introduzione innovazione pt.1a innovazione pt.2a innovazione pt. 3a |
Riflessioni sulla ricerca e sull’innovazione tecnologica
Interventi su il Sole 24 Ore
Parte IIIa: Idee per pianificare l’innovazione
|
3.1 E ora inventiamo il mondo degli oggetti
Dai processi produttivi ai beni: un'ipotesi per rilanciare il ruolo dell'innovazione tecnologica nella Cee
Fino agli anni ’60-‘65 l’occupazione nel settore industriale in Europa ha visto un progressivo aumento utilizzando le risorse di manodopera uscenti dall'agricoltura. Il calo successivo dell'occupazione nel settore dell’industria non aveva molto preoccupato una economia in sviluppo anche grazie alla teoria del sociologo americano Bell dello sviluppo della società post–industriale che avrebbe visto un aumento corrispondente dell'occupazione nel terziario. Ed in effetti l'occupazione nel settore dei servizi è cresciuta in tutti i paesi industriali. La parola d'ordine, aumentare la produttività nell'industria, non portava a grosse preoccupazioni finché la riduzione di occupazione poteva venir bilanciata dalla crescita dei terziario.
A dire il vero negli Stati Uniti qualche critica è stata fatta, in particolare da Forrester, l'inventore della «dinamica industriale», seguendo il filo di una certa logica: che cosa ci guadagna il sistema economico generale dall'aumento di produttività industriale se l'occupazione aumenta in un settore come il terziario tradizionalmente ad efficienza molto bassa? La produttività globale del sistema cresce o diminuisce? Il ragionamento di Forrester può far meditare nel caso di un sistema economico omogeneo e chiuso alla concorrenza di sistemi esterni a più alta produttività nei singoli campi industriali. Lo shock dell'invasione giapponese nel mercato Usa, in particolare per alcuni prodotti come l'auto, ha fatto piazza pulita dei dubbi. La crescita di competitività è tornata ad essere la preoccupazione principale, richiamando in alcuni casi addirittura Io spirito di crociata di cui sono capaci gli operatori Usa.
In Europa, in ogni singolo paese ed a livello comunitario, la crescita di competitività è giustamente considerata l’unica soluzione per mantenere il sistema comunitario come sistema aperto. Tuttavia l'incremento della disoccupazione mostra che la compensazione del terziario non è più sufficiente. Se nel breve termine non vi è alternativa all'aumento della produttività, in un mercato saturo, con le negative conseguenze sui livelli occupazionali, che possibilità vi sono per il più lungo termine? Da più parti si guarda all'innovazione tecnologica come a uno degli ingredienti base di una politica industriale in linea con i tempi. Qual è il ruolo che sta giocando attualmente l'innovazione tecnologica?
La diagnosi è abbastanza concorde, come dimostra anche una indagine svolta con il metodo Delfi dalla Fondazione Agnelli.
Stiamo vivendo un periodo in cui l'innovazione tecnologica è prevalentemente indirizzata sui processi produttivi mentre per i prodotti, salvo quelli pervasi dalla rivoluzione informatica, troppo piccola è la derivata di innovazione tecnologica.
Questa diagnosi interpretata alla luce del modello di ciclo prodotto-processo (messo a punto prima da Christopher Freeman e successivamente ripreso da Abernathy e Utterback) significa che il grosso dei prodotti vive la sua fase di maturità. L'innovazione, in questo caso, è prevalentemente rivolta alle piccole conquiste, cumulatesi gradualmente, volte alla riduzione costi e al miglioramento qualità più che al rinnovamento radicale dei prodotti.
La teoria, supportata dall'esame di una serie di casi storici, mostra che quando un prodotto radicalmente nuovo sostituisce quello maturo, il mercato accetta di pagare un extra costo per la novità, accettando quindi basse produttività e metodi di produzione inefficienti. Solo successivamente il prodotto nuovo supererà anche come costi più bassi, oltre che più alto valore, il prodotto maturo.
La ricetta sembra quindi semplice, ed in effetti comincia a venir propagandata: spostiamo l'innovazione tecnologica dai processi produttivi ai prodotti.
Tra l'altro fa meditare e temere il peggio per il lungo termine l'attenzione che il Giappone sta dando alla ricerca ed allo sviluppo in nuovi settori. Più difficile è mettere in pratica la ricetta.
Vi è in Europa, Italia inclusa, sufficiente imprenditorialità perché le opportunità che si presentano sulla spinta del progresso tecnologico vengano percepite e sviluppate. Se si lamentano troppo poche iniziative al riguardo le ragioni possono essere legate quindi o al fatto che il «portafoglio delle idee» è vuoto, o che le opportunità sono sì riconosciute ma non possono essere sviluppate sulla base della pura imprenditorialità per difficoltà legate al sistema in cui si opera. Una di queste è certamente legata alla difficoltà di reperire i finanziamenti necessari.
