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Vetrate di chiesa di Giovanni Job di Elena Bono

Opera poderosa, direi sinfonica, queste vetrate di Giovanni Job. Uso di proposito il termine "sinfonica" per significare la molteplicità delle voci e dei toni che concorrono in questo poema sacro. Voci e toni ora tragici, ora epici, ora idilliaci, ora umoristici, ora fortemente polemici. Tanti quanti sono i momenti dello spirito in questa nostra giornata esistenziale.

I vertici del momento tragico ed epico sono, senza alcun dubbio, Crocifissione, Resurrezione, Pentecoste. Trasparenti alcuni riferimenti colti: uno per tutti, il S. Gerolamo del Domenichino nella Pentecoste. Ma tale è la forza creativa di Giovanni Job, così vulcanica è la sua natura che tutto viene rifuso nel magma interiore e restituito in forme pure, da mito classico.

Si veda, ad esempio di tale potente e prepotente classicità, la Resurrezione con quella frana di corpi che fa pensare subito al crollo dei Titani fulminati dall'ira di Giove. Ma qui quelli che hanno croci­fisso Dio ed anche pretendevano seppellirlo vengono fulminati, o quanto meno, atterrati, non dall'ira, bensì dall'amore di Dio. (Infatti, secondo il Vangelo, il Centurione grida: "Costui era veramente il figlio di Dio" e Longino, il soldato dalla lunga lancia, ha trafitto sì il Santo Petto ma riceve anche nell'occhio cieco quell'ultima stilla di sangue che gli restituisce la vista).

Ma la "trovata" più tipica di Job, la "costante" o leit-motiv del suo can­tare è il contrappunto ricorrente fra la sfera scritturale e quella storica e attuale.

Ossia, nella zona alta egli colloca il Grande Evento (Crocifissione, Resurrezione, Pentecoste); nella zona inferiore, la nostra storia esi­stenziale, così come la vive ciascuno di noi, nella propria condizione sociale, sesso, età, sembianze fisiche. E perciò tale zona pullula di ritratti dal vero. Job è un formidabile ritrattista, secondo la migliore tradizione della pittura italiana.

 

 

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