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Giovanni R. Ricci

L'INTERPRETAZIONE RIMOSSA.
I primi due versi del "Contrasto" di Cielo d'Alcamo.
*

 

Rosa fresca aulentis[s]ima ch'apari inver' la state,
le donne ti disiano, pulzell'e maritate
:

come il lettore avrà facilmente riconosciuto, sono, questi, nell'edizione continiana,1 i versi iniziali del più famoso fra i testi giullareschi pervenutici, il Contrasto (spesso denominato col primo emistichio del suo primo verso) composto, sicuramente per essere recitato,2 dal colto poeta e giullare siciliano Cielo d'Alcamo in una data compresa fra il 1231 e il 1250. La lingua è fondamentalmente il siciliano del Duecento, "pur restando probabile una mediazione (scritta) continentale o più d'una"3 fra la Sicilia e la Toscana. Qui il mercante anonimo che sappiamo aver compilato, fra fine del '200 e inizi del '300, la maggior parte del Codice Vaticano 3793 vi trascrisse anche questo testo.4 Com'è noto, larga parte del fascino del Contrasto deriva dal suo mischiare modi aulici e raffinati con espressioni anche marcatamente popolari. I versi sopra riportati possono così tradursi: "Rosa fresca profumatissima, che sbocci verso l'estate, le donne ti desiderano, fanciulle e maritate". A parlare è il protagonista maschile, probabilmente un giullare, come si può dedurre dal termine canzoneri del v. 39, e la ragazza che lo ascolta, in attesa di replicare, si è ipotizzato, da parte di alcuni studiosi, che sia una contadina, interpretando in tal senso il villana del v. 75 (ma v. oltre). Dopo quest'avvio prossimo agli accenti della lirica cortese, già al terzo verso il registro linguistico muta radicalmente: tràgemi d'este focora, se t'este a bolontate, ovvero "toglimi da questi fuochi d'amore, se ciò è in tuo volere". È il verso citato da Dante nel De vulgari eloquentia (I, XII, 6) come esempio del volgare parlato dai siciliani di media condizione. Anche il ceto sociale dei due personaggi è da ascrivere, secondo parte della critica più recente, non a un contesto popolare bensì 'piccolo-borghese' (il che escluderebbe l'interpretazione sopra citata del v. 75 ove l'espressione villana significa verosimilmente "donna scortese"), con forse una qualche superiorità di status del protagonista maschile: essi comunque parlano la stessa lingua ed appartengono sostanzialmente ad un medesimo ambito socioculturale. Ed anche il gioco che Cielo immagina pongano in atto, entrambi lo conoscono bene: come scriveva De Sanctis, si tratta infatti d'una "tenzone o dialogo" in cui troviamo "Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e in ultimo concede".5 I due protagonisti sanno fin da principio quale sarà l'esito conclusivo del cerimoniale di corteggiamento di cui Madonna è l'oggetto ma il contesto culturale prevede appunto un'opposizione (reale o, come qui, simulata) della donna a quella che fin verso la fine del testo parrebbe essere, ma non è, una strategia di seduzione volta a disarticolare e vincere le sue resistenze. Che le cose non stiano così è potentemente dimostrato dal penultimo dei 160 versi in cui Madonna, ormai 'convinta', dice ad Amante: a lo letto ne gimo a la bon'ora. I due personaggi (che dovevano essere interpretati da un singolo giullare) hanno inoltre per tutto il testo messo in atto un'altra simulazione, relativa questa non alla macrocultura della società di appartenenza bensì alla loro collocazione sociale, fingendo entrambi uno status ben più elevato della loro umile condizione di gente del popolo o di 'piccolo-borghesi': e il doppio registro linguistico, aulico e popolare, ha la funzione di sottolineare parodisticamente questo dato. Alla fine, però, a uscire demistificata è "proprio l'ideologia cortese dell'amore, discoprendosi, al di là della occasionale velleitaria sublimazione tematica e formale, la naturalità carnale dell'eros".6

Ma torniamo ai primi due versi: il secondo di essi è stato, in qualche misura comprensibilmente, oggetto di un lungo dibattito che fino a qualche tempo fa pareva esser giunto ufficialmente a conclusione, cioè a un punto fermo interpretativo. Stavano davvero così le cose? Sul secondo verso non vi era più nulla da dire salvo ripetere la verità che era stata conseguita? Personalmente pensavo proprio di no. Ho dunque accolto con sincera soddisfazione, pur avendo ultimata la prima stesura di questo mio saggio, l'uscita, a fine '97, del volume iniziale dell'Antologia della poesia italiana diretta da Cesare Segre e Carlo Ossola7 ove una valente studiosa, Luigina Morini, (ri)proponeva sul v. 2, sebbene con scarsa risolutezza, una posizione interpretativa non nuova ma da lungo tempo negletta e da me condivisa. Proviamo ora, per amor di ragionamento, a porci nell'ottica di un lettore che viva in un immaginario mondo possibile identico al nostro salvo il fatto che sul v. 2 del Contrasto nessuno abbia mai scritto nulla, neppure nelle note al testo: ipotesi meno assurda di quanto possa apparire dato che per esempio non dicono niente del v. 2 né l'edizione dell'Ugolini8 né quella del Panvini.9 Poniamo che questo lettore abbia qualche conoscenza della letteratura medievale e che abbia letto anche il Contrasto in una edizione criticamente e filologicamente ben curata: come intenderà dunque il v. 2? A mio avviso è da ritenere che, sia pure con un certo stupore (e se è moralista con un certo imbarazzo), egli concluda che oggetto del desiderio di pulzelle e maritate siano, secondo l'esplicito complimento dell'uomo, tanto la donna quanto la rosa che ne è metafora. Naturalmente il lettore che ho immaginato non è un accademico e non è detto dunque che la sua interpretazione sia senz'altro corretta. Tuttavia, in quel mondo e nel nostro, tale interpretazione si configurerebbe (si configura) come possibile, e dunque come meritevole di discussione e, se del caso, di motivata confutazione. Ebbene, a quanto mi consta - salvo D'Ancona come soluzione estrema, Contini un po' fra le righe (e molti l'hanno travisato), Fo in chiave comica e appunto recentemente la Morini - nessun commentatore ha mai preso in esame detta ipotesi, sia pure per respingerla: essa, insomma, è stata percepita, dalla quasi totalità degli studiosi, come talmente immorale e perturbante da divenire indicibile, d'una indicibilità che da etica si è presto fatta ontologica. L'ipotesi in questione, cioè, è finita per apparire - prima dell'uscita del citato volume dell'Antologia della poesia italiana ma verosimilmente tutt'oggi agli occhi della maggioranza degli storici della nostra letteratura - non nominabile non solo perché indecente ma più radicalmente perché inconcepibile, non pensabile, al di fuori di quanto può esservi sul piano sia del reale che dell'immaginario. Quando però qualcosa è così fortemente rimosso, il dubbio che abbia in sé qualche elemento di verità diviene assai forte. Vediamo dunque cosa è stato detto e cosa può dirsi di questo - inquietante per molti - secondo verso.

Le più diffuse interpretazioni del v. 2 del Contrasto sono due: la prima, ormai superata, ha inteso leggere in chiave maschile il termine donne e anche, di conseguenza, l'espressione pulzell'e maritate; la seconda ha ritenuto che i primi due versi, o parte di essi, fossero riferiti esclusivamente alla rosa metafora della donna e non anche a quest'ultima . Per brevità definirò di qui in poi con la sigla H1 la prima interpretazione, con la sigla H2 la seconda e con la sigla H3 quella che possiamo definire l'interpretazione rimossa, ultimamente (ri)portata alla luce, come ho detto, dalla Morini (H è ovviamente abbreviazione di hypothesis).

H1 nacque presto, rispetto naturalmente alla storia della critica del testo e non delle sue rappresentazioni giullaresche nelle piazze d'Italia. Nel '500, infatti, il letterato iesino Angelo Colocci, che pure aveva redatto il Codice Vaticano 4823 (che è una copia del Vaticano 3793), in certi suoi appunti - compresi nel Vaticano 4817 - citò il v. 2 del Contrasto sostituendo alle parole le donne l'espressione gli uomini: una distrazione che appare come un lapsus (nel senso tecnico del termine) vero e proprio. Così Leone Allacci, nella prima edizione del Contrasto,10 dette due diverse lezioni della prima strofa: in una leggiamo al v. 2 gli uomini ti disiano, polzele e maritate,11 nell'altra lo stesso v. 2 più congruamente suona le donne te disiano, pulcelle maritate.12 Evidentemente Allacci aveva tratto la lezione parzialmente maschilizzata dagli appunti del Colocci. Ma, come già osservava Monaci, le note colocciane avevano lo scopo di "servire agli studi che l'autore stava facendo sulla ritmica italiana. Onde a lui bastava di notare lo schema dei versi, citava probabilmente a memoria e non doveva preoccuparsi troppo della esattezza grafica".13 Basti dire che, nello stesso Vaticano 4817, in un appunto del Colocci il primo verso del Contrasto è così citato: Rosa fresca aulentissima che fa la state nascere. Due secoli dopo l'edizione di Allacci, Giusto Grion si rifece verosimilmente anch'egli agli appunti del Colocci, in quanto al v. 2 dette dapprima l'omini14 e in seguito li homini,15 uniformando in entrambi i casi al genere maschile anche gli aggettivi e dunque dando pulzelli e maritati. Lo stesso D'Ancona - che comunque nella sua edizione propone al v. 2 Le donne ti disiano, pulzelle [e] maritate - scrive che tale verso, prima della toscanizzazione conclusiva, "doveva parlare di uomini e non di donne, e poiché non poteva più dirsi: Li omini ti disiano pulzelli e maritati, né sarebbe stata ammissibile la forma: uomini maritate, si cangiò addirittura il verso dicendo: le donne ti disiano pulzelle e maritate".16 Ma D'Ancona, con quella correttezza critica e con quella profonda cultura che lo contraddistinguevano, ammette che "se la lezione homini, che par preferibile [ma egli, come ho detto, non l'adotta], non dovesse essere accolta, meglio sarebbe ricordare quel che dice Bonagiunta Urbiciani alla sua donna".17 Dell'Orbicciani, però, parleremo più avanti, in quanto la sua ballata cui fa riferimento D'Ancona costituisce, per così dire, una corposa prova, o almeno un rilevantissimo indizio, a favore di H3.