Vorrei qui soffermarmi invece sa una difficoltà di natura diversa più globale, legata alla crescente «complessità» del sistema in cui viviamo. I rivoluzionari mancati del '68 avevano intuito la potenza rivoluzionaria di cambiare il «mondo materiale» (il mondo degli oggetti prodotti dall'uomo, al servizio dell'uomo). Il titolo di un libro scritto da Maldonado, designer - filosofo, sull'onda emotiva del '68, è significativo al riguardo, "La speranza progettuale". La ricetta proposta allora del piccolo è bello, del ritorno alla natura, non ha apparentemente funzionato e la speranza progettuale di cambiare il mondo dei prodotti non si è realizzata.
Il problema, tuttavia, potrebbe presentarsi con maggiore criticità nel futuro, man ma- no che la «complessificazione» della società aumenta. Non dimentichiamo che molti dei prodotti attuali sono stati concepiti decenni addietro per svolgere funzioni definite per soddisfare bisogni dell’uomo in una società molto meno densa i cui vari «sotto-sistemi» (l'abitare, il produrre, il muoversi, il divertirsi) erano molto più disaccoppiati di quanto non sia adesso. Non vi è dubbio che i nuovi fabbisogni che derivano dal rendere più «vivibile» una società più complicata verranno via via soddisfate grazie anche alle nuove possibilità tecnologiche. La transizione non sarà tuttavia rapida.
C'è da chiedersi fino a che punto è possibile sviluppare un'azione «propositiva» che cerchi di anticipare i tempi della transizione riducendo i pericoli di crisi per l'uso di «vecchi» prodotti in un mondo «nuovo». Un passo avanti in questa direzione verrebbe fatto qualora si arrivasse a definire i «cahier des charges», le specifiche, per i nuovi prodotti. Ma qui sta appunto la difficoltà.
Un altro punto importante per porsi il problema delle specifiche dei nuovi prodotti, è quello dell'area di mercato nazionale, quello comunitario o quello mondiale. L'ambito nazionale sembra troppo stretto anche solo per comprendere i cambiamenti che la «complessificazione» della società attuale produrrà. Quello mondiale è troppo eterogeneo. L'Europa, sia per le dimensioni del mercato, sia per le varietà delle situazioni che permettono di meglio valutare le alternative aperte all'evoluzione sociale, sembra essere l'area più adatta.
Viene qui suggerita allora una
proposta: la Commissione Cee, usando degli strumenti di cui dispone, prenda una prima iniziativa esplorativa al riguardo. L'obiettivo della prima tappa non troppo costosa, è di identificare le "specifiche" per una serie nuovi prodotti che rispondano alle nuove esigenze che emergono dalla interazione sempre più stretta tra alcune delle funzioni primarie: abitare, muoversi, educarsi, lavorare, divertirsi.Un esempio di problema per cui non si è ancora trovata soluzione soddisfacente è quello della migliore interazione tra l’automobile e la casa (in particolare nei vecchi centri urbani), tra l'automobile e i sistemi di trasporto collettivi. La definizione delle specifiche per una "nuova automobile" può essere fatta solo se si esamina l’intero sistema e se si accetta di intervenire e ridisegnare le infrastrutture.
Quale potrebbe essere, ad esempio, l'impatto positivo sul trasporto terrestre di persone, di un sistema auto-treno disegnato per permettere l'accesso con la propria auto sul treno che richieda un tempo paragonabile - e la stessa semplicità - che ha attualmente il viaggiatore a piedi ad acquistare il biglietto e salire sul treno? Per risolvere il problema non si tratta di inventare tecnologie nuove ma di definire vincoli e specifiche relative ai vari componenti del sistema.
La Commissione CEE potrebbe, per esempio, lanciare una serie di concorsi per lo sviluppo di prodotti nuovi. Rispetto ai precedenti casi, si propone tuttavia (volendo esaminare in particolare il problema della interazione tra i vari sottosistemi e l'emergere di fabbisogni nuovi che ne derivano) una procedura a due stadi.
Il metodo convenzionale consiste nell'esaminare i vari progetti presentati al concorso e scegliere il «migliore». Partendo da una specificazione generale più o meno chiaramente definita contenuta nel bando del concorso, il progettista, realizzando il disegno, produce una soluzione «concettuale» che soddisfa i vincoli del bando, ma che dà anche una sua interpretazione analitico - sintetica del problema reale, così come «vissuto» dal progettista stesso. Ogni progettista dà una «lettura» ed una interpretazione diversa dei fabbisogni da soddisfare. Si può analizzare il progetto e dedurne a posteriori quale è stata la interpretazione, spesso intuitiva, del progettista.
