dagli appunti di Lino, estate 1954
Ciccillo, contadino lucano.
La signora Rosa stava parlando. La sua voce,
sottile ed armoniosa, rievocava i tempi in cui era rimasta vedova con tre
figli piccoli. Da sé, sola, li aveva allevati e cresciuti lavoratori
ed onesti, ed ora essi erano sposati e lavoravano la terra lasciata dal
padre e quella acquistata col risparmio.
Il crocchio di persone sedute fuori della
porta di casa era cresciuto. Tra i nuovi arrivati v'era un uomo che ci
guardava con attenzione.
Gli rivolgemmo la parola: "Anche lei abita in questa via?" "Sì -
disse - abito in quella casa", e la indicò. "Fa il contadino?"
Fece cenno di sì con il capo e prese a fabbricarsi una sigaretta.
Disse: "Ma voi che fate a Pomarico?".
Gli spiegammo lo scopo del nostro soggiorno:
volevamo fare un film documentario nel Sud, sulla vita dei contadini, sul
loro lavoro, sulla loro fatica. Parlavamo e lui ascoltava, guardandoci
fisso in viso, con lo sguardo di chi è abituato ad avere il sole
in faccia e tiene il volto un po’ aggrondato. Durante tutto il nostro chiacchierare
niente della sua immobilità tradiva una particolare reazione. Capiva
il perché del nostro viaggio? E se lo capiva, credeva a quanto gli
stavamo raccontando? Noi parlavamo, parlavamo, senza che c'interrompesse
mai. Dicevamo che non eravamo dei professionisti del cinema o dei giornalisti,
ma che facevamo questo lavoro perché, così… ci sembrava
utile a capire gli uomini, a farli capire, se ci fosse riuscito. E sempre
ci guardava senza che si alterasse una piega del suo viso e vi si potesse
leggere assenso o dissenso, scetticismo o credulità, diffidenza
o fiducia.
Dissi le nostre preoccupazioni sulla buona
riuscita del lavoro: che, per esempio, per illustrare il problema della
mancanza di strade, che è così bruciante in Lucania, occorreva
che un contadino andasse al lavoro con noi insieme e si lasciasse pazientemente
cinematografare durante il percorso perdendo magari parecchio tempo, e
quindi non sapevamo dove trovare uno adatto allo scopo.
Tacqui, avevo l'impressione di aver lanciato
dei sassi nel buio della notte senza sapere dove andassero a finire. L'uomo
sorrise impercettibilmente. Disse: "Vengo io, ho finito per ora i lavori
in campagna, posso perdere una mattinata."
A casa, commentando tra noi l'accaduto,
non eravamo troppo entusiasti. L'ometto in questione era assai poco rappresentativo
dei contadini lucani; era più piccolo della media ed il suo volto
non era magro e scavato, ma pieno e gli occhi non erano neri e vivi, ma
grigi e piuttosto inespressivi. Tuttavia ormai era stabilito che venisse.
La sua casa era migliore delle altre, comprendeva
due stanze e la stalla era a parte.
Dal balconcino si spaziava per tutta la
valle sotto fino a Montescaglioso e, lontano molto, fino a Matera.
Arrivò la moglie con la bambina,
una bella bimba di due anni che ci guardò silenziosa e attonita
e poi corse dal papà. Il papà l'accarezzò appena e
continuò la fabbricazione di una sigaretta. La moglie era piuttosto
magra, aveva due gambe sottili e un volto quasi da bambina. Sembrò
non gradire molto l'idea che Ciccillo, il marito, perdesse un giorno gratuitamente
per il nostro misterioso documentario che aveva tutto l'aspetto di un inutile
divertimento. Ma il marito aveva detto sì. Ci chiese però
di fare una bella fotografia alla figlia. Ma non ora, "poi domani", che
era festa e l'avrebbe vestita apposta.
Lenuccia, tra le ginocchia del papà
ci guardava seriamente. "Poi - disse la donna uscendo - una anche a me
ne fate di fotografia."