Si è visto come H1 nella versione fin qui esaminata sia verosimilmente nata da un significativo lapsus mnemonico del Colocci. Ma H1 è esistita anche in una variante introdotta ad opera di Cesareo il quale ritenne che il fondo della lingua del Contrasto fosse "il dialetto d'una qualche provincia del Napoletano".18 I dialetti napoletani, osservava il critico, preferiscono spesso la e finale, talora anche per il maschile plurale, mentre quelli siciliani tendono alla i conclusiva per i plurali sia maschili che femminili: così, dato il sostantivo donno-donna, il siciliano avrà al plurale donni sia per il maschile che per il femminile, mentre il napoletano avrà li donne per entrambi i generi. Ora, seguendo il ragionamento di Cesareo, le donne del v. 2 del Contrasto, potrebbero indicare "uomini" oppure "donne", ma per lui l'alternativa non si pone affatto: "le donne sta sicuramente per li dompni, i signori. Il testo originario aveva li dompne; il menante toscano per ridurre la forma a rigor di grammatica, avrà tradotto com'è nel testo odierno".19 E anche pulzelle e maritate per Cesareo sono ovviamente da intendersi come maschili plurali: la dialettologia al servizio della morale. In realtà diciamo subito che la tesi d'una napoletanità della lingua del Contrasto è da tempo definitivamente superata: infatti, che il fondo linguistico del testo di Cielo sia siciliano - convinzione, come si è visto, già dantesca - è ormai riconoscimento pressoché comune. È anzi probabile, come ha mostrato Pagliaro, una sua origine delimitata all'area linguistica messinese.20 L'impostazione di Cesareo è in seguito tornata nell'Antologia dei primi secoli21 di Lazzeri, uscita quando H2 era già stata formulata. Lazzeri giudica quindi napoletana la lingua del Contrasto e nel farlo scopiazza alquanto la sua esplicita fonte (intendo il Cesareo) ripetendo - non tra virgolette - espressioni (ad esempio: "riducendo la forma a rigor di grammatica") che già abbiamo viste utilizzate dall'inventore della seconda ed essa stessa erronea versione di Hl. Del fatto che H1 sia falsa - dato da tempo acquisito dalla critica - daremo più avanti altre dimostrazioni che varranno anche per un'ulteriore versione di H1: quella proposta da Guerrini Crocetti nel suo testo antologico La Magna Curia.22 Questo studioso rifiuta tanto H2 quanto l'ipotesi napoletana di Cesareo (dei cui studi tiene tuttavia conto)23, concludendo che al v. 2 "le donne non è che una lieve deformazione di li dompni, li dunni, (...) che nel siciliano significa signori".24

Ma passiamo ora a considerare H2, l'interpretazione che sino a fine '97 passava per vera e definitiva (e che certo ha tutt'oggi legioni di sostenitori). H1 appariva a molti decisamente sbagliata o non convincente, per cui ci si possono immaginare i sospiri di sollievo, non ancora conclusisi, che furono suscitati dalla raffinate - ma non ineccepibili - considerazioni di D'Ovidio che a proposito del v. 2 così scriveva: "Non serve desiderar homini (distrazione del Colocci) o giustificar donne, ché il discorso non è ancor rivolto direttamente alla bella: non si saprebbe intendere perché le si dicesse che appare in primavera e poco s'intenderebbe perché le si desse dell'odorosa. Si tratta della vera rosa di maggio, da tutte le donne desiderata; e la bella è semplicemente paragonata a una tal rosa. Solo è notevole la rapida fusione fra i due termini del paragone sicché subito nel 3 la rosa è già divenuta la donna in carne e ossa. A rigore dovrebbe dire: tu che sei pari alla rosa schiudente in maggio e da ogni donna desiderata, traggimi ecc. Invece comincia quasi obliandosi poeticamente e galantemente nell'accenno alla rosa, e poi con irresistibile impeto vien subito al concreto".25 H2 era così nata, già armata di tutte le argomentazioni che i suoi numerosi seguaci non faranno sostanzialmente che ripetere omaggiandone l'autore, finché in tempi recenti essa è stata sottoposta a qualche ritocco di cui diremo. Il successo di H2 - che, sia ben chiaro, potrebbe anche esser vera (ma personalmente mi pare molto improbabile) - credo si spieghi facilmente: essa è apparsa conciliare sapienza critico-filologica, 'buon senso' e morale. Parlo di morale, ma a ben vedere è in gioco piuttosto un certo moralismo. Vediamo comunque di esaminare subito le prove che D'Ovidio espone, partendo dall'iniziale 'obliarsi' che egli attribuisce al protagonista maschile del Contrasto. Anche per risarcirlo delle critiche che gli ho prima fatto, riprenderò qui alcune piuttosto convincenti considerazioni di Lazzeri che, a proposito della teoria di D'Ovidio, ebbe a osservare come essa pecchi "di eccessiva sottigliezza" e "sia in netto contrasto con la psicologia" che il testo rivela: l'uomo, infatti, scrive Lazzeri, "accatta frasi ed atteggiamenti della lirica cortese per mostrarsi uomo di mondo, ma tutto il suo spasimare è uno spasimare sensuale, tanto che già ne' primi due versi del contrasto ei si rivela tutto: lusinga subito la donna chiamandola rosa fresca aulentissima (...), l'odorosissima rosa di maggio, con un bel tornito complimento; ma immediatamente dopo passa già al concreto cui tende, con il secondo verso, pregno di sensualità" e tale da lasciar "intravvedere il 'don Giovanni da taverna' definito dal De Sanctis".26 Peccato che Lazzeri, come si è visto in precedenza, integri il suo argomentare con la riproposizione di Hl; per lui il secondo verso significa: "i signori, gli uomini ti desiderano, giovani e sposati".27 Passiamo all'incongruità che avrebbe il testo, secondo D'Ovidio, se attribuisse come rivolte (anche) alla donna le caratteristiche d'esser profumata e di apparire in primavera, proprietà che a suo avviso devono ritenersi riferite esclusivamente alla rosa. Eppure espressioni simili sono frequenti nella lirica medievale, come in genere mostrano di ben sapere i sostenitori di H2. Ed anche la proprietà di apparire verso l'estate, che in sé non parrebbe in effetti applicabile alla donna, lo diviene raffrontandola a locuzioni semanticamente analoghe. Limitiamoci a considerare esempi da testi della scuola siciliana: Federico II in Poi ch'a voi piace, amore chiama la donna amata alente più che rosa (v. 62), Giacomino Pugliese nel discordo Donna, per vostro amore usa l'espressione aulente rosa col fresco colore (v. 41) e nella canzonetta La dolce cera piagente menziona 1'aulente bocca (v. 9) dell'innamorata, il Notaro (Giacomo da Lentini) definisce la sua bella aulente frore (v. 5) nel sonetto Sì alta amanza à presa lo me' core e aulente cosa (v. 23), ovvero "sweet-smelling creature" per dirla con la traduzione inglese di Jensen,28 nel discordo Dal core mi vene; Rosa aulente è l'incipit d'un discordo anonimo ove il concetto torna al v. 26 (aulente fior rosato) mentre nell'insolito plot della canzonetta L'amor fa una donna amare di Compagnetto da Prato (un giullare d'origine toscana di cui nulla si sa ma che è da ritenersi prossimo alla scuola federiciana) è sorprendentemente la donna a chiamare l'uomo che, senza fatica alcuna, ella sta conquistando, drudo mio, aulente più c'ambra (v. 42): come si vede, dunque, aulente non è impiegato solo in chiave metaforica ma anche come attributo dell'oggetto amato o d'una sua parte (è il caso della canzonetta di Giacomino); nel sonetto Oi Siri Deo, con forte fu lo punto di Filippo da Messina leggiamo oi rosa fresca che di magio apari (v. 13), significato analogo al rosa novella (v. 35) che troviamo in Isplendïente del già citato Giacomino Pugliese mentre, nell'anonimo discordo De la primavera, l'amata del poeta è fra l'altro detta rosa di magio - colorita e fresca (v. 15).29 Uscendo dall'ambito siciliano, mi limiterò a citare il Contrasto bilingue tra giullare e donna genovese del trovatore provenzale Rambaldo (Raimbaut) di Vaqueiras (1155 ca. - dopo il 1205), un testo che si differenzia da quello di Cielo, oltre che sul piano linguistico, anche per altri aspetti fra cui la sua "tonalità (...) nell'insieme illustre"30 e il suo concludersi con il permanere della donna (che qui è sposata) in una ferma posizione di ripulsa. Tuttavia esso costituisce "il modello più presente a Cielo".31 È dunque interessante ai nostri fini ricordarne i versi 64-67: (...) vei e conosc e sai, / quant vostra beutat remire / fresca cum rosa en mai, / qu'el mont plus bella non sai32 (= vedo, conosco e so, / quando rimiro la vostra beltà / fresca come rosa di maggio, / che nel mondo più bella non so). Ora, posto che, in termini semiotici, si ha metafora quando due sememi (o due diversi sensi d'uno stesso semema) hanno almeno un sema in comune,33 nel v. 1 del Contrasto la rosa fresca aulentissima che nasce inver' la state risulta essere già metafora della donna con cui condivide il sema "bellezza" espresso dalle qualità dell'essere fresca, profumata, primaverile (giovane) oltre che da quelle proprietà di piacevolezza estetica che già il termine rosa di per sé implica; a questo punto, anche il v. 2 deve riferirsi sia alla donna che alla rosa, qui accomunate da un secondo sema che possiamo definire "desiderabilità da parte delle donne" e che certo è conseguenziale al primo. Il concetto molto probabilmente espresso dall'uomo nei primi due versi è dunque il seguente: "sei bella come una rosa e per questa tua bellezza, al pari della rosa, sei desiderata (anche) dalle donne" (formulazione, questa, che sintetizza l'interpretazione da me definita H3). Del resto D'Ovidio usa le parole "quasi obliandosi" a proposito del meccanismo psicologico che egli pensa sia in atto nel protagonista maschile all'inizio del Contrasto. Quel "quasi" è molto significativo in quanto ammette che una parte della psiche del personaggio dovesse sapere da subito che stava parlando alla donna dicendole cose che la riguardavano personalmente. E ciò che sapeva il personaggio doveva esser presente ovviamente anche all'autore, tanto più per un testo come questo destinato alla recitazione.

