Jordi el catala'
Il disertare le urne, il non andare a votare, può essere interpretato in due modi: come qualunquismo di chi dice "no, la politica è una cosa sporca, non m'interessa" (e, anche in questo caso, bisognerebbe analizzarne le ragioni), o come un astensionismo cosciente di chi, proprio perché ama la politica e non vuole essere scippato del proprio pensiero critico, non accetta di partecipare alle regole di un gioco a cui non se la sente di sottostare.
Mi spiego: lasciamo perdere la questione filosofica sul fatto che l'idea stessa di democrazia escluda quella di rappresentanza (Rousseau, a proposito del sistema democratico rappresentativo come noi oggi più o meno lo intendiamo, parla di "aristocrazia elettiva", perché la democrazia o è pura, diretta, o semplicemente non è) e partiamo dall'assioma secondo cui la democrazia rappresentativa sia l'unica realmente possibile: noi andiamo a votare un gruppo politico che pensiamo rispecchi le nostre idee, abbiamo fiducia nelle persone che eleggiamo perché crediamo possano far valere le nostre ragioni.
Ora, se questa fiducia viene a mancare, crollano anche le basi per cui si accetta di partecipare al sistema rappresentativo: se io non mi sento rappresentato, se non c'è nessuna forza politica in cui minimamente mi identifico, perché mai devo andare a votare? Forse perché, come dice derSuchende, sarò rappresentato lo stesso nonostante il mio rifiuto? Si, sarà anche vero, ma almeno non sarà fatto con la mia complicità.
Facciamo un esempio concreto: un elettore o un'elettrice di sinistra, di sinistra vera, che nel 96 credeva che l'Ulivo avrebbe realizzato qualcosa di buono, come si deve porre dopo cinque anni in cui gli rimane solo l'amara constatazione che nulla di ciò in cui aveva creduto e sperato è stato fatto? E il punto è: perché non è stato realizzato?
Vedete, il problema è a monte: io sono cresciuto nel momento del crollo delle ideologie (si usa dire così) e conosco il modo di pensare delle persone, della gente che ha vissuto degli alti momenti di politicizzazione della società, solo attraverso i racconti che ho sentito, i libri che ho letto, i film che ho visto e, soprattutto, per l'educazione che ho ricevuto, ma mi sento lo stesso in grado di dire che da trent'anni a questa parte la società è cambiata, e mi sento altrettanto in grado di qualificare questo cambiamento come negativo.
E' come se l'antietica si fosse lentamente ma inesorabilmente insinuata nelle nostre vite, utilizzando i vari mezzi che il "progresso" le mette a disposizione per farci addormentare, per annullare il nostro dissenso che invece dovrebbe esplodere in maniera naturale di fronte, per esempio, alla creazione dei centri di "accoglienza" per immigrati, di fronte al fatto che l'istruzione non sia diritto di tutti, ma privilegio di pochi, di fronte al fatto stesso che la funzione della scuola si limiti a quella di preparazione ad un mondo del lavoro in cui l'unica certezza è l'incertezza, di fronte al fatto che solo la competizione con altri individui possa migliorare te stesso, per farti arrivare; ma arrivare dove?
Qual'è il senso di tutto ciò?
Fa bene Bertinotti a dire che la sinistra ha già perso, non nel senso della sua sconfitta alle elezioni oramai imminenti, ma nella sua incapacità a fornire un'alternativa etica al pensiero unico, nel suo totale adattamento alle logiche comportamentali di una maniera di vivere che, almeno per me, non ha nessuna valenza positiva.
E ritorniamo quindi al discorso principale: alla donna e all'uomo di sinistra si pongono due alternative: o andare a votare (turandosi tutti gli orifizi, come giustamente fa Hedrok), ragionando con la politica del meno peggio (ma è dunque questo il senso della democrazia rappresentativa?), o essere coerenti con se stessi, con le proprie idee, e rimanere "duri e puri", sapendo che l'agire politico e la coscienza politica trovano sicuramente, e per fortuna, altri canali e luoghi di attuazione che non siano le elezioni.