Rispetto ai concorsi convenzionali, si propone che dopo un primo stadio del tipo sopradetto, con un vincitore per ogni paese della Comunità, vi sia un secondo stadio in cui i progetti dei vincitori vengono analizzati in dettaglio e confrontati per costruire una «specifica» che tenga conto delle varie intuizioni, spesso unilaterali, di ogni progettista. Questa nuova specifica può essere utilizzata per un eventuale nuovo concorso di progettazione.
Il costo di una operazione come quella proposta dovrebbe rientrare nelle possibilità delle frange del budget attuale della Cee di ricerca e di studi: con 10-15 miliardi di lire, ripartite su 2-3 anni, si potrebbe supportare una decina di progetti per un primo portafoglio di idee.
Da Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 1982
3.2 Non c'è solo informatica nel futuro di Esprit
Il programma comune di ricerca costerà all'Italia 150 miliardi
Che si parli molto della innovazione, che ci si attacchi in modo accanito agli effetti taumaturgici delle tecnologie avanzate, è certo segno della disperazione dei tempi. Anche perché uno si aspetterebbe di sentire parlare di tecnologie avanzate e innovazione in un quadro di baldanzosa aggressività, mentre invece di regola fa da contraltare un discorso parrocchiale sulla scarsità di soldi, su una contabilità analitica di dare e avere tra aziende e Paese, tra Paese e Comunità europea, tra Paese e Paese con sospetti reciproci che sotto la bandiera della ricerca si nasconda un semplice aiuto a barche che stanno affondando.
Nel dibattito comunitario l'Italia è in prima fila nel sostenere la necessità di puntare su tecnologie avanzate, informatica in testa. Mi chiedo fino a che punto ciò riflette una effettiva problematica italiana, o è, più semplicemente, una nuova fuga in avanti rispetto ai problemi reali. Confesso che l'analogo dibattito francese, mi dà più fiducia di essere fondato su un genuino interesse di comprendere e riflettere i punti di forza e debolezza dei Paese. Sono
i francesi infatti che hanno avuto il coraggio di lanciare dei piani "verticali" dalla ricerca alla dimostrazione, alla mobilitazione della domanda pubblica in settori come l'informatica, come l'energia nucleare.Il successo e l'insuccesso di tali piani, nel caso francese, non è certo dovuto alla mancanza di decisa e coordinata azione a tutti i livelli. All'azione coordinata segue o precede, e comunque accompagna, un dibattito di razionalizzazione raramente improvvisato o d'occasione. Il dibattito sul concetto di 'filiera" o su quello alternativo delle "nicchie" specialistiche è portato avanti in prima fila da persone che hanno il potere di applicare le loro idee. In ogni caso, si sente chiaramente la volontà di incidere (magari partendo da basi ideologiche e con tutti i rischi dei caso) sulla realtà dei Paese.
La realtà italiana, i nostri punti di forza e debolezza, sono diversi da quelli della Francia, della Germania, dell'Inghilterra. L'applaudire le idee e le proposte più avanzate è da una parte segno positivo in quanto denunci la nostra volontà di cambiamento. Dall'altra è segno fortemente negativo, e comunque non contribuisce alla ricerca di una soluzione europea ai problemi di una Europa fatta di realtà eterogenee, in quanto troppo lontana dalla realtà di un Paese come il nostro.
Ho vissuto negli anni Cinquanta - Sessanta da giovane inesperto (tuttavia ero in buona compagnia) l'illusione nucleare. Che bastasse cioè comprendere i segreti scientifici dell'energia nucleare per trasformarla in un fatto di innovazione industriale. La Francia ha avuto più successo non solo dell'Italia, ma anche di altri Paesi nel settore nucleare, perché ha considerato e ha fatto lo sforzo necessario su tutto l'arco che dalla ricerca va al!o sviluppo, alla dimostrazione, al piano di committenza pubblica. Non posso non rimpiangere di avere dedicato 20 anni della mia attività professionale alla "frontiera nucleare", in un Paese che dopo 30 anni non ha ancora realizzato un solo prototipo di centrale nucleare dimostrativa delle capacità globali della tecnologia italiana.
Mi chiedo se la "pelle d'oca" che ci spingeva allora a entusiasmarci per la nuova frontiera, non sia anche ora un pò responsabile degli applausi incondizionati alle nuove tecnologie, informatica in testa.