H2 ha avuto, come ho ricordato più volte, un grande successo ma i suoi adepti, di fatto pressoché tutti semplici epigoni di D'Ovidio, sono da distinguere a seconda se si siano espressi prima o dopo l'uscita dei Poeti del Duecento (1960) di Contini. Intendo dire che chi abbia letto cosa scrive Contini del Contrasto non dovrebbe con animo leggero sposare con vincolo indissolubile H2 come invece la quasi totalità degli studiosi che si sono occupati di questo testo hanno fatto e fanno. È in certa misura giustificabile perciò Elwert quando - siamo nell'immediato secondo dopoguerra - replica alle obiezioni di Lazzeri ad H2 non ritenendo "che la psicologia ci obblighi ad abbandonare l'interpretazione tanto sensata del D'Ovidio. L'amante rimane uno spaccone anche a farlo diventar più concreto solo al v. 3".34 Più interessante è comunque un ulteriore colpo che Elwert infligge ad H1 ricordando una ballata compresa in un memoriale bolognese35 e senz'altro posteriore al Contrasto. In essa ai vv. 3-6 si legge: Vidila cum alegranza / là sovrana de le belle / che de zoi menava danza / de maritate e polcelle; e al v. 11 troviamo: danzando la fresca rosa. Si tratta, osserva giustamente Elwert, d'un evidente riflesso del testo di Cielo e una prova aggiuntiva del fatto che al v. 2 pulzell' e maritate (e dunque anche donne) hanno un significato "certamente femminile".36 Nella fase pre-continiana di H2 si colloca anche Monteverdi che peraltro, in suoi lavori successivi all'uscita dell'antologia di Contini, non è tornato sulla questione dei primi due versi del Contrasto. Ad ogni modo, in un suo saggio sul numero di Studi medievali uscito dopo la fine della seconda guerra mondiale, scritto poi ripreso in volume,37 questo studioso si richiamava all'impostazione di D'Ovidio lodandone "il buon senso e il buon gusto".38

Ma veniamo ai Poeti del Duecento di Contini. Ebbene, nell'apparato di note alla sua edizione del Contrasto, questo finissimo critico non fa riferimento a H2 ma implicitamente la contesta nel respingere a chiare lettere Hl. Ecco infatti cosa scrive Contini a proposito del v. 2: "le donne: naturalmente femminile. Chi ha proposto altra interpretazione (Cesareo) non ha tenuto conto dell'eco scritturale che qui ricorre: Cant. Cant., I, 2, 'adulescentulae dilexerunt te' ".39 Peraltro Contini stesso sorvola sul fatto che nel testo biblico a parlare è la sposa che, sospirando il suo sposo, osserva fra l'altro come le fanciulle lo abbiano caro (in virtù delle qualità che gli sono proprie). Nel testo di Cielo d'Alcamo, invece, l'oggetto del desiderio è, ovviamente, la protagonista femminile del dialogo, per cui al v. 2 parrebbe essere implicitamente contenuta una 'teoria' della potenziale bisessualità femminile che troverebbe anche un riscontro in un complimento diffuso - secondo il Mistero buffo 40 di Fo - nella zona di Sciacca ("Bedda tu si fighiuzza che anco altri fighiuzze a tia vurria 'mbrazzari"). Su quest'ultimo punto, tuttavia, i riscontri da me effettuati sembrano escludere che almeno a Sciacca sia stata mai in uso una frase del genere.41 Il riferimento biblico identificato da Contini mi sembra comunque un solido indizio in favore di H3: Cielo, nello scrivere il v. 2 ispirandosi al Cantico dei Cantici, non poteva ignorare i significati che esso avrebbe assunto, in primo luogo nelle piazze ove sarebbe stato recitato. Ma sugli indizi a favore di H3 tornerò più avanti.

Quel che ora mi sembra interessante osservare è come gli studiosi che si sono occupati dei primi due versi del Contrasto dopo la pubblicazione dell'antologia di Contini abbiano spesso inglobato in H2 il richiamo scritturale, attivando l'accoppiata Cantico dei Cantici (Contini)-H2 (D'Ovidio). Così Folena riconosce che l'avvio del testo di Cielo "riposa sull'autorità scritturale del Cantico dei Cantici I, 2, con la sua simbologia erotica" ma, ricordati l'"imbarazzo" in cui il brano in questione ha messo gli studiosi e le erronee interpretazioni in chiave maschile, conclude accettando la "fine e giusta interpretazione" 42 di D'Ovidio. Allo stesso modo procede Frede Jensen nella sua antologia The Poetry of the Sicilian School, accostando la citazione continiana dalla Bibbia e quell'interpretazione di D'Ovidio che "appears to have won general acceptance".43 Il che è stato a lungo vero, sebbene abbiano forse qualche significato, le già menzionate edizioni post-continiane del Contrasto che hanno ritenuto di non dover annotare i primi due versi, evidentemente ritenendoli di chiara comprensione e dunque, probabilmente, non aderendo ad H2 (cosa che ancor più può pensarsi dell'edizione curata da Del Monte ove troviamo solo un sintetico rimando al Cantico dei Cantici): H2, infatti, non emerge affatto ad una normale lettura di tali versi.

C'è comunque una versione recente di H2, che ha almeno il merito di non rifarsi pedissequamente a D'Ovidio e che riformula in modo più preciso - il che non vuol dire corretto - il rapporto metaforico fra rosa e donna nei primi due versi del testo di Cielo. Ne è autore Nicola Mineo, che ha anche redatto la voce relativa a Cielo nel Dizionario biografico degli italiani e che in un suo recente studio scrive: "L'avvio alto del primo emistichio, tutto allusivo alla maniera colta nella tradizionalità dell'invenzione metaforica - 'Rosa fresca aulentissima' - non riesce a sostenersi neanche per la durata di un verso, poiché già nel secondo emistichio la metafora si dissalda nella sua unità di metaforizzante e metaforizzato, e rimane solo soggetto il metaforizzante, la rosa. È il fiore ovviamente che sboccia in prossimità dell'estate e che è desiderato dalle donne di ogni qualità. Non hanno ragione quindi gli interrogativi relativi all'interpretazione della lettera. Dal terzo verso invece si accampa nettamente il metaforizzato, la donna desiderata".44 La posizione di Mineo è insieme perentoria e sottile: mi sembra appaia chiaro, a questo punto della mia esposizione, che H1 e H2 sono anche (o dovrei dire "soprattutto"?) tentativi di inibire H3, l'interpretazione da quasi tutti innominata e rimossa; ma la rimozione cui alludo è di natura testuale, riguarda la letteratura critica e non le menti di critici e studiosi che certo - salvo eccezioni - si impegnano consapevolmente ad impedire che H3, sia pure per rifiutarla a chiare lettere, emerga; ebbene, per Mineo, ciò che sui primi due versi del Contrasto doveva essere detto lo è stato e perciò nulla vi è più da aggiungere, se non, quando necessario, la ripetizione di H2 nella più aggiornata versione; quest'ultima è comunque sottile perché, superando la tesi dell'iniziale 'quasi-smemoramento' postulata da D'Ovidio, riformula 'scientificamente' un ragionamento già espresso da Zicàri45 e quindi giudica: l) rivolto anche alla donna il primo emistichio del primo verso (difficile era infatti sostenere che aulentissima riguardasse solo la rosa come pensava D'Ovidio), 2) riferita unicamente alla rosa la molto botanica proprietà di nascere in maggio, sufficiente a salvaguardare da H3 l'interpretazione del temutissimo secondo verso. Anche qui, tuttavia, uno 'smemoramento' non manca: l'uomo inizia a proferire le lodi della donna desiderata ma quasi subito la sua mente prende a vagare altrove, per itinerari di orti e di feste campestri, tornando poi bruscamente all'oggetto specifico cui la sua libido è rivolta: che soffra forse di personalità multipla alternando la mente d'un mandrillesco giullare a quella d'un operoso floricoltore? Inoltre, fuor dello scherzo, ho già detto - avvalendomi anche di esempi - come la rosa apparsa in maggio evochi giovinezza e bellezza e come essa verosimilmente concorra a quel meccanismo metaforico che associa la rosa alla donna attraverso sia il sema "bellezza" sia, conseguenzialmente, il sema "desiderabilità". Ma su H3 torneremo più avanti in quanto, per completezza, sono ancora da ricordare una variante secondaria di H2 e una interpretazione 'originale' che la decenza m'impedisce di definire H4.

