a cura di Chiara Sammartino |
alcune PROPOSTE |
Tela del silenzio, 1989 |
Variazione in giallo |
Evolvente storica, 1984 |
Cosmiconica blu, 1998 |
Coro a due voci, 1984 |
Autoritratto, 1983 |
Dama in rosso, 1996 |
Il grande sonno, 1996 |
Dove posare lo sguardo, 1995 |
La vocazione a trascendere la realtà visibile guida tutta la ricerca artistica di Carmelo Sammartino. Tappa fondamentale di questo percorso è la tela "Verso il sogno" (1993). In essa, alla presenza di una tela rovesciata, l'autore si interroga sulla sua identità di artista, aprendosi con la figura del cavaliere ad uno slancio ideale verso il futuro. Questa riflessione si matura nell'esperienza condotta in una grande tela "Non temere, amor mio" (1996), metafora compiuta della "Melencolia I" dureriana. L'artista qui si abbandona consapevolmente, ormai nutrito dall'amore della sua terra e della sua storia, alla sua vocazione intellettuale ed artistica.
Nel corso della sua produzione pittorica Sammartino si avvale di una lunga e varia sperimentazione tecnica, in cui è presente anche lo studio dell'acquaforte. Il colore trasmesso con cura agli oggetti, alle figure, come ad accarezzarle, si arricchisce via via, nella possibilità dei toni mentre diviene più rarefatto e permeabile nella materia, come possiamo vedere nella serie dei "Cieli". In questa serie del 1996 lo spazio della tela è costruito interamente da masse cromatiche che in contrasto tra loro creano traiettorie. Il disegno e la costruzione all'interno del quadro trascorre dalla prospettiva delle grandi architetture aperte sul paesaggio, verso un'essenzialità di linee e piani nelle "Tele del silenzio" fino a portarsi allo spazio puro articolato della superficie delle "Corde".
L'artista nelle "Tele del silenzio" (1989) avvia la sua indagine sul tema della tela quale campo da misurare con metodi concettuali quanto intuitivi. Sono interessanti i suoi progetti sull'introflessione ed estroflessione della tela, nei quali si realizzano le varie possibilità spaziali, che il bainco contiene ed esalta. Nei lavori delle "Corde" (1997) approfondisce questa indagine. Il pannello si costruisce simultaneamente su più piani che concretizzano diverse realtà nel fondo di uno scenario indefinito, dato dalla cornice permeabile di colore rarefatto.
Queste opere sembrano raccogliere l'eredità degli studi sulla tela di Lucio Fontana e delle sue creazioni spaziali, elaborandola in soluzioni formali originali che prospettano sviluppi futuri.
Mattia Accardi
Cielitudo, 1996 |
Gloria, 1996 |
Quando si ferisce il cielo, 1996 |
La serie dei "Cieli" presenta immagini cosmiche in cui, attraverso addensamenti e rarefazioni, percorriamo travagli interiori che si aprono dinanzi a noi nella ricchezza materica del colore, espresso in tutta la varietà ed intensità dei toni.
Albe, tramonti, annottamenti manifestano nei contrasti delle masse cromatiche percorsi luminosi che aprono e chiudono in spazi alti, oltre il quotidiano, intellettualmente ed emotivamente vissuti.
"Cielitudo" rappresenta il quadro plasticamente più ricco della serie. Il blu in alto fa da limite e dà misura all'espressione cromatica, che germina nella parte inferiore della tela, aprendosi ad uno spazio infinito in cui tutto è presente ed in armonia.
Mattia Accardi
Atlantis, 1997 |
I Giardini di Voltaire, 1998 |
L'io tessitore, 1998 |
L'intensità drammatica dei percorsi cosmici della serie dei "Cieli" si è risolta in un fondo di colore rarefatto ricco di sfumature, che fà da cornice ad un'immagine scolpita, costruita di frammenti disegnati all'interno di uno spazio-finestra che li contiene, dal quale provengono e del quale partecipano. Il quadro si costruisce così su tre livelli, che rimandano a più realtà in contrasto tra loro, composte in un'unica armonia, ricca ed elaborata.
L'universo mosso, appena omogeneizzato del fondo-cornice, sensibilmente carico, produce una messa a fuoco interna ed esterna al quadro. Lo spazio si dilata indefinitamente mentre si concentra sulla struttura centrale, dove si apre una realtà altra, terra che sostiene o abisso da cui si emerge, in cui ogni fenomeno diviene e si organizza: il molteplice si genera.
I frammenti si compongono raccordandosi tra loro, percorsi dai fili della corda che li segna, quasi a narrare i momenti del divenire da cui provengono. Tensione e coesione elaborano un'immagine in cui spazio e tempo coincidono in una essenzialità di superficie e profondità. Le sagome incise creano una trama geometrica di linee che insiste sul piano sottostante, mostrandosi in rilievo e con uno spessore accentuato dallo spago e dal colore. Questi due elementi, impreziositi talvolta dalla lamina d'oro, misurano lo spessore della materia accentuandone i valori luminosi e spaziali.
Pittura e scultura si compenetrano, dando vita alla realtà concreta del pannello.