Siamo forse più degli altri capaci di percepire in anticipo, e di entusiasmarci ai cambiamenti che stanno avvenendo nello spazio sociale e tecnologico. Ma non basta saper descrivere bene lo scenario futuro per riuscire a trasformare dall'interno la nostra società per sfruttare come o prima degli altri i cambiamenti. Quanto più grande è la distanza che separa la condizione presente da quella dello scenario, tanto più ampia, coordinata, intersettoriale, determinata e di lunga lena è l'azione necessaria.Il discorso fin qui fatto è generale, e forse sarebbe bene rimanesse tale. Tuttavia, solo a titolo di esempio per chiarire meglio il senso dell'appello generale, vorrei citare il contributo che l'Italia (come Paese e non come singole aziende interessate a questo o a quell'aspetto) sta dando al programma Esprit della Comunità Europea. Mi sembra che il plauso sia incondizionato, contribuendo a far pensare che finalmente la ricerca Cee ha infilato una strada coraggiosa e piena di promesse. Può darsi. Tuttavia mi piacerebbe venisse discusso più a fondo il contributo che il programma potrà dare allo sviluppo delle capacità industriali italiane.
Se c'è un punto di forza della nostra industria è quella di avere capacità di trasformazione, in prodotti o processi concreti, idee e tecnologie avanzate già sviluppate da altri. Non mi sembra che possiamo vantare particolari capacità di costruire un ponte diretto tra ricerca di base, sviluppo di nuove filiere industriali e fornitura di componenti e tecnologie intermedie, strategiche per lo sviluppo industriale. In ogni caso, nel limite in cui abbiamo buone capacità di trasformare in prodotti finiti tecnologie e componenti intermedi sviluppati da altri, chiediamoci fino a che punto Esprit aiuterà l'industria italiana a cogliere le opportunità di inserire la micro-elettronica e le tecnologie informatiche per rinnovare i prodotti convenzionali o meno, che rappresentano la spina dorsale della nostra capacità industriale.
Il grosso del programma Esprit è orientato sullo sviluppo delle tecnologie interne all'informatica stessa. Le applicazioni riguardano il trattamento dell'informazione come tale (automazione degli uffici), e si estende nel campo in cui l'applicazione è asservita ad altre utilizzazioni solo per quanto riguarda l'automazione e la robotica. E' un campo senza dubbio molto interessante e di vitale interesse per noi. Tuttavia non è il solo campo applicativo. Vi è anzitutto il campo dei servosistemi in generale (pneumatica, idraulica, controllori), poi tutta una serie di prodotti, dagli elettrodomestici ai veicoli in cui l’elettronica giocherà un ruolo importante di trasformazione e rinnovamento.
Qual è il ruolo che in generale avranno in Esprit gli utilizzatori della microelettronica e delle tecnologie informatiche? Se l'Italia ha problematiche particolari da sollevare e far presente nella discussione in corso per l'assetto finale dei programma Esprit, forse un atteggiamento critico può essere più costruttivo, nell'interesse dello sviluppo dell'intero programma e della tecnologia informatica in Europa, che un plauso incondizionato.
Può darsi tuttavia che sia tardi per modificare il programma Esprit. Può darsi inoltre che l'industria italiana interessata riesca a dimostrare che il nostro interesse nel programma così com’è configurato è pari almeno all'impegno finanziario italiano. Val la pena di ricordare le cifre. In cinque anni l'Italia, attraverso i finanziamenti alla Cee, contribuirà al programma Esprit con circa 150 miliardi di lire. Tenendo conto che la Cee sosterrà al massimo il 50% delle spese della ricerca, le aziende interessate italiane dovrebbero essere in grado di ottenere contratti per circa 300 miliardi di lire in 5 anni, di cui il 50% a loro carico. Anche senza volere applicare alla lettera la regola del giusto ritorno, questo è l'ordine di grandezza.
Se è tardi per modificare il programma Esprit, non è tuttavia tardi per
definire un programma di azione e interventi in Italia che assicurino la diffusione della microelettronica e delle tecnologie informatiche nei settori e nei prodotti più convenzionali, non coperti dall'azione Esprit, e più vicino alle necessità di far leva sulle nostre risorse e tenendo conto delle caratteristiche della nostra industria. Mi sembra che un'azione significativa dovrebbe prevedere risorse paragonabili alla partecipazione italiana in Esprit. Quindi un programma di 300 miliardi di lire su un arco di 5 anni, di cui metà come contributo pubblico.Possiamo cominciare a parlarne?
Da Il Sole 24 Ore, 26 Novembre 1983
3.3 I pezzi mancanti di Esprit
Il programma CEE sulle tecnologie dell'informazione presenta numerose lacune ancora da colmare. Mancano strategie, precise nei sistemi domestici e nei servizi basati sull'intelligenza artificiale
E' dal1971 che la Commissione Cee sta occupandosi, con impegno crescente, delle tecnologie dell'informazione. Dalle sue prime iniziative, centrate, sui servizi informatici specializzati, fino al varo di Esprit, la politica della Comunità è stata contrassegnata da un graduale «apprendimento» delle nuove tematiche tecnologiche. Ed è questo, in estrema sintesi, il quadro entro cui nasce Esprit, il più grande progetto di R&S fIno ad oggi lanciato dalla Cee al di fuori del settore nucleare.