Già nella seconda metà dello scorso secolo, ad opera di D'Ancona,46 era stato ipotizzato un collegamento fra il v. 2 del Contrasto e il v. 42 di un epitalamio catulliano (è il carme 62): multi i1lum pueri, multae optavere puellae ("molti fanciulli lo desiderarono, e molte fanciulle"). L'oggetto è qui un fiore che, finché rimane intatto e radicato al suolo, è appunto desiderato da fanciulli e fanciulle ma, una volta che esso sia stato divelto e sia appassito, il loro desiderio viene meno; allo stesso modo una fanciulla, finché resta vergine, è cara ai suoi ma, quando abbia perso il proprio castum florem, più non è cara né ai fanciulli né alle fanciulle: questi concetti sono cantati ai vv. 39-47 dal coro di fanciulle e contestati subito dopo dal coro di giovani che naturalmente hanno l'ultima parola riguardo alla necessità che le ragazze si sposino. A questo passo di Catullo si sono ispirati Ovidio nelle Metamorfosi (III, vv. 353-355) a proposito della bellezza di Giacinto e l'Ariosto nella celebre quarantaduesima strofa del primo canto dell'Orlando furioso i cui due ultimi versi suonano: gioveni vaghi e donne inamorate / amano averne e seni e tempie ornate. L'idea che Cielo abbia guardato al testo di Catullo torna in altri studiosi come Pepe47 e Marmorale48: tale convinzione, nell'istituire una connessione tra il flos catulliano e la rosa del Contrasto, asserisce (Pepe) o sembra sottintendere (Marmorale) che il v. 2 del testo di Cielo riguardi solo il fiore, sebbene in Catullo esso sia anche un simbolo sessuale (il fiore appassito e non più desiderato è simile alla fanciulla non più amata dopo aver perso la propria verginità). Zicàri, comunque, ricorda che non vi è alcuna notizia "d'una conoscenza di Catullo al tempo di Cielo nell'Italia meridionale o in Sicilia" e afferma, giustamente, di non vedere "perché Cielo doveva rammentare proprio le puellae e non i pueri, del verso 42, e parlare di donne, anziché d'uomini".49 Così egli dà la propria spiegazione del v. 2 volta a mostrare che esso "non è affatto illogico"50 : le donne, a suo avviso, desiderano solo la rosa e al fine di adornarsene, un'interpretazione che mi pare tuttavia poco congruente con l'eco dal Cantico dei Cantici che Zicàri, non a caso, non menziona. Egli aggiunge, precorrendo la posizione di Mineo, che è "abbastanza comune (...) l'identificazione al posto della comparazione, quel rivolgersi alla donna nel fiore, e lodare di questo qualità che non possono essere di quella, come non tanto 'aulentissima' quanto 'c'appari inver la state' "51 : ma ho già detto che il secondo emistichio del primo verso, sebbene in sé non sembri riferibile anche a un soggetto umano, lo diviene se si tenga conto di espressioni analoghe come il rosa novella di Giacomino Pugliese e se si consideri l'intero primo verso come un'espressione metaforica della bellezza della donna. Sintomatica mi pare peraltro un'altra frase del saggio di Zicàri: "La donna è una rosa di maggio, bella e profumata tanto, che tutte vorrebbero adornarsene".52 Zicàri ha ammesso che "profumata" si riferisce anche alla donna, lo stesso vale ovviamente per l'aggettivo "bella" (inoltre, aggiungo io, la qualificazione "di maggio" incrementa il concetto di bellezza proprio sia della rosa che della donna): dunque di che cosa tutte vorrebbero adornarsi? Della rosa o, come la frase di Zicàri potrebbe far supporre, della donna? Anche il linguaggio si ribella ai tentativi di scindere - nei primi due versi del Contrasto - ciò che è detto dell'una da ciò che è detto dell'altra. Del resto, è ovvio che le donne desiderano la rosa per motivi e scopi diversi da quelli per cui, al tempo stesso, desiderano la donna: ma questo non fa venir meno il meccanismo metaforico, così come, nella metafora duecentesca domini canes ad indicare l'ordine dei domenicani, di alcun rilievo era il fatto che la fedeltà dei cani fosse verso il loro padrone e quella dei frati verso Dio né che i primi difendessero appunto il padrone ed i secondi i princìpi della religione cristiana.53

La più curiosa interpretazione del v. 2 del Contrasto - non catalogabile in nessuna delle tre che ho identificato - è però quella che troviamo in un saggio di Pasquini compreso nella Letteratura Italiana diretta da Muscetta.54 Per Pasquini, che pure riporta la lezione continiana del testo di Cielo e cita al v. 2 il Cantico dei Cantici, l'espressione ti disiano significa "aspirano alla tua condizione (...) ammirandoti quasi con invidia".55 Ciò sarebbe provato dal v. 44 ove l'uomo chiama la donna rosa invidïata. Dunque per questo studioso desiderare qualcosa significa voler essere quel qualcosa: è a interpretazioni come quella di Pasquini che certo pensava Fo quando, in Mistero buffo, ipotizzava un bambino che, volendo una mela, diceva alla mamma: "Mamma, desidererei una mela... no, non desidererei nel senso di volerla mangiare, ma vorrei apparire come la mela, rotonda e rossa da mordere".56

A parte dunque la museale H1 e l'autopasquinata involontaria di cui sopra, l'interpretazione residua era - fino a poco tempo fa - apparentemente una e una sola: H2. In realtà una buona metà (e forse oltre) delle ragioni di essere di H2 consistono nella volontà di occultare H3. Poniamo, infatti, che H2 sia vera riguardo al primo verso del Contrasto e che quindi il secondo emistichio parli solo della rosa: da che cosa i sostenitori di H2 deducono che sicuramente anche il v. 2 si riferisce soltanto al fiore? Non lo dicono, perché farlo significherebbe prendere in esame H3, l'interpretazione rimossa e perniciosissima. Eppure correttezza scientifica vorrebbe che s'interrogassero sulla probabilità che H3 sia (o non sia) congruente con l'epoca e il contesto culturale in cui il testo di Cielo è stato prodotto. La rimozione in atto però genera sintomi di cui ho dato già qualche esempio nelle pagine precedenti: il "buon senso" e il "buon gusto" citati da Monteverdi (a proposito di H2), l' "imbarazzo" (generato nei critici dai primi due versi) che evoca Folena prima di rifugiarsi anch'egli nel porto salvifico di H2, la stessa burbanzosità ("non hanno ragione gli interrogativi relativi all'interpretazione della lettera") di Mineo. Tutti segni dell'esistenza di qualcos'altro: qualcosa di insensato, di disgustoso, di perturbante, di innominabile. H2, anche se fosse vera, rimarrebbe sempre - salvo una sua improbabile evoluzione - un meccanismo interpretativo nevrotico.

