Pubblicità: un'evoluzione giuridicamente guidata
di Irene Raciti
La pubblicità è l'anima del commercio, si sa. Ciò che non si sa, o meglio su cui non si riflette, è che dietro ogni campagna pubblicitaria, sia essa espressa tramite immagini e/o messaggi testuali, c'è un attento studio socio-economico, volto a far si che la pubblicità sia la più efficace possibile, non solo nella sua funzione economica (di tramite tra produttore e consumatore), ma anche nella sua funzione informativa (se non persuasiva). La valenza del messaggio pubblicitario si esplica quindi in più direzioni: la pubblicità può servire infatti ad inserire sul mercato un nuovo prodotto, e quindi influire sulle abitudini del consumatore creando (o contribuendo a creare) un ulteriore bisogno, da soddisfare proprio con quel bene specifico. Ovvero orientare la scelta del consumatore tra diversi prodotti dello stesso tipo, modificando o meglio influenzando i parametri di selezione tra beni concorrenti.
Se riflettiamo su queste diverse finalità ci renderemo conto che non è la pubblicità di quest'ultimo tipo, quella che serve cioè a farci preferire un prodotto rispetto ad un altro, la più insidiosa (essa risponde infatti alla logica del libero mercato che si poggia sulla concorrenza). | |
"BF con biofiltro la protezione massima oggi possibile" Pubblicità ingannevole - Kisinau - Repubblica Moldova |
A dispetto si è comunque sentito il bisogno di dare un contrappeso a tale "orientamento guidato"; da alcuni anni ormai, si cerca di tutelare in qualche modo il consumatore, che nelle sue scelte è inevitabilmente condizionato, fosse anche lievemente e inconsciamente, da ciò che vede e sente. Si vuole pertanto che, in primo luogo, il consumatore sia informato e, soprattutto, che sia informato in maniera veritiera. Risale al 1937 un "Codice delle pratiche leali in materia di pubblicità", varato dalla Camera di Commercio Internazionale e destinato a fare da testo guida alle successive elaborazioni nei vari Paesi europei. Invero, dal dopoguerra in poi, sono sorti organismi di controllo della pubblicità, e, soprattutto in ambito comunitario, sono state emanate diverse normative per regolamentare la produzione pubblicitaria. La particolarità in questo campo sta nel fatto che gli stessi produttori del settore pubblicitario, riuniti in associazioni e federazioni, hanno sentito la necessità di autoregolarsi. In Italia lo fanno nel 1951, presentando il primo "Codice Morale della Pubblicità". A questo se ne aggiungono altri, che però rappresentano tutti dei tentativi ristretti a singoli settori del mondo pubblicitario. Nel 1966 viene finalmente pubblicato il "Codice Morale della Pubblicità" che assumerà, anni più tardi, la denominazione definitiva di "Codice dell'Autodisciplina Pubblicitaria". Fra le sue norme preliminari si legge che finalità del codice è: "assicurare che la pubblicità venga realizzata come servizio per il pubblico" (non quindi solo a scopo promozionale del prodotto), "con speciale riguardo alla sua influenza sul consumatore". E all'articolo 1 viene imposto alla pubblicità di essere: "onesta, veritiera e corretta". Il Codice si compone di 46 articoli, volti a regolare il fenomeno pubblicitario in una molteplicità di aspetti e situazioni (alcuni titoli sono riservati, ad esempio, alla pubblicità di determinati prodotti), dove vengono definite le attività in contrasto con i fini dichiarati dallo stesso, quand'anche conformi alle disposizioni legislative. È interessante, a questo punto, andare a vedere come si autodisciplini la pubblicità quando tratta prodotti potenzialmente dannosi alla salute o la cui propaganda sregolata e indiscriminata sarebbe contraria ai principi suddetti. Un qualsiasi "esperto" del settore vi dirà che i problemi legati alla promozione pubblicitaria di un prodotto potenzialmente dannoso alla salute interessano, non tanto i consumatori abituali di quel prodotto, quanto coloro che non ne fanno (ancora) uso. Il rischio infatti è di legare l'immagine di quel bene a scene di quotidianità del vivere, inserendolo nella normalità di certe situazioni e occasioni; renderlo uno status symbol o un complemento ideale ad una certa personalità o a un certo look. Farlo diventare, insomma, un bene necessario o quanto meno "normale", sì da allontanare il pensiero dai rischi che si corrono usandolo (e abusandone). All'articolo 22 del Codice dell'Autodisciplina, per esempio, si legge: "La pubblicità delle bevande alcoliche non deve contrastare con l'esigenza di favorire l'affermazione di modelli di comportamento ispirati a misura, correttezza e responsabilità. In particolare essa deve evitare di:
- incoraggiare un uso eccessivo e incontrollato, e quindi dannoso, delle bevande alcoliche;
- rappresentare situazioni di attaccamento morboso al prodotto e, in generale, di dipendenza dall'alcol; - rivolgersi o fare riferimento, anche indiretto, ai minori;
- associare l'uso di bevande alcoliche con la guida di veicoli;
- indurre il pubblico a ritenere che l'uso delle bevande alcoliche contribuisca alla lucidità mentale e all'efficienza fisica e che il mancato uso del prodotto comporti un'inferiorità fisica, psicologica e sociale; - indurre il pubblico a trascurare le differenti modalità di consumo che è necessario considerare in relazione alle caratteristiche dei singoli prodotti e alle condizioni personali del consumatore; | |
Le diverse immagini usate per la stessa campagna pubblicitaria - bucarest - Romania |
- usare l'indicazione del grado alcolico di una bevanda come tema principale dell'annuncio.