Esprit, secondo la Commissione, ha due obiettivi fondamentali: rispondere alle esigenze degli utilizzatori per lo sfruttamento delle potenzialità della Tai «Trattamento avanzato delle informazioni» (il che richiede ricerche per lo sviluppo della microelettronica, del software e dell'architettura dei sistemi di elaborazione: sono rispettivamente i primi tre temi di Esprit) e sviluppare i mercati più importanti (automazione degli uffici, automazione della produzione: rispettivamente il quarto e quinto tema Esprit).
L'ambizioso ruolo strategico dichiarato di Esprit è di permettere all'industria europea di raggiungere la parità tecnologica, o di superarla nei confronti dei concorrenti mondiali.
Per meglio valutare il programma Esprit, cosi come appare dalla lettura dei documenti Cee, per delinearne limiti ed efficacia, è opportuno fare un esame parallelo del settore delle Tecnologie dell'Informazione e delle sue caratteristiche. Anzitutto per esaminare se vi sia corrispondenza tra la ripartizione merceologica (secondo i due punti di vista della offerta e della domanda) e la articolazione in grandi temi di Esprit.
In effetti tale corrispondenza esiste, salvo l'esclusione da Esprit delle applicazioni nella elettronica di consumo e nella strumentazione e controllo di prodotto (ad esempio veicoli). Inoltre non si parla in Esprit dei fabbisogni R&S per i servizi di informazione, anche se va riconosciuto che iniziative al riguardo sono incluse nel programma pluriennale informatica e nelle proposte per telecomunicazioni.
In generale, va notato che l'analisi del mercato del «data processing» in Europa conferma la debolezza dell'insieme delle aziende europee rispetto al gigante IBM. Le strategie aziendali delle prime sembrano dover venire confinate alla specializzazione. Da qui una conferma del ruolo ambizioso, ma essenziale di Esprit. Il primo tema di Esprit, «microelettronica avanzata» corrisponde alle preoccupazioni del crescente distacco tecnologico (riflesso nel decrescente ruolo sul mercato) per la produzione dei circuiti logici a grande integrazione. Va ricordato infatti che vi è una stretta rispondenza tra le generazioni successive dei calcolatori e le generazioni successive della tecnologia dei componenti. La quinta generazione (processamento parallelo dei dati e «intelligenza artificiale») sarà resa possibile dalla disponibilità di microcircuiti ad integrazione molto grande (Vlsi).
Il primo tema di Esprit non trascura nessuna delle principali tecnologie per
la microcroelettronica (Mos, bipolari, arseniuro di gallio, optoelettronica).
Non è tanto la completezza che preoccupa quanto la sproporzione rispetto alle
risorse disponibili.
Il settore del «trattamento delle informazioni» (Edp, electronic data
processing) si è venuto sviluppando - con l'evoluzione della tecnologia con
l'offerta di sistemi di elaborazione adatti con il loro corredo di programmi
caratterizzata da una molteplicità di calcolatori diversi (più o meno grandi,
intelligenti o stupidi) - verso un settore in cui l'offerta si configura per
quanto riguarda i sistemi di elaborazione in tre classi: sistemi molto grandi;
sistemi mini di uso generale; computers personali e terminali
intelligenti. Per quanto riguarda i software di applicazione, si sono
sviluppati dei veri e propri prodotti (program products) di massa, in
particolare per l'uso con personal computers. Tutto ciò accanto al
continuo sviluppo della fornitura di servizi di assistenza per la
programmazione. Inoltre è in continua crescita anche la vendita dei servizi di
trattamento dati.
Il secondo sotto-programma di Esprit, «Tecnologia del software», ed il terzo sotto programma, «Tecniche avanzate di trattamento delle informazioni», dovrebbero corrispondere alle esigenze di R&S del settore Edp. Dall'esame dei documenti Cee, si ha l'impressione che il tema dello sviluppo della tecnologia, sia del software sia espresso in termini molto vaghi e generali. Ciò dipende forse dalla necessità, per un programma di R&S pre-competitiva come vuole essere Esprit, di stare lontano dai problemi applicativi dove più viva è la concorrenza industriale. Rimanere lontani dai problemi reali può essere tuttavia fatale per un programma di R&S, dove il mercato ha già grandi dimensioni e connotazioni ben precise.
Il terzo sotto-progamma Esprit è il più ambizioso, in quanto si riferisce allo studio delle nuove architetture di calcolatore per l'applicazione dell'«intelligenza artificiale» (sistemi che trattano conoscenze e non solo dati). Anche in questo caso, il programma è formulato in modo vago, senza un obiettivo verticale focalizzato su realizzazioni prototipo, come sembra invece essere il programma giapponese per un calcolatore di 5a generazione.