Naturalmente c'è una considerazione aggiuntiva da fare sul successo di H2: il Contrasto, per il suo porsi fra i primi esempi del nostro volgare letterario, è in genere presente, almeno in parte, nelle antologie scolastiche ed H2 ha in esse egregiamente sostituito H1 (poco importa se H2 risponda o meno a verità). Per curiosità sono andato a recuperare, dietro pile di libri, l'Antologia della letteratura italiana che avevo al liceo, quella in più volumi a cura di Angelo Gianni, Mario Balestreri e Angelo Pasquali (vol. I, 3a ed., D'Anna, Messina-Firenze, 1968), senz'altro un'ottima opera, di livello quasi universitario: di Rosa fresca aulentissima (pp.127-133) ci sono solo 14 delle 32 strofe ma l'ultima nota informa che "incalzata sempre più da presso Madonna si arrenderà a discrezione" (p.133). Certo però avremmo preferito trovar stampato, se non altro per veder arrossire le più timide fra le nostre compagne, quel vigoroso e gaudente a lo letto ne gimo a la bon'ora che Madonna pronuncia nel finale. Riguardo, comunque, ai primi due versi trovo in nota, senza sorpresa, H2 ma ciò che mi ha stupito è il mio aver scritto, a lapis e fra parentesi vicino a le donne (v. 2), l'espressione "i donni": spero si trattasse, come probabilmente attesta la parentesi, d'un richiamo storico del professore ad Hl; molto mi dispiacerebbe se, trattandosi d'un docente validissimo divenuto oggi uno dei maggiori studiosi della nostra letteratura, si fosse tuttavia all'epoca attardato nelle anticaglie di H1. Mentre lo giustifico se, pur essendo quei tempi prossimi al mitico '68 (che era passato da poco), non ha pensato o non se l'è sentita di prospettare l'eventualità di H3 (l'avesse fatto la mia copia dell'antologia ne avrebbe serbato traccia e inoltre, verosimilmente, me ne ricorderei).57

Veniamo dunque ad H3, che personalmente ritengo l'interpretazione molto più probabile, anche se lascio qualche minima possibilità residua ad H2 nella sua attuale versione. Un primo indizio a favore di H3 è, come ho detto, il richiamo del v. 2 a un passo connotato eroticamente del Cantico dei Cantici. Tuttavia la verosimiglianza storica di H3 va meglio provata e a questo scopo fondamentale è quella duecentesca ballata del notaio e poeta Bonagiunta Orbicciani cui D'Ancona rimandava chi non avesse accettato H1. Ricordiamo che l'Orbicciani - noto specialmente per esser stato posto da Dante nel Purgatorio, ove patisce fra i golosi (XXIV, vv. 19-20 e 34-63) - fu "l'autentico trapiantatore dei modi siciliani in Toscana"58 ed è lui, nell'invenzione dantesca, a riconoscere il superamento della maniera poetica propria, della scuola siciliana e di Guittone ad opera del dolce stil novo (vv. 55-60). Ciò premesso, vediamo i vv. 25-27 della sua ballata Donna, vostre bellezze: Maritate e pulzelle / di voi so' innamorate, / pur guardandovi 'n mente59 (=donne sposate e fanciulle sono innamorate di voi al solo guardarvi nella loro mente). Per chi conosca i testi di Bonagiunta, sul significato del termine innamorate non possono esservi dubbi e Contini - non tuttavia nelle note al Contrasto - pone giustamente in rapporto questi versi col le donne ti disiano, pulzell'e maritate di Cielo: "ricorrono 'maritate e pulzelle' innamorate della donna, come in Cielo, v. 2".60 Evidentemente i sostenitori di H2, e in particolare coloro che hanno associato il richiamo biblico del v. 2 con la posizione di D'Ovidio, dell'antologia continiana hanno letto solo ciò che tornava loro più comodo. Trovo perciò di grande rilievo scientifico e insieme - mi si perdoni l'intenzionale grossièreté - d'esaltante goduria che, da poco più di un anno, i rappresentanti attuali di quest'agguerrita e a lungo totalizzante congrega abbiano qualcos'altro su cui riflettere e forse perturbarsi: l'apparato di note curato da Luigina Morini per il testo continiano del Contrasto nella citata Antologia della poesia italiana diretta da Segre e Ossola. La Morini, peraltro, a proposito del v. 2 appare comprensibilmente, ma in qualche misura anche curiosamente, assai dubitosa. Ecco infatti che cosa scrive: "2. le donne ti disiano: espressione di ascendenza scritturale (Ct, I, 2: 'adulescentulae dilexerunt te'); oggetto del desiderio sarà il fiore, non la donna che esso simboleggia: ma cfr. Bonagiunta, Donna, vostre belleze, 25-27: 'Maritate e pulzelle / di voi so' 'nnamorate, / pur guardandovi mente' ".61 Dunque la studiosa menziona dapprima lo spesso citato (da Contini in là) passo del Cantico dei Cantici (a questa fonte si riferisce la sigla Ct); poi - ricorrendo a un tempo futuro che certo intende esprimere perplessità ma anche a una proposizione che nel suo insieme appare ridurre dì molto la percentuale di dubbio usualmente connessa al "sarà" dubitativo - afferma il possibile riferirsi dell'atto desiderante (di pulzelle e maritate) alla rosa e non alla donna (il che corrisponde alla riproposta, sia pur ipotetica, di H2); infine, con una correttezza ignota a quasi tutti gli studiosi di questo testo, ricorda il v. 2 della ballata di Bonagiunta, che già era stato menzionato da D'Ancona e evidenziato - ma non nelle note al Contrasto - da Contini: nel complesso una formulazione che, pur tenendo conto della necessità di sintesi generalmente prescrittiva nell'elaborazione di note a testi letterari, mi sembra non solo problematica (nel senso d'una legittima cautela interpretativa) ma anche conflittuale (nell'accezione psicologica del termine). Personalmente invece ritengo che i versi di Bonagiunta costituiscano, tenuto conto degli indizi già dati, la prova risolutiva, o quasi, della validità di H3. Il 'quasi' dipende da un assoluto scrupolo scientifico, non escludendo - ma ritenendolo pressoché impossibile - che, pur essendovi analogia fra i due testi, non vi sia fra loro identità di significato: in effetti questo è chiarissimo in Bonagiunta, con un minimo di residua ambiguità in Cielo. Questo 'minimo', comunque, è davvero infinitesimale.

