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L'Occhio dell'orologio
Tempo e Handicap nella relazione, in famiglia, nei Servizi, nelle attività lavorative

(13-2-1999)

 

Paolo Minerva,
Direttore Centri Socio Educativi 5 e 16 del Settore Servizi Sociali del Comune di Milano

La questione del tempo, argomento estremamente stimolante, ha a che vedere con la nostra soggettività. La mia riflessione è così partita dall'esperienza personale, in cui ho percepito, come del resto accade alla maggior parte delle persone, il risvolto inquietante della questione, quello della labilità del tempo. Ci sono una serie di esperienze nella vita che ci mettono di fronte a questa visione del tempo, soprattutto nelle relazioni con gli altri. Spesso, infatti, il problema del tempo è una questione di puntualità: le persone si incontrano, si capiscono, costruiscono insieme le cose, se nel gioco della puntualità si crea una sorta di tolleranza, di equilibrio, per cui chi arriva prima aspetta.

Questo equilibrio in qualche modo determina proprio la forma dell'incontro. Quando parliamo di puntualità, cioè di una forma dell'incontro in un ritmo giusto, viene in mente la metafora perfetta della danza. Il tempo dell'incontro in una relazione è assimilabile a un tempo di danza, un'esperienza in cui incontriamo la persona a un ritmo giusto. Quella della danza è una situazione d'incontro in cui la regola e la tolleranza, l'ascolto e la parola, l'attività e la passività, il portare e l'essere portati si alternano in una sincronia perfetta, un movimento armonioso in cui si sta bene. Come in una danza il ritmo dell'incontro, l'obiettivo non è quello di non pestarsi i piedi, è quello di stare bene. Spesso nell'incontro con le persone, per paura, si ha l'unico obiettivo di non pestarsi i piedi.

Vorrei ora proporre due contributi esperienziali che riguardano il servizio dei CSE, ma prima di tutto voglio lanciare una provocazione. Il fatto quotidiano più straordinario è che ogni giorno, sia che si facciano le cose, sia che non si facciano, sia che le si faccia bene o male, il tempo passa. Per fortuna o purtroppo. Ora vorrei soffermarmi a riflettere su quanto siamo puntuali noi nel servizio, nel creare la nostra danza con le famiglie e con i ragazzi.

Il tema della relazione con le famiglie va inquadrato storicamente. Negli anni Ottanta i servizi per portatori di handicap avevano spesso una connotazione rivendicativa. Da parte delle famiglie questa si declinava nel senso di una rivendicazione della necessità di affermare dei diritti e avere dei servizi; da parte di molti operatori come tendenza all' "onnipotenza" rispetto al prendersi in carico le situazioni nel loro complesso, con l'idea di poter valutare, decidere, risolvere le questioni. Con questo non sto dando una lettura valoriale, la situazione non era diffusa, ma quello era il clima. Agli operatori veniva chiesta solo una presenza, una disponibilità all'interno di un servizio, non c'era un livello professionale, inteso come percorso formativo, garantito. L'atteggiamento più naturale era dunque quello di "comprendere" in toto il problema della persona handicappata, con l'illusione, in qualche modo, di risolverlo completamente. Si è passati, poi, a una fase in cui la professionalità di base degli operatori si è definita e si sono costruiti strumenti per leggere la realtà. Siamo ora a un punto d'impasse: nel rapporto con la famiglia permane una specie di contrapposizione. Nella nostra esperienza di lavoro ai CSE, però, abbiamo verificato che la contrapposizione viene a cadere nel momento in cui la presa in carico della famiglia, in quanto parte del sistema, è interpretata come una danza, un andare incontro al confronto, accettare il proprio senso di impotenza rispetto alle situazioni. Anche perché le famiglie conoscono bene questa impotenza, la vivono da più tempo. A saper ascoltare bene le loro richieste il problema è dare una dignità a questo senso di impotenza e non dare risposta a delle domande. Talvolta per fare questo basta semplicemente ascoltare con l'orecchio giusto, spesso le famiglie non chiedono altro. Quando l'ascolto c'è stato la maggior parte di quelli che prima erano considerati problemi di relazione con le famiglie è scomparsa. Soprattutto quando l'ascolto si "ripulisce" da un atteggiamento difensivo, da quella sorta di orgoglio istituzionale e diventa stile di lavoro. La relazione con la famiglia non è più campo di battaglia come lo è stato spesso, ma si fa spazio di comune confronto. Tuttavia, è nella relazione tra operatore e utente che si gioca l'aspetto più significativo di questa danza, del trovare il ritmo giusto. Per usare la stessa metafora del dr.Villa, è necessario superare lo sguardo al tempo passato e quello al tempo presente; a un passato inteso come accanimento educativo relativo alla valutazione funzionale e un presente inteso come accanimento educativo legato all'attivismo e alla produttività. Lo sguardo deve essere puntato, invece, a una dimensione di tempo futuro che è lettura del desiderio. Un po' come imparare a leggere il ritmo della persona che ci sta di fronte senza sovrapporvi il nostro, ascoltare il sottile filo del desiderio direttamente connesso alla percezione del proprio benessere. Molto spesso il lavoro con i portatori di handicap si concretizza nella costruzione di una migliore qualità della vita intorno alla persona disabile. Questo non significa far fare delle cose a tutti i costi, ma seguire questo sottile filo di desiderio. Vi lascio con tre suggestioni: prima di tutto porvi davanti al vostro lavoro in questa dimensione di ascolto; secondariamente interpretare i rapporti con gli altri come una danza; infine, fuor di metafora, quando non saprete come realizzare ciò nella pratica, organizzate una festa vera e invitate le persone a ballare...e in questa relazione scoprirete qualcosa.

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