Ognuno poi é libero di interpretare la posizione astensionista come vuole, e, nel caso dei politici, di strumentalizzarla come vuole. Per me, quelli che praticheranno un astensionismo cosciente, sono tra le persone che maggiormente riescono a vedere il punto di sprofondo in cui la società sta giungendo e ad avere coscienza che quando si toccherà il fondo ci si farà male; perché come dice Hubert, uno dei protagonisti de "L'odio", bellissimo film di Mathieu Kassowitz, "…è la storia di una società che precipita, e che mentre sta precipitando, per farsi coraggio, si ripete: fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene...; il problema non è la caduta, ma l'atterraggio".
(30 marzo 2001)
Spesso e volentieri, nelle ignobili manifestazioni della Lega, su tutte quella contro l' edificazione di una moschea, ho visto sventolare, tra i tanti simboli e baluardi leghisti (a proposito, ma perché come simbolo della Padania Bossi ha scelto una foglia di maria?), una bandiera simile alla Union Jack britannica, con colori diversi: sfondo rosso, croce bianca su croce verde trasversale. Chi conosce abbastanza le realtà indipendentiste della penisola iberica saprà che questa bandiera é l' IKURRINA, il simbolo di EUSKADI, ovvero del Pais Vasco.
Ora, una prima impressione superficiale, potrebbe portare a considerare la Padania e i Paesi Baschi come realtà simili legate da una comune visione d' intenti: non é così. Tutti sappiamo che le rivendicazioni economiche della Lega non hanno niente a che vedere con il principo di autodeterminazione di un popolo, e che traggono la loro spinta propulsiva dalle più infime e basse pulsioni egoistiche che sfociano in atteggiamenti razzisti al limite del paradosso: mi ricordo, a tal proposito, un bel servizio di uno dei giornalisti di Santoro, che metteva in evidenza come il piccolo padronato del nord-est reclutasse la bassa manovalanza tra gli immigrati senza permesso di soggiorno, alle 5 di mattina, per la strada, e, come immaginabile, pagando il loro servizio una miseria.
Questo stesso piccolo padronato (ex muratori che hanno costruito in questo modo la loro fortuna e che hanno messo in piedi delle vere e proprie imprese), che durante la settimana ha bisogno, per il suo arricchimento, di manodopera extracomunitaria sottopagata, la domenica si riunisce attorno a simpatici banchetti messi in piedi dalla Lega Nord, dove si chiedono misure e provvedimenti nazisti contro l' immigrazione e per la difesa dell' identità di fede e di razza.
Nulla di tutto ciò si incontra in Euskadi.
Questo territorio che si trova tra Spagna e Francia, affacciato sull' Atlantico nel golfo di Bicaglia, ha una storia plurisecolare. La lingua parlata é l' EUSKERA, un idioma antichissimo che addirittura non ha radici indoeuropee. Un popolo, quello basco, a cui è stata sempre negata la possibilità di definirsi come nazione, diviso e oggetto della potenza imperialista di due fra gli stati europei maggiormente consolidati ed autoritari: Spagna e Francia.
Non perdiamoci però in una discussione che sarebbe troppo lunga, affondando le sue radici al momento dell' unione delle corone d' Aragona e di Castiglia. Facciamo quindi un salto avanti nei secoli (tenendo a mente che lo studio del passato è sempre indispensabile per una corretta comprensione del presente) e arriviamo al novecento.
La storia scritta durante la guerra civile spagnola trova nel pais Vasco una delle sue pagine più tristi: il bombardamento e la distruzione di una piccola cittadina chiamata Guernica. La vittoria del franchismo portò ad una imposizione ulteriore della componente castigliana: l' euskera veniva vietato e l' unica lingua ufficiale diveniva lo spagnolo.