Considerato quindi che anche la scienza nel senso stretto del termine è oggi probabilistica e che in tale chiave è da intendersi il concetto di verità scientifica, riterrò di qui in avanti vera H3 per il suo elevatissimo grado di probabilità. Inoltre, anche prescindendo da questa considerazione, resta ad ogni modo il fatto che nel testo di Bonagiunta sussiste, senza alcuna ombra di dubbio, un riferimento alla potenziale bisessualità femminile. Ci si può chiedere allora quanto queste immagini poetiche corrispondano ad una realtà esterna di quell'epoca: la documentazione storica non è di semplice acquisizione ed è soprattutto relativa alla situazione francese grazie agli importanti studi di Georges Duby e della sua scuola. Tuttavia, essendo le dinamiche socioculturali nel corso del Medioevo sostanzialmente analoghe in tutta Europa, quanto si sa dell'àmbito francese può in buona misura applicarsi a quello italiano. In particolare è utilissimo ai nostri fini uno studio di Duby pubblicato in Francia nel 1996 (Dames du XIIe siècle. Ève et les prêtres, Paris, Gallimard) e con meritoria rapidità tradotto in Italia col titolo I peccati delle donne nel Medioevo.62 Lo storico francese attesta che dell'esistenza di casi di bisessualità femminile nel Medioevo si trova testimonianza in alcuni trattati ecclesiastici, opere scritte ovviamente da uomini e generate in un'istituzione per la quale la donna era costitutivamente lussuriosa: ciò non toglie che i 'peccati' sessuali di cui quei trattati parlano è da pensare non siano frutto dell'immaginazione dei loro autori. Già poco oltre l'anno 1000, il giureconsulto e canonista tedesco Burcardo, vescovo di Worms, nelle fredde pagine del suo Decretum (1007-1012) - e in particolare nel capitolo XIX che, col titolo Corrector o Medicus, circolò più dell'insieme del trattato - affermava l'idea, comunque non nuova, d'una specifica vocazione femminile alla lussuria. D'altra parte, per Burcardo, la donna è quasi sempre passiva rispetto all'uomo nelle pratiche sessuali, per cui ella è fortemente peccatrice in quest'àmbito o nei rarissimi casi in cui prende l'iniziativa o quando s'impegna in atti illeciti ove l'uomo non è coinvolto: è il caso di quei piaceri che le donne "si prendono lontano dagli uomini, nel segreto della camera delle dame",63 fra cui ovviamente i giochi erotici che esse possono fare tra loro. È un'epoca in cui le donne si sposano giovanissime con un uomo scelto dalla famiglia cui devono obbedienza: si intravede così, nelle severe parole di Burcardo, l'esistenza d'una solidarietà femminile che certo può esprimersi anche in termini sessuali. Il Decretum - che, essendo una raccolta di canoni ecclesiastici, non si occupa ovviamente solo di sessualità - elenca, per ogni peccato, le pene pubbliche che l'autorità religiosa doveva infliggere e non è senza significato che, a parità di colpa, siano più pesanti le sanzioni per le donne di quelle per gli uomini: pochi giorni di penitenza per un uomo che ne abbia accarezzato un altro ma - come ricorda Duby - "da tre a cinque anni di lamentazioni pubbliche, di digiuni, di penosissime astinenze per riscattare il peccato delle lesbiche o di quelle scervellate che sognano di cavalcare nella notte in compagnia delle diavolesse".64 Come ben rileva lo storico francese, "alle soglie del secondo millennio, all'epoca in cui lavorava Burcardo di Worms (...) la Chiesa decise di porre sotto il più stretto controllo la sessualità: essa era allora dominata dallo spirito monastico (...). La Chiesa divise (...) gli uomini in due gruppi. Ai servitori di Dio vietò l'uso del sesso, lo permise agli altri, alle condizioni draconiane che essa dettava. Rimanevano le donne, il pericolo, perché tutto ruotava intorno ad esse. La Chiesa decise di assoggettarle, e a questo scopo definì chiaramente i peccati dei quali le donne, per il loro temperamento, si rendevano colpevoli".65 Il Decretum era dunque un'arma con cui il potere maschile si difendeva. Nel secolo successivo, si diffonde però nell'alta società l'amore cortese che prevede l'attivarsi del desiderio anche nella donna, rivolto non al marito ma all'amante per il quale - al fine di incrementarne la passione e l'eccitazione - ella impara a curare di più il proprio aspetto fisico.66 Non sorprende dunque il divertimento con cui il vescovo Stefano di Fougères, nel suo lungo poema in latino, destinato all'ambiente di corte, Livre des manières (1174-1178), parla dei rapporti lesbici, il peccato "contro natura", 67 il nuovo "gioco che hanno trovato le dame" 68 impegnandovisi assai volentieri. Si potrebbe sospettare che il vescovo, nel suo mixing fra reprimenda morale e godimento perverso, un po' esageri ma, come osserva Duby, egli "molto ben introdotto nell'ambiente cortese (...) parla certamente di esperienze vissute ".69 Come ho detto, il celiare di Stefano di Fougères non muta l'atteggiamento dell'istituzione ecclesiastica verso la donna e le sue colpe: anche nel Livre des manières le donne sono rappresentate come sessualmente incontenibili e il lesbismo, nel sottrarle alle regole del microcosmo coniugale, è ovviamente giudicato il più grave fra i molti peccati che la lussuria femminile genera. Come il lettore avrà notato non ho usato fin qui il termine "omosessuale" (inteso in senso stretto): non lo sono, in genere, le donne di cui parlano i trattati ecclesiastici che sono sposate (né è ragionevole pensare che, pur non avendo spesso scelto il proprio sposo, in maggioranza odiassero le prestazioni coniugali) e magari hanno anche un amante, e che tuttavia - non dico tutte, non dico di sovente - non disdegnano giochi erotici con le loro amiche; non lo sono le fanciulle e le donne sposate che si sentono attratte da una donna in Cielo e in Bonagiunta: è la bellezza di lei che è complimentosamente giudicata tale da attrarre anche le altre donne. È giunto infatti il momento di chiarire che quando parlo di potenziale bisessualità femminile cui alludono i testi di Cielo e di Bonagiunta, non mi riferisco a una sia pur minimale anticipazione della tradizionale e scientificamente discutibile teoria psicoanalitica della bisessualità, ma alla più semplice e lineare considerazione che - almeno secondo Cielo, Bonagiunta e molti altri e altre - una ragazza molto bella può attivare desideri anche in soggetti femminili usualmente eterosessuali. Certo Cielo o, più precisamente, il suo personaggio maschile (che tuttavia gioca alla parte del corteggiator cortese) e Bonagiunta sono assolutisti: a sentir loro qualunque altra donna è destinata a innamorarsi della loro amata (o almeno a desiderarla), 70 mentre nel mondo reale le cose non sono mai così automatiche neanche fra uomo e donna (o viceversa). Naturalmente il prof. Gustav von Aschenbach aggiungerebbe che forse il meccanismo vale anche per gli uomini - almeno, a lui è capitato - quando vedano per esempio il suo Tadzio, certo non tutti gli uomini (e questa è già una delimitazione) ma quanti sappiano cogliere la Bellezza nel suo apparire fenomenico: la questione andrebbe posta al personaggio di Cielo (o direttamente a quest'ultimo) e a Bonagiunta che però, probabilmente, risponderebbero a male parole; io - pur con tutto il rispetto per l'esaltato e dolente professore ed esprimendo una posizione che non aspira al rango di necessaria norma comune - so di me stesso che, alla vista di Tadzio e della sua famiglia, mi sarei interessato alle sue "monacali"71 sorelle (intendo quelle cui allude, un po' schifiltosamente, Mann e non certo la bambina, la bambinona e la bambinuccia del celeberrimo film di Visconti) o magari a sua madre se avesse avuto lo stesso aspetto della viscontiana Silvana Mangano. Ma torniamo ai testi medievali.

Giacomo di Vitry, alla fine della sua raccolta di sermoni pubblicata nel 1226, ha posto quelli rivolti agli sposi. La donna non deve rifiutarsi al marito ma - e questa è una novità - neppure deve "credere di essere tenuta a dissimulare il proprio desiderio"72; ed il marito non deve farle violenza "credendola sempre sottomessa al suo piacere".73 Inoltre, sorprendentemente, Giacomo di Vitry, a proposito dei casi in cui una donna non riesce a contenere il proprio desiderio sessuale, scrive: "se la dama può liberarsi diversamente senza scandalizzare il marito, essa non deve dirglielo. Ci sono molte cose che i mariti non devono sapere - visto che hanno un'eccessiva tendenza a disprezzare le donne - e delle quali non si può parlare dal pulpito".74 Duby osserva che "si nota qui il prete ben informato per mestiere e perché forse, dopo due secoli, sono arrivate fino a lui le parole del Medicus a proposito dei rimedi che le donne usano talvolta tra loro per calmarsi; non si sa se la sua sia indulgenza o disprezzo, in ogni caso il tono è discreto". 75 A me pare si tratti d'indulgenza, come penso sia dimostrato dall'asserzione d'una liceità di non dire tutto al marito e dal giudizio negativo sul disprezzo degli uomini verso le donne. Il fatto è che fin dall'ultimo ventennio del dodicesimo secolo, la posizione delle donne "fu in parte rivalutata, (...) gli uomini si abituarono a trattarle come persone, a discutere con loro, ad allargare il campo delle loro libertà".76 Questo spiega, credo, come anche qualche ecclesiastico possa essere stato un po' più tollerante dei suoi predecessori, addirittura - è il caso di Giacomo di Vitry - non sanzionando, purché non diano scandalo al marito, certi comportamenti femminili sessualmente trasgressivi77.

Dunque, anche all'esame della macrocultura in cui sono stati prodotti, cioè quella europea del '200, i vv. 1-2 del Contrasto risultano congruenti con H3. Essi e, ovviamente, i vv. 25-27 della ballata di Bonagiunta Orbicciani implicano insomma una 'teoria' della potenziale bisessualità femminile che molto piacerebbe, per citare un personaggio dell'odierna fiction letteraria (prima ancora che filmica), alla Emmanuelle (o ad altre meno note fanciulle) di Emmanuelle Arsan. O, per non debordare dai confini dell'epoca di Cielo e di Bonagiunta, alle bisessuali signorine e signore (Aélis, Isabelle, la Signora di Montpellier) dell'Escoufle (1200-1202) di Jean Renart.78

 

NOTE

* Questo saggio, con il testo del Contrasto corredato di note e apparati critici, è stato pubblicato da Edizioni Gazebo, Firenze, 1999. [Torna all'inizio]

1) Gianfranco Contini (a cura di), Poeti del Duecento (vol. II de La letteratura italiana. Storia e testi, diretta da Raffaele Mattioli, Pietro Pancrazi e Alfredo Schiaffini), Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, tomo I, pp. 173-185 e tomo II, p. 819, citaz. t. I, p. 177.

2) Si veda al v. 112 l'espressione giullaresca enfra esta bona jente, certo più dell'autore-attore che del personaggio. Peraltro c'è chi - p. es. Simonetta Bianchini - ritiene Cielo non un giullare (quand'anche dotato d'alte capacità poetiche e di buona cultura) ma un poeta della corte federiciana e chi si colloca su posizioni più sfumate. Della Bianchini si veda, a questo proposito, "Cielo d'Alcamo, i Provenzali e i Poeti siciliani", in AA. VV., Cielo d'Alcamo e la letteratura del Duecento (Atti delle giornate di studio, Alcamo, 30-31 ottobre 1991), Alcamo, Sarograf, 1993, pp. 65-74: questa studiosa ha in effetti dimostrato le forti similitudini fra il Contrasto e i testi di Giacomo da Lentini e di altri poeti della scuola federiciana nonché un comune influsso provenzale. Ma un giullare colto (e ve n'erano) non aveva alcuna difficoltà a far proprie modalità espressive dei poeti curiali con cui entrava in contatto o di cui gli giungeva l'eco.

3) G. Contini, op. cit., t. I, p. 175.

4) Cfr. Salvatore Satta e Francesco Egidi (a cura di), Il libro de varie romanze volgare. Cod. Vat. 3793, fascicolo II, Roma, Società Filologica Romana, 1903, pp. 52-55 (nel Codice 3793 il Contrasto è anonimo; l'attribuzione a un "Cielo dal camo" si deve agli appunti di Angelo Colocci che la effettuò sulla base di un qualche codice non pervenutoci: cfr. Nicolò Mìneo, voce "Cielo d'Alcamo", in AA. VV., Dizionario biografico degli italiani, vol. XXV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, pp. 438-443 e Roberto Antonelli, "Canzoniere Vaticano latino 3793", in Alberto Asor Rosa [a cura di], Letteratura italiana. Le opere, vol. I, Torino, Einaudi, 1992, pp. 27-44).

5) Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, vol. I, Napoli, Morano, 1903, p. 1.

