La battaglia di Adrianopoli venne considerata dalla storiografia dei decenni scorsi come il punto di non ritorno del processo di decadenza (soprattutto militare) dell'Impero romano. Ma questa posizione è stata recentemente rivista, in quanto, nella generale linea discendente della fortuna di Roma, viene da alcuni valutata come uno stimolo salutare al quale (con Teodosio) avrebbe fatto seguito un temporeneo risollevamento.

Ci viene descritta nelle fonti coeve da un testimone oculare, Ammiano Marcellino.

L'imperatore Valente volle muovere personalmente contro i visigoti per risolvere definitivamente il problema delle devastazioni da loro attuate nella regione.

In marcia verso Filippopoli per ricongiungersi con le forze del collega d'occidente Graziano, fu costretto a ripiegare su Adrianopoli dalla tattica dei barbari, tesa a tagliargli i rifornimenti provenienti dalla città. Giunto nei pressi di questa, scavati fossati e innalzate palizzate, lasciò sotto le mura le masserizie, e all'interno il tesoro e i fondi di guerra. Dispose poi che un contingente di armati ne restasse a guardia, mentre egli, con il grosso delle truppe, si sarebbe mosso alla ricerca dei goti.

All'alba del 9 agosto 378 di mise in marcia. Giunse a scorgere i carri dei nemici verso le due del pomeriggio, con truppe stanche e assetate.

Non ostante il generale Ricimero gli avesse recato una lettera da parte di Graziano, nella quale insisteva affinchè attendesse i rinforzi, convocò un consiglio di guerra, nel quale prevalse il parere di ingaggiar battaglia. Ammiano Marcellino attribusce la sua decisione al peso che ebbero le adulazioni dei cortigiani, al fatto che avrebbe potuto alla fine ascrivere a sè soltanto il merito della vittoria. Certamente determinante fu comunque l'errata valutazione che i suoi esplotatori fecero circa la consistenza numerica delle forze nemiche, stimandole in 10.000 uomini (mentre probabilmente erano tre volte tanti).

Ancora indeciso sulla condotta operativa che avrebbe tenuto, mentre già si accendevano spontanee le prime scaramucce, Valente stava al momento trattando con un ambasceria che Fritigerno gli aveva inviato (più che altro per temporeggiare), quando, del tutto inaspettatamente, piombò sugli imperiali la cavalleria gota e alana di Alateo e Safrax, proprio allora sopraggiunta ad infoltire le schiere dei barbari.

Nell'infuriare della mischia che seguì, l'ala sinistra della fanteria romana pure riuscì a raggiungere i carriaggi dei Goti (disposti in cerchio, secondo il loro costume, a costituire il quartier generale, nucleo operativo della battaglia), la cui conquista avrebbe potuto una segnare una svolta decisiva per l'esito dello scontro, ma, non essendo sostenuta dalla propria cavalleria, fu ben presto sopraffatta.

Una ritirata con ordine da parte dei romani non fu possibile, a causa degli stretti sentieri della zona: fu piuttosto una fuga precipitosa e disordinata, nella polvere sollevata e nella calura estiva, per piste intasate da uomini in armi, e, ormai, da soldati uccisi o feriti, con rabbiose (ma sporadiche, isolate e non coordinate) azioni di contrattacco verso i barbari incalzanti. Manipoli dei quali, dalle alture circostanti, coadiuvavano l'azione bersagliando con dardi e giavellotti.

Lo stesso imperatore, perso il controllo dell'azione e della propria persona, vagava ferito per il campo di battaglia. Venne raccolto da alcuni della sua guardia e accompagnato ad un casolare nelle vicinanze. Lì si diresse un gruppo di goti in cerca di bottino, i quali, volendo andare per le spicce, per liberarsi degli occupanti, appiccarono il fuoco. Valente morì tra le fiamme. Venuti a conoscenza dell'accaduto da un superstite, i barbari ebbero molto di che rammaricarsi per aver perso un' occasione d' ottenere un cospicuo riscatto da parte di Costantinopoli.