Dopo venti anni di dura repressione iniziano a formarsi i primi nuclei armati indipendentisti e antifranchisti che, verso la fine degli anni '50, si riuniscono sotto la sigla E.T.A., ovvero EUSKADI TA ASKATASUNA (libertà per i paesi baschi).E' una lotta armata contro lo Stato spagnolo, una guerra dichiarata, uno scontro frontale al cui carattere sanguinario contribuiscono soprattutto i GAL, gli squadroni della morte messi in piedi da Franco, colpevoli di atrocità simili o peggiori di quelle perpetrate dalle dittature dell' America del sud. E' il franchismo quindi a conferire una matrice di sinistra al movimento indipendentista: la lotta per l' indipendenza corre parallelamente a quella contro il fascismo.
Terminata la dittatura, non finisce però la repressione: i primi governi "democratici" socialisti non sono capaci di intraprendere un dialogo con l' ETA, e la repressione genera rappresaglia. Quella che inizialmente veniva vista dalla sinistra spagnola come una lotta contro la tirannia franchista, comincia a non essere più compresa, dimenticandosi però che la battaglia contro il fascismo era sin dall' inizio accompagnata da quella per il principio di autodeterminazione. Quegli stessi membri della società che durante la dittatura soffrivano per le libertà negate, e che nei primi anni '80 salutarono con entusiasmo smisurato il ritorno della democrazia, si resero colpevoli di continuare una politica che di democratico aveva ben poco.
Oggi la guerra non è finita. Dopo un anno di tregua (1998), l' ETA ha ripreso ad agire, e da novembre del 2000 il punto principale della sua strategia è diventata la Catalogna: in un mese e mezzo ci sono stati tre attentati.
E' certo che la politica de los ETARRAS (i membri dell' ETA) ultimamente ha alienato loro l' atteggiamento di comprensione di quanti cercano di andare al di là di una condanna che li etichetta come criminali spietati: a morire questa volta sono stati un operaio (che ricopriva una carica a livello comunale per il P.P.E.) e un vigile urbano che aveva scoperto un' autobomba. Sono dei dubbi etici profondi, quelli che attanagliano le coscienze dei molti che hanno creduto nella causa per l' indipendenza basca.
Quello che vorrei fare ora è porre all' attenzione di "Un po' di sinistra" (e quindi alimentare un dibattito) due questioni.
La prima: CHI SONO I VERI TERRORISTI ? Sono gli etarras? O è lo stesso stato spagnolo che con le sue prigioni, con il trattamento che in queste viene riservato a chi commette reati politici, ha dimostrato che il passaggio dalla dittatura alla democrazia è stato puramente fittizio? Uno stato in cui l' attuale governo di centro destra concede un amnistia generale ai detenuti minorenni, a prescindere dal tipo di reato, ma ribadisce invece che i giovani che scendono in piazza, a Bilbao come a San Sebastian, per far sentire la loro voce fuori dal coro delle condanne nei confronti degli etarras (non dimentichiamoci, perché è un elemento fondamentale, che l' ETA non è un gruppo isolato, ma può contare quanto meno sulla comprensione di molta gente e di un partito politico, EUSKAL HERRITAROK, che nei Paesi Baschi ha circa il 20% dei voti), verranno considerati terroristi, e di conseguenza le pene previste, ad esempio per atti e dimostrazioni di gurrriglia urbana, saranno esemplari!
Seconda questione: LA LOTTA PER IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE PUO' CONCILIARSI CON L' INTERNAZIONALISMO DEI POPOLI ? Io credo di si, dal momento che si fondano sulla stessa battaglia nei confronti della tirannia e della sopraffazione: santa e meravigliosa l' unione di popoli che viene decisa spontaneamente (la vera Europa unita è quella che è scesa insieme a Praga a settembre per manifestare contro il W.T.O., non quella che ci viene imposta da banche e banchieri); immonda ed esecrabilie la volontà di potenza che una nazione più forte impone coattivamente ad una più debole.
Il dibattito è aperto, spero con la consapevolezza iniziale che parlare di Bossi e parlare dei Paesi Baschi non è esattamente la stessa cosa.
(19 gennaio 2001)