6) Nicolò Mineo, op. cit., p. 442; id., "Per una rilettura del 'Contrasto' di Cielo d'Alcamo", in AA. VV., Cielo d'Alcamo e la letteratura del Duecento, cit., pp. 19-29, citaz. a p. 23; id., "Il 'Contrasto' di Cielo d'Alcamo tra ritualità e realismo", La rassegna della letteratura italiana, n. 3, 1993, pp. 5-10, citaz. a p. 9. Sulle significazioni erotiche del Contrasto cfr. Roberto Antonelli, "Il problema Cielo d'Alcamo", in AA.VV., op. cit., pp. 45-62 e Sergio Cristaldi, 'Contrasto erotico e contrasto ascetico", in op. cit., pp. 155-169: entrambi questi studiosi preferiscono però - e ciò non può che sorprendere - tacere sull'interpretazione dei vv. 1-2.

7) Cesare Segre e Carlo Ossola (a cura di), Antologia della poesia italiana, vol. I (Duecento-Trecento), Torino, Einaudi-Gallimard, 1997.

8) Francesco A. Ugolini (a cura di), Testi antichi italiani, Torino, Chiantore, 1942, pp. 158-164.

9) Bruno Panvini (a cura di) , Poeti italiani della corte di Federico II, Napoli, Liguori, 1994, pp. 241-249 e 315-317. Di ogni strofa del Contrasto - come di ogni altro testo compreso nella raccolta - Panvini dà comunque una traduzione interpretatíva che per i primi due versi così suona: "Rosa fresca profumatissima, che appari verso l'estate, le donne ti desiderano, donzelle e sposate" (p. 241). Nelle note, invece, "realizzate secondo un criterio di stringatezza e di brevità" (p. 33), Panvini nulla dice di tali versi. Anche Faccioli (o chi per lui) e Arveda - che entrambi riprendono la lezione continiana - nei loro apparati di note non si pronunciano sulla corretta interpretazione del v. 2: cfr. Emilio Faccioli (a cura di), Il teatro italiano, vol. I (Dalle origini al Quattrocento), tomo I, Torino, Einaudi, 1975, p. 19 (l'espressione "o chi per lui" è motivata dal fatto che in questo volume non è indicato, nella nota sui curatori dei vari testi, chi abbia redatto le note al Contrasto) e Antonia Arveda (a cura di), Contrasti amorosi nella poesia antica italiana, Roma, Salerno Editrice, 1992, p. 7. Lo stesso fa Antonino Pagliaro nell' edizione del Contrasto da lui curata (compresa nei suoi Poesia giullaresca e poesia popolare, Bari, Laterza, 1958, pp. 212-232 e Forma e tradizione, Palermo, Flaccovio, 1972, pp. 61-99) ma le sue note indicano solo le varianti testuali mentre questo studioso, nel saggio "Il Contrasto di Cielo d'Alcamo" (nel suo Saggi di critica semantica, 2a ed., Messina-Firenze, D'Anna, 1961, pp. 229-281), respinge quell'interpretazione dei vv. 1-2 che più avanti definirò H1. Si astiene di recente da prender posizione sul v. 2 Andrea Fassò, nel capitolo su "I primi documenti della letteratura italiana" nella Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, vol. I (Dalle origini a Dante), Roma, Salerno Editrice, 1995, pp. 233-264: Fassò riporta, infatti, anche i primi due versi limitandosi a dire di essi che indicano come Cielo cerchi di "mimare fin dall'esordio" (op. cit., p. 254) il linguaggio della poesia cortese. Della per certi versi clamorosa reticenza sui vv. 1-2 di Antonelli e Cristaldi ho già detto (alla nota 6).

10) Leone Allacci, Poeti antichi raccolti da codici manoscritti della Biblioteca Vaticana e Barberina, Napoli, Allecci, 1661, pp. 287 e 408-416.

11) op. cit., p. 287.

12) op. cit., p. 408.

13) Ernesto Monaci, "Il poemetto di Cielo dal Camo con due documenti ad esso relativi", Bullettino dell'archivio paleografico italiano, I, fasc. II, 1910-1912, pp. 271-278, citaz. a p. 274. Sulla designazione "dal Camo" cfr. nota 4.

14) Giusto Grion, Il serventese di Ciullo d'Alcamo. Esercitazione critica, Padova, Prosperini, 1858. È da rilevare, a proposito del titolo dei lavori di Grion qui citati, che la denominazione Ciullo, accettata come valida fin quasi ai nostri giorni, è senz'altro da respingersi essendo stata provata la sua erroneità.

15) Giusto Grion, "Il serventese di Ciullo d'Alcamo. Scherzo comico del 1247", Il Propugnatore, IV, 1-2, 1871, pp. 104-181.

16) Alessandro D'Ancona, Studi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Ancona, Morelli, 1883, pp. 241-458, citaz. a p. 324.

17) op. cit., p. 413.

18) Giovanni Alfredo Cesareo, Le origini della poesia lirica e la poesia siciliana sotto gli Svevi, Milano, Sandron, 1924, p. 372.

19) op. cit., p. 374.

20) Cfr. Antonino Pagliaro, "Il Contrasto di Cielo d'Alcamo", cit.

21) Gerolamo Lazzeri (a cura di), Antologia dei primi secoli della letteratura italiana, Milano, Hoepli, 1942, pp. 466-484.

22) Camillo Guerrieri Crocetti (a cura di), La magna Curia. La scuola poetica siciliana, Milano, Bianchi-Giovini, 1947, pp. 235-253.

23) Cfr. op. cit., p. 236.

24) op. cit., p. 247.

25) Francesco D'Ovidio, appendice a Versificazione italiana e arte poetica medievale, Milano, Hoepli, 1910, pp. 589-750; poi in Opere, vol. IX, tomo III, Napoli, Guida, 1932, pp. 169-335, citaz. a p. 258.

26) G. Lazzeri, op. cit., pp. 468-9.

27) op. cit., p. 469. Anche Guerrieri Crocetti sottolinea la "tortuosità ambigua e senza riscontri" (op. cit., p. 247) dell'interpretazione di D'Ovidio, ma poi anch'egli, come ho già detto, opta per H1.

28) Frede Jensen (a cura di), The Poetry of the Sicilian School, New York-London, Garland Publishing, 1986, p. 238.

29) I testi della scuola siciliana citati sono in Bruno Panvini (a cura di), Le rime della scuola siciliana, vol. I, Firenze, Olschki, 1962 (qui la canzonetta di Giacomino Pugliese è riportata fra le "poesie di dubbia attribuzione" in quanto per il Codice 3793 si deve a Giacomino ma per il Palatino 418 e per il Chigiano L.VIII.305 è di Pier delle Vigne: Panvini tuttavia precisa - a p. XLVII - i convincenti motivi per cui "è bene dare credito" al Codice 3793). A cura di Panvini, cfr. anche Poeti italiani della corte di Federico II, cit. , ove però - per lo stretto àmbito delimitato dal titolo del volume (che comprende solo autori sicuramente operanti presso la corte federiciana) e per la scelta (conseguenziale alla precedente) di non includervi testi anonimi - fra le liriche da me citate sono comprese solo quelle di Federico II e di Giacomo da Lentini. Isplendiente di Giacomino Pugliese è anche in C. Segre e C. Ossola, op. cit.; la canzonetta di Compagnetto da Prato è anche in A. Arveda, op. cit.; Dal core mi vene di Giacomo da Lentini e l'anonima Rosa aulente sono anche in Contini, op. cit., t.I.

30) G. Contini, op. cit., p. 173.

31) N. Mineo, voce "Cielo d'Alcamo", cit., p. 442.

32) Cito da Aurelio Roncaglia, "Le origini", in Emilio Cecchi e Natalino Sapegno (a cura di), Storia della letteratura italiana, vol. I, Milano, Garzanti, 1965, pp. 1-269 (il testo di Rambaldo di Vaqueiras è alle pp. 235-238).

33) Cfr. Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975, pp. 347-352.

34) W. Theodor Elwert, "Appunti sul Contrasto di Cielo d'Alcamo", Giornale storico della letteratura italiana, CXXV, 1948, pp. 242-243, citaz. a p. 242.

35) Elwert rimanda alla Crestomazia italiana di Ernesto Monaci ma ora si veda Sandro Orlando (a cura di), Rime dei memoriali bolognesi 1279-1300, Torino, Einaudi, 1981, pp. 41-42. L'espressione marita' e polzelle ricorre anche al v. 18 di un'altra rima dei Memoriali: cfr. op. cit., pp. 68-69.

36) W. T. Elwert, op. cit., p. 243.

37) Angelo Monteverdi, "Rosa fresca aulentissima... Tragemi d'este focora...", Studi medievali, XVI, 1943-1950, pp. 161-175; poi, con una "postscritta", in Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 101-123. Su Cielo si veda, di questo stesso studioso, il saggio "Giacomo da Lentino e Cielo d'Alcamo", Cultura neolatina, XXVII, 1967, pp. 261-284; poi in Cento e Duecento, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1971, pp. 277-305.

38) A. Monteverdi, Studi e saggi, cit., p. 111.

