Ricordi di un viaggio nel profondo Sud

Dagli appunti di viaggio, estate 1954
I bambini a Pomarico

I primi giorni guardavano i milanesi, così venivamo indicati, un po' con curiosità. I loro visi erano seri. Anche quando giocavano sembravano stessero compiendo un rito. Ce n'erano in tutti gli angoli, seduti sul marciapiede, in gruppi di due o tre. Mangiavano enormi pezzi di pane che avevano appena finito di spalmare con un pomodoro. Spesso avevano come companatico un peperone di quelli che, a non essere abituati, se solo li accosti alla bocca la tieni poi spalancata per dei minuti. E' la loro carne dei giorni feriali: e costano dieci lire l'uno. 
Questi bambini non parlano quando giocano, ma attaccatial muro scavano tra i sassi della strada un po' di terra ed empiono delle scatole di latta trovate chissà dove, perché lì la conserva la fanno tutti in casa e nei negozi trovi solo chie scatole di sgombri.
Dopo i primi giorni hanno imparato a conoscerci: cioè non ci guardano più incuriositi. Quando passavamo con la macchina fotografica ci chiedevano in coro: "Me 'o fai 'u ritratt?" E non si muovevano. Oppure non ci notavano come non avevano notato quel contadino con il mulo che era passato prima di noi. Qualche volta, senza cambiare la serietà dell'espressione, mormoravano 'cappello', intendendo il cappello di paglia che io portavo per il sole.

Il sole li ha resi tutti molto scuri, e non sai più distinguere se si lavano. Tengono gli occhi aperti anche in quella terribile luce del meriggio, nel riverbero dei muri bianchi delle case. Se devono alzare la testa per guardarti, mettono il braccio destro sulla fronte, la faccia un po' china sulla spalla. Così gli occhi possono rimanere aperti. E sono occhi in cui non ritrovi il sorriso. Aperti e grandi. Il braccio nasconde la fronte e non puoi vedere se essa è aggrondata. Se gli vuoi fare una fotografia gli dici di stare così, senza guardare nella macchina. E fanno come dici senza scomporsi e scoppiare a ridere.

Strani bambini, che riempiono ogni angolo in due o tre, o soli, appoggiati allo spigolo di un portone con accanto un maiale sdraiato in siesta pomeridiana. Sono tutti molto piccoli e fanno appena a tempo a fare la terza elementare che già sono grandi, nei campi a cogliere i pomodori. Siedono tra i sassi dell'acciottolato e accanto ai loro piedi scorre un rivolo, testimone delle fogne che non ci sono. I più piccoli sulla soglia della casa con la pancia gonfia tra le mani, seri come quando giocano, impassibili se passi accanto, lasciano per terra i loro rifiuti. I più grandicelli si spostano dalle immediate vicinanze della casa. Qualche volta si ribellano al loro troppo lungo silenzio, alla loro immobilità. E li vedi passare correndo questa volta in molti, con uno o due cani avanti, urlando. Ma accade raramente.

Per terra, accanto alla farmacia, c'è una bilancia, qualche limone e quattro o cinque meloni. Una bambina è lì accanto. E' il primo pomeriggio ed è lì al posto della sorella più grande, che adesso è in casa a cullare l'ultimo fratello.

Peppino è figlio del nostro padrone di casa. Ha tre anni e non riesci a capire come faccia a non scoppiargli la pancia, tanto è gonfia. Piange sempre, disperatamente. E se non piange è perché ha trovato qualcosa da rompere, da fracassare. Spesso ha il pene eretto e se la mamma gli dà dello sporcaccione e uno schiaffo sulla mano, ride di un riso grosso e strano; le uniche volte che ho visto Peppino ridere. Il padre lo tiene sulle ginocchia e gli parla del bicchiere che ha lasciato cadere per terra, che se lo sa la mamma guai. Lo guarda con affetto. Peppino sta rosicchiando una crosta di formaggio pecorino. Si mette a frignare e vuole del vino. Vino pugliese di 17 gradi. Un bicchiere mandato giù d'un fiato, mentre il volto sembra quello di un vecchio beone soddisfatto. Peppino è brutto, cattivo, sembra un vecchio. Tre fratelli nati prima di lui sono morti piccoli.

Antonietta è la sorella di Peppino. Ha otto anni ed è molto bella. La mamma le fa un bel nastro alla mattina quando la pettina, e alla sera è ancora pulita e con il nastro in testa. Se la guardi si nasconde dietro la mamma, vergognosa. Ubbidisce immediatamente ed è subito di ritorno, con i soldi del resto in mano. Gioca con una bambina della sua età. Sono sempre da sole, e dei bambini non se ne accorgerebbero nemmeno se non fosse per Peppino che ogni tanto le fracassa la bambola. Lo fa a poco per volta. Per ora è arrivato a togliere solo le gambe ed un braccio. La bambola non si sente quasi più che dice mamma, per le tante volte che è caduta per terra. Ma Antonietta è buona e sorride di tutto ciò, alzando un po' le spalle. Passo per la strada e mi sento chiamare. Mi fermo e mi giro. E' Antonietta che è nascosta dietro la porta della casa dell'amica. Faccio finta di niente e riprendo a camminare. Di nuovo il mio nome. 