L'automazione dell'ufficio evolve rapidamente verso una semplificazione
rispetto all'attuale mix di prodotti, spesso non compatibili fra loro. Tre
saranno forse le nuove «macchine» che sostituiranno quelle esistenti; la
stazione di lavoro, la copiatrice intelligente ed il centralino universale. Il personal
computer avrà un suo ruolo importante per uso diretto del personale non
addetto ai lavori di segreteria. Infine un elemento vitale è il sistema interno
di trasmissioni dati-voce-immagine (rete locale a banda larga). Il mercato è
tuttavia fluido e dovrebbe assestarsi verso la nuova soluzione tecnologica i
nella secondi metà degli anni '80.
E' spettacolare intanto la diffusione delle macchine word processing in
sostituzione delle macchine da scrivere. A questo campo di applicazione si
riferisce il quarto sotto-programma Esprit «sistemi per ufficio» che prevede
sia uno studio sistematico delle esigenze, sia la realizzazione di esperienze
pilota con componenti soft e hard esistenti, oltre allo sviluppo
di alcuni di tali componenti. Mentre il programma riconosce come importante il
problema del posto di lavoro e della rete di trasmissione dati, non si fa
menzione specifica dello sviluppo delle tre componenti essenziali: stazioni di
lavoro, copiatrice intelligente, centralino universale. In particolare, non è
menzionato in modo specifico lo sviluppo della copiatrice intelligente.
Probabilmente, il programma intende affidarsi agli apparecchi forniti dal
mercato. Il programma inoltre è orientato verso i problemi degli uffici
amministrativo-commerciale. Non si fa menzione dei problemi particolari degli
uffici tecnici.
L'ultimo dei sotto-programmi Esprit è dedicato ai problemi d'i integrazione dei calcolatori nell'intero sistema produttivo (Computer Integrated Manufacturing). E' previsto lo studio delle architetture dei sistemi di elaborazione delle informazioni più adatte al problema, che si i presenta di particolare complessità per l'interfacciamento di funzioni separate tra loro e con caratteristiche organizzative assai diverse, come: la progettazione, la produzione, il controllo di qualità, il marketing. Il programma è formulato in modo completo, ma generale, e potrà venire giudicato solo sulla base dei progetti di attuazione che dovranno necessariamente entrare nel vivo delle problematiche specifiche di singoli settori industriali.
Cosa resta fuori da Esprit? Uno dei più appariscenti aspetti della microelettronica è la sua diffusione nel mercato dei prodotti di consumo, per oggetti del tutto nuovi come i videoregistratori ed i giochi elettronici. L'industria giapponese ha praticamente monopolizzato il mercato dei videoregistratori. Nel futuro, in parallelo con la disponibilità di servizi di informazione come il videotext, si diffonderanno terminali audio-video (sostituti dell'apparecchio telefonico) e calcolatori domestici con funzioni specializzate rispetto ai personal computers.
Il mercato di tutta l'elettronica di consumo (incluso Tv e radio) in Europa ha raggiunto i 25 miliardi di dollari. Nel programma Esprit tuttavia non si fa riferimento al settore, neanche per la R&S necessaria per lo sviluppo di un prodotto - previsto nello scenario tecnologico futuro - come l'apparecchio integrato che unifica le funzioni Tv, radio, videoregistratore, home computer, alta fedeltà.Nel campo del Data processing, come ricordato sopra, si è da tempo sviluppato il mercato dei servizi di calcoli complessi, mettendo a disposizione dei clienti grandi elaboratori e programmi di software specialistici. Si sta ora sviluppando una vera e propria industria dei servizi di informazione basata non tanto sul processamento di dati (calcoli), ma sulla disponibilità di banche di dati.
Nel futuro, lo sviluppo di «sistemi esperti» di interazione con le basi di dati incrementerà ulteriormente con nuovi campi (ad esempio diagnostica medica) il mercato dei servizi di informazione. Il programma Esprit non si occupa del problema (salvo il terzo sotto-programma con riferimento ai sistemi esperti). Tuttavia il programma pluriennale informatica ed i progetti Insis e Caddia sono rivolti in questa direzione. Importante sarà quindi il ruolo che Cee saprà ritagliarsi per lo sviluppo di infrastrutture di trasmissione dati (si veda la proposta di programma nelle telecomunicazioni ).