Il giorno della festa del paese incontrammo
Ciccillo in un bar. Era seduto in disparte, un po’ goffo nel vestito festivo.
Noi cercammo di essere molto espansivi per dimostrargli la nostra amicizia,
ma egli restò un po’ imbarazzato e schivo alle nostre premure, accettò
a malapena una granatina di limone e dopo un po’ si allontanò.Il
mattino stabilito per il viaggio con Ciccillo soffiava un vento stranamente
impetuoso per quella stagione, e all'orizzonte, dalla parte del Metapontino
si profilava qualche nuvola. Ciccillo fu presto pronto. S'era messo il
berretto che usano tutti i contadini del meridione e questo conferiva al
suo volto umiltà e forza insieme. Mise il basto al mulo; era flemmatico
e un poco assorto in tutti i suoi movimenti, che compiva con calma, ma
senza interruzione. Come attore si rivelò superiore ad ogni aspettativa
fin dal primo momento, movendosi con estrema naturalezza anche con la macchina
da presa sotto il naso; questo agevolò molto il nostro lavoro.
Scesi dal paese ci inoltrammo per una mulattiera
polverosa, passando tra burroni e calanchi, in un paesaggio brullo, squallido,
desolato. Ciccillo camminava lentamente, con sicurezza e continuità.
E così il mulo dietro, con sicurezza e continuità. V'era
nei suoi movimenti una istintiva semplicità che appariva quasi solenne,
e quel muoversi e i suoi passi e i passi del mulo parevano scandire il
corso del tempo nello stesso istante rilevarne l'immobilità.
Noi potemmo svolgere agevolmente il nostro
lavoro. Quando
era necessario sostare per studiare una scena o una inquadratura, Ciccillo
si fermava in una immobilità paziente e quasi assoluta per attendere
che noi fossimo pronti. E anche il mulo restava immobile. Visti da lontano,
così fermi, tra quei terreni tormentati e senza un segno di vita,
Ciccillo e il suo mulo sembravano l'immagine dell'attesa rassegnata e muta,
e nel vederli così sentivamo il bisogno di scusarci per l'eccessivo
disturbo. Ma Ciccillo rispondeva con un piccolo gesto del capo e della
mano per significare che non era nulla, di non preoccuparsi.
Quando arrivammo ad una casetta, una specie
di capanna fatta di sassi tenuti assieme con poca malta che era il suo
riparo in campagna, il sole era ormai alto e ferocemente illuminava e scaldava
ogni cosa. Lontano pochi chilometri si intravedeva il letto del Bradano
quasi in secca; molto più in là, su uno sperone montuoso,
Montescaglioso. Ovunque la terra ove il grano era stato raccolto, era riarsa.
Solo gli ulivi mettevano una nota di verde in quella uniformità
un pò abbacinante. Ma la casetta di Ciccillo era fresca e fresca
era pure l'acqua della cisterna.
Ciccillo liberò il mulo dal basto,
prese un secchio d'acqua, raccolse qualche pomodoro, poi venne nella casetta
dove ci accingemmo a fare colazione. Il tavolo era uno sgabello a tre gambe.
Ciccillo tagliò il grosso pane lucano a fette. Mangiammo, bevendo
a canna il vino o l'acqua fresca del secchio.
Tutte queste operazioni Ciccillo le compiva
con la usuale pacatezza. Noi eravamo un po’ stanchi e mangiavamo in silenzio.
Il taciturno Ciccillo aveva fatto scuola. E invece a rompere il silenzio
fu proprio lui.
Aveva 28 anni e lavorava sul suo. Ogni
anno metteva da parte qualcosa e quando aveva ammucchiato abbastanza comprava
nuova terra.
Noi ascoltavamo alquanto stupiti; ci eravamo
abituati ad un fare taciturno, ad una scarsa emotività e ora ci
sembrava strano, senza che nessuno avesse detto niente per stimolare le
confidenze, che Ciccillo parlasse spontaneamente della sua vita.
Parlava tra un boccone e l'altro, pacatamente,
e anche nel parlare come in tutte le sue cose sembrava un po’ astratto.