Una "deformazione professionale" ci spinge ad immaginare che, probabilmente, anche la pubblicità alle sigarette sarebbe, più o meno, così delimitata. Ma è dal 1989 che la Comunità Europea ha bandito la pubblicità del tabacco. All'articolo 13 della Direttiva 89/552/CEE si legge infatti: "è vietata qualsiasi forma di pubblicità televisiva delle sigarette e degli altri prodotti del tabacco". Altre norme sono state emanate in ambito comunitario, questa volta non solo riguardanti la pubblicità televisiva ma anche la promozione attraverso altri canali (carta stampata, sponsorizzazioni, radio). La direttiva 98/43/CE del Parlamento europeo e del Consiglio regolamenta direttamente e indirettamente la pubblicità dei prodotti del tabacco, inclusa la sponsorizzazione. Ma se il consumatore non deve essere invitato al consumo di determinati prodotti è anche giusto che chi li consuma sia messo in guardia sui rischi che corre facendone uso. Come si legge nelle motivazioni che accompagnano tutta una serie di disposizioni legislative comunitarie, in base all'articolo 95 del Trattato, la Comunità contribuisce a garantire un elevato livello di protezione della salute umana…L'azione della Comunità s'indirizza …all'informazione ed educazione in materia sanitaria…Le esigenze di protezione della salute costituiscono una componente delle altre politiche della Comunità. Ecco quindi che pacchetti ed etichettatura delle sigarette devono rispondere a precisi dettami normativi. Questi sono principalmente di due tipi: l'obbligo "d'indicare sulle confezioni di sigarette i tenori di catrame, nicotina e monossido di carbonio; in secondo luogo una serie di avvertimenti devono essere apposti per avvisare i consumatori riguardo agli effetti del consumo di tabacco sulla salute e questi avvertimenti devono essere stampati su tutte le confezioni di prodotti di tabacco". Il consumatore è così avvertito sui componenti nocivi presenti nelle sigarette (per i prodotti del tabacco non sono ancora stati elaborati sistemi standard di misurazione a livello internazionale per catrame, nicotina e monossido di carbonio), e sulle conseguenze per la salute imputabili al consumo di sigarette . Nell'ambito della Comunità Europea si dà per dimostrato che "i prodotti del tabacco contengono ed emettono sostanze nocive ed elementi cancerogeni notoriamente pericolosi per la salute umana quando vengono bruciati. Il consumatore ha il diritto di essere informato della presenza di dette sostanze al momento dell'acquisto o del consumo del prodotto e di avere tali informazioni redatte in modo chiaro, leggibile e comprensibile. Uno dei metodi più efficaci di presentazione di questa informazione è mediante l'apposizione di etichette di precauzione sull'imballaggio dei prodotti del tabacco". Tali requisiti si sono dimostrati con l'esperienza "insufficienti al conseguimento del loro obiettivo, tenuto conto in particolar modo del rischio di assuefazione ai prodotti del tabacco, nonché della complessità e quantità delle informazioni da fornire" come si esplicita in una proposta di modificazione della Direttiva Comunitaria. Adesso ciascuna unità di condizionamento dei prodotti del tabacco, ad eccezione dei prodotti del tabacco per uso orale e senza combustione deve recare una delle avvertenze generali seguenti: "Fumare uccide", "Fumare può uccidere". Sembrerà crudo, ma non lo è più di quanto lo sia la realtà che descrive. Tali testi non possono essere stampati sulla parte inferiore né sulle marche da bollo delle unità di condizionamento, ma devono essere inamovibili, indelebili e non devono in alcun modo essere dissimulati, coperti o interrotti da altre indicazioni o immagini, neanche dopo l'apertura del pacchetto.Inoltre, consapevoli dell'inganno a cui possono condurre certi termini (è questo uno dei principi cardine della difesa dalla pubblicità), si è stabilito il divieto di utilizzazione delle diciture "basso tenore di catrame", "leggero", "ultraleggero", "mild" o altri termini analoghi, che hanno lo scopo o, comunque, l'effetto diretto o indiretto di far ritenere che un particolare prodotto del tabacco sia meno nocivo degli altri. Non a caso alcuni fumatori sono indotti a non smettere di fumare ma semplicemente ad "alleggerire" il vizio o possono essere attratti da questi prodotti nella falsa credenza che essi siano più salutari," mentre in realtà essi continuano a rappresentare un rischio rilevante per la loro salute, in particolare a causa del fatto che per assumere una data dose di nicotina è necessario inalare più profondamente".