Mattia Accardi
Il grande padre, 1999 (olio, corda, orone su tavola, cm 200 x 120)
"Il grande padre" (e il timore svanito)
L’elevazione
di questa immensità spiazza e ci rende vulnerabili. Così dirompente mi apre
alle mie debolezze per farle scorrere su lacrime, insegnarmi a cedere senza
orgoglio e mostrarmi che l’Amore ci appartiene.
Noi
così feriti, così accecati e spesso ustionati, possiamo ancora volare come
uccelli regali nel sentimento che da sempre ha retto e reggerà l’esistenza.
E’ la speranza che si impadronisce di noi. E ci lacera per la troppa bellezza
che avevamo dimenticato. Una parete di gloria che ci fa inginocchiare e che ci
tocca ansiosamente senza pudore. Il traboccante amore ci stravolge per farci
partecipi di un’esperienza umana vissuta.
Le
ferite tracciate ormai su di noi e gli spigoli taglienti che ci appartengono
sono messi a tacere dalle corde dell’umiltà e della semplicità tessuta e
ricercata: una povertà che ci rende ricchi. Le tenebre diventano luce.
Hai
donato così tanto di te che lo sfondo e il cielo sono pieni di te. Il desiderio
di evasione da noi stessi ci restituisce al mondo e la terra incolta si eleva
ugualmente.
La
nostra espansione, il nostro tendere all’ignoto, restituisce la libertà per
la quale soffriamo. Noi abbiamo confini, ma qualcosa di illimitato ci
assomiglia. E allora gioiamo. E allora piangiamo riconoscendo la nostra non
totalità.
E
allora accettiamo. Ormai consapevoli di invane ribellioni.
Ma
non ci stancheremo di amare, noi no.
Grazie
per avermi mostrato la tua forza… e la Mia forza.
Birbesi,
26 gennaio 2003
Il giocatore, 1993 (olio su tela, cm 70 x 100)
"Il giocatore" (e la partita della vita)
Un giovinetto, quasi un angelo morente, stanco, dall'animo troppo appesantito per riuscire ad alzarsi; troppo pallido per far riaffiorare il rossore delle gote, troppo segnato per non chinare la testa da una parte. Quasi rabbrividisce nel compiere l'atto dell'abbandono, impostogli dalla propria persona. Un po' di disgusto nell'accettare il patto con la realtà e ad assegnare ad essa il compito di badare alla sua dignità. E' la scelta che siamo costretti a fare: qualcosa che impone coraggio, come un obbligo a cui non possiamo sottrarci. E la paura ci culla dormienti per non apparire a noi stessi completamente coscienti. E' un vortice che gira e rigira e porta torpore e annebbiamento nel mondo platonico che abbiamo narrato alla nostra anima e al nostro corpo, come la dolce fiaba che è la fanciullezza, ma anche come un sogno che è destinato a finire.
E porteremo sempre, sulla nostra pelle, le macchie e i riflessi di un ricordo che via via si dissolve. Lo stato febbrile di un roseo inquinato ci sospende nell'attesa. Una parte repressa tende a nascondersi e la tensione è evidente nell'inclinazione del collo. Una timidezza che sorge spontaneo consolare. Vi è un'apertura centrale della scollatura che esibisce, insieme al berretto le cui pieghe tendono verso l'alto, un irrefrenabile orgoglio e una così grande forza, della cui origine vuole privarcene. Una figura circondata ancora dall'alone dell'innocenza che fa abbassare lo sguardo al mondo adulto. Nel contatto esterno porteremo con noi le carte della tenerezza e anche se saremo destinati ad essere amorfi, noi ci saremo. E tutta la forza delle cinque dita segnerà la nostra presenza.
Non ci toglieremo le vecchie vesti, per quanto possano presentarsi logore, sporche o sudate. Saliremo sul patibolo trionfanti con le nostre bandiere, per non farci strappare il nostro credo. Il rosso incita e fa sempre vittorioso colui che lo indossa. Egli sa che se avrà l'onore di espandere e di dar voce al grido attutito della libertà umana ne uscirà comunque un vincente per la nobiltà d'animo che sta nell'osare. Un paladino che non leverà mai il cappello, se non di fronte ad un compatriota che offre se stesso, la sua vita, per qualcosa di così alto come è l'Amore.
Si intravede la luce, ma non sappiamo se quella salvezza sarà anche nostra. Si intravede pure squallore, ma ormai siamo pronti, oramai le nostre labbra sono avvelenate e i nostri occhi sono stati sradicati, abbiamo violato il confine e iniziato a percorrere la strada del non ritorno. Tregua e rassegnazione ad un futuro non stabilito, ma che lascia ampio spazio all'intuizione. Tratti non troppo calibrati per l'alto grado di corruzione che invade facendosi largo con prepotenza. Così come un circolo di affari loschi, si percepisce la presenza giallo-oro che meraviglia bruciando gli animi allo stato nascente e degrada qualsiasi forma di bellezza. Stabile nonostante tutto intorno ruoti. Siamo qui, e affronteremo questo sporco gioco.
Chiara Noemi Sammartino
Birbesi,
19 aprile 2003