"Mio padre, quando sposai, non mi dette
quasi nulla, perché c'era l'altro fratello da far studiare. Ho dovuto
fare tutto da me; ogni anno ho risparmiato qualcosa. Si rinuncia a molte
cose. Così: le galline, noi abbiamo molte galline, fanno le uova,
ma pensiamo: un uovo sono 25 lire, non le beviamo, le vendiamo e mettiamo
da parte, e così è tutto."
"Ma non si può rinunciare
a tutto, sempre. A un certo punto a cosa serve mettere da parte? " Sorrise
come ad una ingenuità: "Ci sono i figli. Si fa per i figli. Non
si può lasciarli senza niente."
Gli domandammo se ne voleva molti. Ancora
sorrise e alzò lo sguardo al cielo. "E' la moglie che ti frega.
Torni a casa e vai appresso alla moglie. Ma come si fa!? Io appena sposato
stavo a Montescaglioso, mia moglie è di là, e così
alla sera non uscivo, perché bere non mi piace e stavo in casa.
Certe volte andavo al cinema. Là il cinema è buono. A Pomarico
no, c'è frastuono e non capisci niente. A Montescaglioso invece
è buono e anche i film sono buoni. Così ho visto Luna rossa,
La fanciulla di Pompei ed altri"
Parlammo di cinema e poi ancora sulla
vita dei contadini, sulla loro vita e sulle loro speranze per il futuro;
dissi che però io dovevo ancora fare il servizio militare. Ciccillo
che ascoltava come sempre impassibile e senza mai commentare, disse che
l'avevano scartato per il servizio militare per la statura troppo bassa
e quindi aveva perso anche quell'unica possibilità di vedere un
pò il mondo fuori della Lucania. "Perché così uno
almeno ha qualcosa da ricordare e da parlerne".
Lo invitammo a Milano a casa nostra: "Spende
10000 lire di viaggio e per l'alloggio e tutto pensiamo noi." Sorrise.
Ora era tardi: la moglie, la figlia. Era tardi per muoversi. E la sua voce,
già così misurata parlando della famiglia si colorava di
una nuova saggezza.
Capimmo che la sua vita ormai era quella:
il lavoro nei campi a tre ore di strada dal paese, e alla sera nel
chiuso della famiglia. Sempre in Pomarico. Qualche volta per una sagra
o un affare (una volta o due all'anno) nei paesi vicini o a Matera. Sempre
sotto il cielo di Lucania.
Noi tacevamo ormai perché v'era
nell'esprimersi semplice di Ciccillo una potenza convincente e tale da
far meditare e commuovere e riempire di uno strano senso d'orgoglio. Difatti
nel tratteggiare la sua vita non c'era nessun pietismo per se stesso e
nessun vano desiderio di evasione in un mondo diverso. Egli era ben calato
nella sua realtà e desiderava solo migliorare quella.
Girammo molta pellicola cercando di illustrare,
semplicemente e umilmente, quel solo problema: della lunga e dura strada
per andare a lavorare un arido pezzetto di terra. Problema che era uno
dei tanti della comunità di Pomarico, ma pensammo fosse bene limitarsi
a quello, data l'esperienza incompleta su altri problemi anche per il poco
tempo a disposizione. Anche così però c'era tutto il senso
di quel mondo in cui eravamo vissuti ormai per quasi un mese, quelle amicizie
semplici che ci eravamo venuti facendo, quella vita così diversa
dalla nostra di lassù, forse più inutile, forse più
saggia.
Tutte queste sensazioni avremmo voluto
mettere nel documentario, ma era un'impresa superiore alle nostre forze.
Più tardi, forse, rivivendo interiormente quella esperienza avremmo
potuto raccontarle. In quei giorni tutto era così immediato in noi
che potevamo fare solo una cronaca. Inoltre, sentivamo il mezzo cinematografico
ancora troppo lontano per noi per un simile compito.