Il divieto non è però esteso a quegli Stati membri in cui detti termini siano stati espressamente autorizzati e nei quali i prodotti in questione sono commercializzati oppure fabbricati. Per concludere, dopo questa breve panoramica sulla normativa comunitaria in materia di "indicazioni infor mative" sul tabacco, mi sembra interessante riportare una parte della Direttiva stessa in cui si analizza l'impatto economico della proposta (a cui fece seguito l'emanazione della Direttiva) sulle imprese. Si tratta di una relazione della Banca Mondiale, del 1999. | |
"Io non apprezzo la qualità? " - Braila - Romania |
Ridurre l'epidemia, World Bank, Washington 1999:
"Le asserzioni che imputano ai controlli sul tabacco massicce perdite di posti di lavoro sono di norma basate su studi finanziati dall'industria del tabacco, che tengono conto del numero di posti di lavoro attribuibili al tabacco in ogni settore, dei redditi associati a tali posti di lavoro, del gettito fiscale generato dalle vendite di tabacco, e del contributo del tabacco alla bilancia commerciale nazionale laddove è pertinente. Questi studi considerano inoltre l'effetto moltiplicatore del denaro realizzato dalla coltivazione e dalla lavorazione del tabacco, quale stimolo dell'attività in altri settori dell'economia. Tuttavia, i metodi impiegati in questi studi sono stati oggetto di critiche. In primo luogo, essi valutano il contributo lordo del tabacco all'occupazione e all'economia. Raramente, se non mai, tengono conto del fatto che se la gente smette di spendere denaro nel tabacco, di norma lo spenderà in altri beni, generando così, a compensazione, posti di lavoro alternativi. In secondo luogo, essi amplificano l'impatto di ogni intervento volto a ridurre la domanda, in quanto le loro stime di certe variabili, quali le tendenze che si osservano nel tabagismo e nella meccanizzazione della produzione delle sigarette, tendono a essere statiche. Studi indipendenti sull'impatto del tabacco nelle singole economie sono giunti a conclusioni differenti. Invece di considerare il contributo economico lordo del tabacco all'economia, tali studi calcolano il contributo netto, ovvero i benefici apportati all'economia da tutte le attività connesse al tabacco dopo aver tenuto conto dell'effetto compensatorio di posti di lavoro alternativi che sarebbero generati dal denaro non speso nell'acquisto di tabacco. Da questi studi si deduce che le politiche di controllo del tabacco non avrebbero pressoché alcun effetto negativo sull'occupazione generale, eccetto che in un esiguo numero di paesi produttori di tabacco. Uno studio condotto nel Regno Unito ha riscontrato che vi sarebbe stato un incremento pari a 100 000 posti di lavoro equivalenti a tempo pieno nel 1990 se gli ex-fumatori avessero speso il loro denaro in beni di lusso, e se ogni diminuzione delle entrate fiscali prodotta da misure non fiscali per ridurre la domanda fosse stata compensata dalla tassazione di altri beni e servizi. Uno studio svolto negli Stati Uniti ha rilevato che il numero di posti di lavoro sarebbe aumentato di 20.000 unità tra il 1993 e il 2000 se l'intero consumo interno fosse stato eliminato. Se da un lato vi sarebbero state perdite nette di posti di lavoro nella regione degli Stati Uniti dedita alla tabacchicoltura, il totale nazionale sarebbe incrementato in virtù del denaro liberato dagli acquisti di tabacco e immesso in altri settori dell'economia. Naturalmente, le transizioni industriali possono creare non poche difficoltà e dar luogo a problemi di natura sociale e politica a breve termine. Tuttavia, le economie attraversano molte transizioni di questo genere e questa non sarebbe eccezionale."