39) G. Contini, op. cit., p. 177. Anche Alberto Del Monte, nella sua edizione del Contrasto (che riprende quella di Pagliaro), rimanda per i primi due versi al Cantico dei Cantici, senza però null'altro aggiungere: non mi pare pertanto di poterlo annoverare con sicurezza fra i sostenitori di H3: cfr. A. Del Monte (a cura di), "Il Duecento", in Il Duecento e il Trecento (vol. I dell'Antologia della letteratura italiana, diretta da Maurizio Vitale), 2a ed., Rizzoli, Milano, 1968, pp. 3-438 (il Contrasto è alle pp. 91-97).

40) Dario Fo, Mistero buffo, a cura di Franca Rame, Torino, Einaudi, 1997, p. 9. La prima stesura di Mistero buffo risale all'autunno 1969 ma si è trattato da subito di uno spettacolo aperto che è stato via via aggiornato. Il tema iniziale del testo a stampa e della terza puntata dell'edizione televisiva (oggi disponibile in videocassetta) è costituito da una divertente e polemica 'lezione' su Rosa fresca aulentissima. Certo Fo, come spesso gli accade nel suo teatro 'medievistico', anche qui non è scientificamente ineccepibile: ad esempio propende per il nome Ciullo che da tempo si sa essere erroneo (ciò comunque gli consente efficaci spuntí comici), oppure dà una spiegazione storicamente scorretta della defensa di Federico II (cfr. Giosuè Musca, "Il Medioevo di Dario Fo ", Quaderni medievali, n. 4, 1977, pp. 164-178). Ma sul v. 2 del Contrasto, le mordaci considerazioni di Fo - a parte la verosimiglianza o meno del detto siciliano da lui citato - coniugano l'esigenza di far ridere, il fine didattico ed anche una molto probabile correttezza interpretativa. L'impianto delle argomentazioni polemiche, sempre in rapporto al v. 2, è comunque più impeccabile nel testo a stampa che nel video: in entrambi, ad ogni modo, H3 è enunciata a chiare lettere. Del tutto campato in aria - dispiace rilevarlo - è invece ciò che Fo ha dichiarato a Luigi Allegri durante una nondimeno importante intervista svoltasi nel 1989 e di recente ristampata in occasione del Nobel: "la rosa del primo verso non è un fiore ma il glande dell'uomo che spunta sotto la corta veste da gabelliere" (Dario Fo, Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione, Roma-Bari, Laterza, 1990, 3a ed. 1997, p. 137).

41) Ringrazio per le notizie fornitemi (ottobre 1997) il prof. Giuseppe Corallino, assessore alla pubblica istruzione e cultura del Comune di Sciacca, e il prof. Giovanni Ruffino, ordinario di Dialettologia e linguistica italiana all'Università di Palermo.

42) Gianfranco Folena, "Cultura e poesia dei Siciliani", in Emilio Cecchi e Natalino Sapegno (a cura di), op. cit., pp. 225-289, citaz. a p. 272.

43) F. Jensen, op. cit., p. 238.

44) N. Mineo, "Il 'Contrasto' di Cielo d'Alcamo tra ritualità e realismo", cit., p.8 e id., "Per una rilettura del 'Contrasto' di Cielo d'Alcamo", cit., p. 23.

45) Marcello Zicàri, "Catullo in Cielo d'Alcamo?", La rassegna della letteratura italiana, n. 1, 1965, pp. 117-118.

46) Cfr. A. D'Ancona, op. cit., p. 413.

47) Luigi Pepe, "Il Contrasto di Cielo d'Alcamo e la tradizione manoscritta del c. 62 di Catullo", in AA. VV., Romania. Scritti offerti a Francesco Piccolo nel suo LXX compleanno, Napoli, Armanni, 1962, pp. 369-384.

48) Enzo V. Marmorale, "Appunti e varietà letterarie. 1, Cielo d'Alcamo e Catullo", Giornale italiano di filologia, XXVII, n. 1, 1964, pp. 66-67. Anche Folena, sostenitore di H2, menziona tra le fonti del v. 2, oltre al Cantico dei Cantici, "riscontri classici, p. es. di Catullo" (op. cit., p. 272).

49) M. Zicàri, op. cit., p. 118.

50) ibid.

51) ibid.

52) ibid.

53) Su questo esempio cfr. U. Eco, op. cit., p. 348.

54) Emilio Pasquini, "La poesia popolare e giullaresca", in Carlo Muscetta (a cura di), La letteratura italiana. Storia e testi, vol. I, 2, Roma-Bari, Laterza, 1970, pp. 115-181.

55) op. cit., p. 120.

56) D. Fo, Mistero buffo, cit., p. 9.

57) Delle sue frequenti presentazioni in classe (suppongo d'una scuola media superiore) del Contrasto, posto a raffronto col Mistero buffo di Fo, ha fatto cenno Marcello Tartaglia, diffondendosi però - ed assai bene - solo sul nome e lo status sociale di Cielo e sull'istituto della defensa, senza farci sapere nulla di quanto dice alle sue scolaresche sui primi due versi ed anche sul- l'interpretazione che di essi dà Fo (cfr. " 'Rosa fresca aulentissima'... e l'equivoco di Dario Fo", Cultura e scuola, n. 129, gennaio-marzo 1994, pp. 37-45). Certo non alle scuole ma senz'altro a un pubblico non specialistico era dedicata l'antologia Lirica italiana antica (2a ed., Firenze, Bemporad-Seeber, 1908) della volenterosa e moraleggiante Eugenia Levi che della prima strofa annota solo abento indicando che vuol dire "riposo" ma soprattutto si ferma alla tredicesima strofa, come nel mio manuale del liceo: ella però, nell'informare che "il Contrasto continua per altre diciotto strofe" (op. cit., p. 349), si astiene dal dire come vada a finire prefigurando così un probabile esito matrimoniale. Ciò non sorprende visto che nel prefare - era il dicembre 1894 - la sua Fiorita di canti tradizionali del popolo italiano (Firenze, Bemporad, 1895) scriveva di averne "bandito tutti quei canti che, come non vorrei sul tavolino mio, non possono rimanere su quello di alcuna famiglia che si rispetti" (op. cit., 2a ed., 1926, p.V).

58) G. Contini, op. cit., p. 258.

59) Cito da Carlo Salinari ( a cura di), La poesia lirica del Duecento, Torino, UTET, 1968, p. 309.

60) G. Contini, op. cit., p. 257.

61) C. Segre e C. Ossola, op. cit., p. 93.

62) G. Duby, I peccati delle donne nel Medioevo, tr. it., Roma-Bari, Laterza, 1997.

63) Burcardo di Worms, Medicus, cit. in G. Duby, op. cit., p. 15.

64) G. Duby, op. cit., p. 27.

65) op. cit., pp. 28-29.

66) Cfr. op. cit., p. 30.

67) Stefano di Fougères, Livre des manières, cit. in G. Duby, op. cit., p. 9.

68) ibid.

69) G. Duby, op. cit., p. 10.

70) Quest'asserzione, insolita nella poesia dell'epoca, è tuttavia convenzionale per l'enfasi con cui si sottolinea la bellezza dell'oggetto amato.

71) La definizione ricorre più volte in Thomas Mann, naturalmente in Morte a Venezia.

72) Cit. in G. Duby, op. cit., p. 86.

73) ibid.

74) Cit. in op. cit., pp. 86-87.

75) G. Duby, ibid.

76) op. cit., p. 140.

77) Non sorprende pertanto che, nello Statuto sinodale della diocesi di Cambrai (1300-1310), l'omosessualità femminile fosse ritenuta un peccato "contro natura" come quella maschile ma di gravità inferiore: cfr. Jean-Louis Flandrin, Le sexe et l'occident, Paris, Seuil, 1981, pp. 114-115 (tr. it. Il sesso e l'occidente, Milano, Mondadori, 1983, p. 112). Su questa tematica, ma in relazione a un periodo anteriore a quello da me considerato, e cioè ai primi secoli dell'era cristiana, cfr. lo specifico e documentatissimo studio di Bernadette J. Brooten: Love Between Women. Early Christian Responses to Female Homoeroticism, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1996.

78) Cfr. Jean Renart, L'Escoufle. Roman d'aventure, a cura di Franklin Sweetser, Droz, Genève, 1974. Delle tre opere attribuibili con quasi assoluta certezza a Renart - due romanzi (il Roman de la rose ou de Guillaume de Dole, 1228 ca., e appunto L'Escoufle [Il nibbio]) e un racconto lungo (Le lai de 1'ombre, 1217-1222, l'unico suo testo in cui sia menzionato, al v. 953, il nome dell'autore) - solo quest'ultimo è stato integralmente tradotto in italiano: J. Renart, L'immagine riflessa, a cura di Alberto Limentani, Einaudi, Torino, 1970. Nel 1912, in una collana di "testi romanzi per uso delle scuole", diretta da Ernesto Monaci, era uscito un breve ma ben fatto e non pudibondo riassunto con brani scelti del Roman de la rose ou de Guillaume de Dole (a cura di Vincenzo De Angelis, Roma, Loescher).

 

[Edizione elettronica realizzata per gentile concessione di Edizioni Gazebo, Firenze. Uroboro 7, Edizioni Mediateca, Campi Bisenzio, 1999


 
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