Quando salutammo Ciccillo il giorno prima
di partire eravamo un po’ tutti commossi. Lo raggiungemmo in campagna dov'era
per dissodare il terreno intorno agli ulivi e lo trovammo che stava facendo
colazione sotto una pianta: pane con su spremuto un pomodoro. Anche il
mulo brucava lì vicino tra l'erba magra e disseccata dal sole. C'era
un po’ d'ombra sotto gli ulivi mentre tutt'intorno il sole dardeggiava
violento, e Pomarico si stagliava netto contro un cielo di un azzurro crudele.
Giù per la valle del Bradano con lo sguardo si arrivava a vedere
il mare come in una remota lontananza.
Ciccillo ci offrì di spartire la
sua colazione. Gli dicemmo che eravamo scesi dal paese per ringraziarlo
ancora una volta e per salutarlo perché sarebbero partiti il giorno
dopo. Ciccillo ci ascoltò gravemente, poi dopo un poco disse: "Mi
spiace che ve ne andate: ormai ho preso questa affezione per voi e mi dispiace.
Se tornate un'altra volta dovete venire a casa mia, così vi posso
ospitare meglio, e se venite in settembre è meglio, in campagna
c'è la frutta, l'uva."
Noi gli dicemmo che era già stato
troppo il favore fattoci e che difficilmente saremmo tornati a Pomarico;
ma che gli avremmo scritto e se fossimo tornati sarebbe stato un grande
piacere essere suoi ospiti.
Quando arrampicandoci per la mulattiera
e voltandoci lo vedemmo che ci salutava ancora con la mano di lontano,
ci sentimmo stringere un po’ il cuore. Ciccillo era un vero amico, e ci
venne fatto di pensare che molto probabilmente non lo avremmo visto mai
più.
La sera prima della partenza, fissata per
le quattro del mattino, eravamo a cena da Don Mariano Castellano il possidente
napoletano che con la consorte s'erano prodigati a renderci facile la vita
in paese. Donna Jole aveva fatto preparare in terrazzo e di là ci
si perdeva in un buio profondo senza confini. Brillavano solo le luci lontane
di Pisticci e di Stigliano. Tutto il resto era buio e silenzio; buio
sui
campi, sui sentieri franosi, sulle crepe del suolo. Numerosissime le stelle
in cielo e ciò creava uno strano contrasto con la terra uniformemente
nera fino al limite dell'orizzonte.
La conversazione era quanto mai amabile
e verteva sull'esperienza pomaricana e sulle amicizie fatte. Parlammo quindi
soprattutto di Ciccillo, del suo modo flemmatico, della sua natura sentimentale,
chiusa e incapace di esprimersi, dell'amicizia che s'era progressivamente
irrobustita e cementata tra noi.
Era già ormai mezzanotte. Qualcuno
bussò. Sentimmo una voce dal vicolo: "Don Mariano, sono lì
i milanesi?" Era Ciccillo. Corremmo ad aprirgli. Non volle salire perché
c'era il mulo fuori. Rimanemmo sull'uscio. Ciccillo doveva andare in certi
suoi campi lontani, verso Bernalda, e partiva a quell'ora per essere là
alle quattro. Ci aveva cercati nella casa dove abitavamo alle nove ma noi
non c'eravamo.
Ciccillo ci porse un fazzoletto con delle
uova dentro. " Ecco - così parlò - le bevete domani
mattina. Sono dispiaciuto di non poter far di più. Se vi fermavate
ancora un poco, c'erano i fichi, l'uva…"
Ci guardammo in viso, perplessi: "Ma come
Ciccillo, dopo che t'abbiamo così disturbato…" Fece un gesto come
per dire che era stata una cosa da nulla.
Ci fu un attimo di silenzio, in cui ci
guardammo uno in faccia all'altro col desiderio di dire qualcosa senza
sapere che. Ciccillo ci porse la mano e la strinse. Prese il mulo per la
cavezza, ci fece ancora un cenno con la mano e si avvio.
Noi lo accompagnammo con lo sguardo fino
a vederlo sparire nella notte con il suo mulo, verso le lontane terre di
Trincinaro.
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