Le bambine sono quelle che più s'interessano di noi. Le vedevi ridere sommessamente tra loro dopo che eravamo passati. Con le bambine eravamo riusciti a chiacchierare. Era più difficile fare loro delle fotografie, perché si mettevano a ridere. E sempre si guardavano tra loro intendendosi coi sorrisi. 

Anna aveva un nastro sulla fronte quel giorno che l'abbiamo conosciuta. I capelli cortissimi, perché aveva avuto il tifo. Un solo orecchino all'orecchio sinistro ed era nerissima di pelle e scalza. Ha fatto la seconda elementare quest'anno e non è troppo brava a scuola. La sorella riusciva bene, ma dopo la terza l'hanno tenuta a casa per aiutare. Il padre fa il bracciante, quando trova, e la madre e la figlia maggiore vanno a spigolare. La madre si trasporta lentamente di qua e di là per la casa, perché è di sette mesi. Ninuccio è il più piccolo per ora, ed è sotto il letto che cerca di acchiappare una gallina. Con Anna ci siamo intesi subito. Non è molto bella con il naso un po' schiacciato, ma i suoi occhi sono vivacissimi. 
Ninuccio che avrà circa tre anni, non ama la nostra compagnia. Preferisce stare a sedere sul gradino della porta accanto, con una ragazzina della stessa età e dagli occhi smisuratamente grandi: come una bambola lenci, con il nastro rosso nei capelli. Le prime volte Ninuccio a guardarlo si metteva a piangere. Poi, presa più confidenza, appena puntavamo su di lui l'obiettivo si alzava di scatto con in mano un bastone e ci legnava di santa ragione. Noi a scansare i colpi ridendo e lui a girare su se stesso feroce. Poi, se non riusciva a prenderci, scagliava lontano il bastone e scoppiava a piangere battendo i piedi per terra per la rabbia. Anna fa per prenderlo e tirarlo in casa, ma lui tira dalla parte opposta fino a gettarsi per terra: e stavolta piange sul serio, con la testa nascosta tra le braccia, lungo disteso per strada, inconsolabile.

Anna quando giravamo il documentario ci ha aiutato molto. Capiva immediatamente cosa volevamo da lei. Era un'attrice perfetta. Bastava dirle in cosa consisteva la scena e lei, niente impressionata dalla macchina da presa, era di una spontaneità incantevole. Anzi, si improvvisava aiuto regista, e se gli altri bambini ridevano o stavano lì impalati si arrabbiava con loro, spiegando cosa dovevano fare. Meglio di noi. In Via S. Annunziata vogliono tutti molto bene ad Anna. Serissima a sedere tra le donne, con un fazzoletto da orlare. Oppure con in braccio Donato di pochi mesi per farlo sorridere, o per cercare di farlo camminare. 

Donato è il figlio di Manuela, una donna separata dal marito e che convive con un vecchio pastore. Donato, o è attaccato alla mammella della madre o dorme su una coperta per terra, con accanto Rosina, un piccolo cucciolo nero. Donato ha una faccia beata. Non sa ancora ridere, ma sorride spesso. Sta volentieri in braccio a tutti, ma Anna è quella che più lo fa divertire. Vedendo Donato ci si meraviglia di come diventerà fra qualche anno: serio e taciturno con la faccia sporca e gli occhi grandi e tristi seduto per terra con gli altri compagni. Per adesso non ha niente di cui lamentarsi. Tra qualche anno forse non avrà ancora molto di cui lamentarsi, ma sarà già diventato vecchio come lo sono tutti i bambini quaggiù. Istintivamente sembra prevedano la loro esistenza futura e non sanno sorridere. Tranne qualche volta, raramente, e subito si ricompongono.

Sembrano troppi i bambini, quaggiù.Vengono al mondo con facilità e non rimane loro altra scelta che morire subito o tentare la sorte in questo mondo. Molti preferiscono la prima soluzione. Vengono al mondo perché ci devono venire, sono amati, si lavora per loro. E il padre lavorerà in un modo che ha del disumano per riuscire a dare ad ognuno dei cinque o sei figli sopravvissuti un pezzo di terra più piccolo di quello che suo padre diede a lui quando si sposò. Forse sarebbe meglio non metter al mondo figli che facciano poi una vita così grama, ma controllarsi è un po' difficile. E poi i figli non sono né un bene né un male, né una grazia né un castigo. Sono figli, e tutti ne hanno sempre avuti. Questa è la visione del mondo del contadino lucano. Così lui continua a metter al mondo figli, troppi per la poca terra che sta intorno, anche se dopo la riforma agraria dovesse rendere il doppio. 

E l'America non vuole più nessuno. E sono pochi anche quelli che riescono ad andare a Milano.