La Cee riconosce che Esprit è solo una parte, anche se ora la più grande, dell'insieme di iniziative per aiutare l'Europa a tenere il passo con lo sviluppo delle tecnologie dell'informazione. La Commissione riconosce la necessità di coordinare in modo unitario tutte le iniziative presenti e future. E' significativo al riguardo che essa abbia creato una nuova struttura organizzativa, la «task torce tecnologie dell'informazione e delle telecomunicazioni», alle dipendenze dirette della Commissione, che dovrebbe assicurare questo coordinamento unitario. Saprà questa task force mantenere, nell'attuazione delle varie iniziative ad essa affidate, quel senso di ultima spiaggia, di determinazione al successo, che ha caratterizzato la gestazione del programma Esprit? C'è da augurarselo.
Da Il Sole 24 Ore, 29 Maggio 1984
3.4 Se CEE e Giappone fanno la pace.
Dopo i recenti accordi commerciali, come proseguire sulla strada della "distensione"? La necessità di definire in modo più netto le rispettive aree di influenza economica.
La CEE sta svolgendo una intensa azione diplomatica di contatti e discussioni
con il Giappone, cercando di sviluppare una Politica comune per risolvere i
difficili problemi nel confronto Europa-Giappone.
Nell'ambito di queste iniziative va inquadrato il convegno del 20-21 gennaio
1983, a Bruxelles: "Verso l'ulteriore sviluppo delle relazioni
economiche Giappone/CEE."
Che il problema sia sentito, è mostrato dalla fitta partecipazione sia di
Giapponesi, con a capo il Ministro per l'Industria (MITI) Yamanaka. che di
Europei. L'incontro è stato aperto dal Presidente della Commissione CEE, G.
Thorn. e chiuso dal Vice presidente Davignon. Tra gli interventi, quelli di
Carlo Debenedetti e Umberto Colombo.
La domanda cui si indirizzava il Convegno: è possibile passare da una fase di aspra competizione ad una di collaborazione costruttiva? Ambedue le parti riconoscono che la crisi in cui ci troviamo è la più grave dal 1930. E' una crisi strutturale da cui si esce rinnovando impianti, tecnologie, prodotti. Solo attraverso una collaborazione costruttiva (Debenedetti), mettendo assieme risorse finanziarie, imprenditoriali e tecnologiche (Ross della Shell) si può uscire dalla crisi. Mentre nè Europa, nè USA, nè Giappone possono da soli risolvere i problemi comuni, ciascuno da solo può fare molto per distruggere l'economia mondiale (Yamanaka).
Fin qui la convergenza sulla tesi generale della collaborazione. Ma quale collaborazione, come, dove? Ed è possibile parlare di collaborazione se non si equilibrano i rapporti di scambio commerciale? Cerchiamo di sintetizzare i due punti di vista : giapponese ed europeo.
Il punto di vista giapponese
Anche il Giappone ha bisogno di collaborazione finanziaria e tecnologica. La produzione va a strappi, gli investimenti sono bassi, l'innovazione tecnologica è ferma, la produttività è in declino, il debito pubblico ha raggiunto un livello molto alto. Per favorire la collaborazione apriamo le nostre frontiere (riduzione unilaterale di tariffe, semplificazione procedure di ispezione, appello al popolo giapponese perché non discrimini i prodotti esteri). La Japan Development Bank supporterà gli investimenti esteri in Giappone. Siamo pronti ad auto-limitare le esportazioni eccessive.
La nostra attività di investimenti all'estero ($ 37 miliardi nel 1980) anche
se in valore assoluto lontana da quella degli USA ($ 213 miliardi) è uguale a
quella tedesca, ed ha un tasso di crescita medio annuale del 26% molto superiore
a quello USA (11%). Gli investimenti giapponesi nel mondo danno lavoro a 900.000
persone. La maggior quota degli investimenti va in Europa (56% del totale).
Collaboriamo con aziende europee nei grandi progetti e forniture per i paesi
terzi (27 consorzi e 256 casi di subfornitura negli ultimi 4 anni, per un totale
di $ 3,6 miliardi di quota europea). Gli scambi tecnici stanno crescendo.
Abbiamo nel passato importato tecnologia con una bilancia nettamente in passivo,
ma ora la situazione sta cambiando (nel 1971 il rapporto import/export della
bilancia tecnologica era pari a 4, ed è sceso a 1,5 nel 1980).
Ciò dimostra che il Giappone con la sua attività di ricerca e sviluppo
sta contribuendo al fabbisogno di innovazione tecnologica mondiale. La
collaborazione nella R & S. con altri paesi è in aumento e siamo pronti a
procedere in questa direzione, ad esempio sul nostro grande progetto di
"calcolatore di 5a generazione".
Se gli Europei hanno difficoltà ad investire in Giappone, anche noi non abbiamo
la vita facile in Europa. Honda Benelux (motocicli) ha impiegato 12 anni prima
di dare risultati economici positivi. Siamo convinti che l'investimento va visto
solo in una prospettiva di lungo termine e riteniamo che nessuna incentivazione
finanziaria vantaggiosa nel breve, è barattabile con vincoli (ad es. quota
minima di esportazione) che impediscano di impostare un programma valido nel
lungo termine.
