liceo:
ella però, nell'informare che "il Contrasto
continua per altre diciotto strofe" (op. cit.,
p. 349), si astiene dal dire come vada a finire
prefigurando così un probabile esito matrimoniale.
Ciò non sorprende visto che nel prefare - era il
dicembre 1894 - la sua Fiorita di canti
tradizionali del popolo italiano (Firenze,
Bemporad, 1895) scriveva di averne "bandito
tutti quei canti che, come non vorrei sul tavolino
mio, non possono rimanere su quello di alcuna
famiglia che si rispetti" (op. cit.,
2a ed., 1926, p.V).
58) G. Contini, op. cit.,
p. 258.
59) Cito da Carlo Salinari ( a cura
di), La poesia lirica del Duecento, Torino,
UTET, 1968, p. 309.
60) G. Contini, op. cit.,
p. 257.
61) C. Segre e C. Ossola, op.
cit., p. 93.
62) G. Duby, I peccati
delle donne nel Medioevo, tr. it., Roma-Bari,
Laterza, 1997.
63) Burcardo di Worms, Medicus, cit.
in G. Duby, op. cit., p. 15.
64) G. Duby, op. cit.,
p. 27.
65) op. cit., pp.
28-29.
66) Cfr. op. cit., p.
30.
67) Stefano di Fougères, Livre
des manières, cit. in G. Duby, op. cit.,
p. 9.
68) ibid.
69) G. Duby, op. cit.,
p. 10.
70) Quest'asserzione, insolita
nella poesia dell'epoca, è tuttavia convenzionale
per l'enfasi con cui si sottolinea la bellezza
dell'oggetto amato.
71) La definizione ricorre più
volte in Thomas Mann, naturalmente in Morte a
Venezia.
72) Cit. in G. Duby, op. cit.,
p. 86.
73) ibid.
74) Cit. in op. cit.,
pp. 86-87.
75) G. Duby, ibid.
76) op. cit., p.
140.
77) Non sorprende pertanto che,
nello Statuto sinodale della diocesi di Cambrai
(1300-1310), l'omosessualità femminile fosse
ritenuta un peccato "contro natura" come
quella maschile ma di gravità inferiore: cfr.
Jean-Louis Flandrin, Le sexe et l'occident,
Paris, Seuil, 1981, pp. 114-115 (tr. it. Il sesso
e l'occidente, Milano, Mondadori, 1983, p. 112).
Su questa tematica, ma in relazione a un periodo
anteriore a quello da me considerato, e cioè ai
primi secoli dell'era cristiana, cfr. lo specifico e
documentatissimo studio di Bernadette J. Brooten: Love
Between Women. Early Christian Responses to Female
Homoeroticism, Chicago-London, The University of
Chicago Press, 1996.
78) Cfr. Jean Renart, L'Escoufle.
Roman d'aventure, a cura di Franklin
Sweetser, Droz, Genève, 1974. Delle tre opere
attribuibili con quasi assoluta certezza a Renart -
due romanzi (il Roman de la rose ou de Guillaume
de Dole, 1228 ca., e appunto L'Escoufle
[Il nibbio]) e un racconto lungo (Le
lai de 1'ombre, 1217-1222, l'unico suo
testo in cui sia menzionato, al v. 953, il nome
dell'autore) - solo quest'ultimo è stato
integralmente tradotto in italiano: J. Renart, L'immagine
riflessa, a cura di Alberto Limentani,
Einaudi, Torino, 1970. Nel 1912, in una collana di
"testi romanzi per uso delle scuole",
diretta da Ernesto Monaci, era uscito un breve ma ben
fatto e non pudibondo riassunto con brani scelti del Roman
de la rose ou de Guillaume de Dole (a cura di
Vincenzo De Angelis, Roma, Loescher).
[Edizione elettronica realizzata
per gentile concessione di Edizioni Gazebo, Firenze. Uroboro
7, Edizioni Mediateca, Campi Bisenzio, 1999