La stessa nostra pazienza e determinazione devono averla gli Europei che
vogliono fare business ed investimenti in Giappone.
Il punto di vista europeo
Va bene parlare di collaborazione, ma essa è possibile solo se tra i partners c'è fiducia reciproca. Il Giappone ha potuto adottare una politica di specializzazione produttiva, grazie al fatto che la società giapponese è molto più frugale di quella europea (e quindi accetta la concentrazione degli investimenti in aree lontane dai bisogni sociali) e con questa specializzazione sta attaccando e distruggendo settori importanti della nostra produzione.
Ciò è già avvenuto per gli apparecchi fotografici, e rischia di avvenire nei televisori, negli hi-fi. Siamo contro al protezionismo, ma dobbiamo in via transitoria difendere i settori più minacciati, mentre in parallelo dobbiamo portare avanti una strategia di rinnovamento che li renda più competitivi.
Abbiamo bisogno per l'espansione della nostra economia di un sostanziale
bilanciamento degli scambi commerciali, ed occorre che gli investimenti europei
in Giappone abbiano lo stesso trattamento di quelli Giapponesi in Europa.
Non è vero che il mercato giapponese è aperto. Anche quando le barriere
fossero tutte cadute (e vi sono ancora settori vitali per il nostro export, come
il cuoio, che son ben lungi da ciò), il mercato giapponese rimarrebbe
impenetrabile per le barriere naturali che rimangono (lingua, consuetudini.
ecc.). Investire in Giappone è difficile, in particolare fare delle
joint-ventures. Qualcuno c'è riuscito ma a prezzo di sforzi sproporzionati.
Il Giappone tende sopratutto ad acquisire tecnologie, tramite licenze. Le
differenze sostanziali tra i due mercati e le due società, fanno si che
l'equilibrio negli scambi commerciali e finanziari lo si ottiene solo se i
Giapponesi cambiano il loro approccio sostituendo alla politica
dell'esportazione netta quella dei flussi più equilibrati import/export,
settore per settore, favorendo integrazioni finanziarie ed industriali.
Da questa sintesi dei due diversi punti di vista appare chiaro che è molto più facile parlare di, e cercare di sviluppare, collaborazione da parte giapponese che da parte europea.
Vi è tuttavia un campo, quello della ricerca più di base, o dei grandi progetti di R&S a lungo termine, su cui è più facile non solo parlare, ma avviare effettiva collaborazione.Sui grandi temi della ricerca (fusione, energia solare, conservazione energetica) è probabile che si arrivi ad effettive collaborazioni, oltre che ad un più intenso scambio di conoscenze e ricercatori nella ricerca di base. Meglio che niente, almeno impareremo a conoscerci. Tuttavia attenti a non sopravvalutare l'importanza di questo tipo di collaborazione.
A margine del Convegno è forse opportuno dibattere, al di fuori di ogni
retorica. i vari elementi del problema del rapporto Europa-Giappone così come
sono stati del resto tratteggiati nel convegno stesso. Anzitutto esiste una
asimmetria sostanziale tra le due società. E' stato usato l'aggettivo frugale
per definire quella giapponese. Certamente, quella europea ha bisogni più
complessi per il più alto sviluppo di benessere e giustizia sociale. Questa
sostanziale asimmetria permette ai Giapponesi di concepire ed attuare strategie
industriali e commerciali sostanzialmente diverse da quelle europee. E' stata
definita, quella giapponese, la strategia della specializzazione.
La asimmetria delle due società è quindi alla base dello sbilanciamento nei
rapporti commerciali. Sembra difficile, con tutta la buona volontà, eliminare
in tempi brevi detta asimmetria. Qualcuno ritiene che la ricetta sia quella che
gli Europei imparino dai Giapponesi a realizzare una maggiore specializzazione.
Ma è essa fattibile, almeno con l'intensità realizzata in Giappone, in un
contesto sociale come quello europeo? Deve la società europea sviluppare la
stessa frugalità di quella giapponese?
Non si può parlare di collaborazione se non si condivide anzitutto la visione del mondo. Quale è lo scenario che condividiamo :
Sembra che i Giapponesi stiano, anche se implicitamente, seguendo il primo
scenario. Confesso di preferire e ritenere più realistico il terzo scenario per
varie ragioni:
a) per ragioni generali derivate dalla analisi di sistemi complessi che tendono
a suddividersi in sottosistemi che realizzano ciascuno un bilanciato equilibrio
locale (omeostasi); b) perché la diversità delle società richiede prodotti
diversi (anche solo per il lato estetico ed ergonomico) e si possono in ogni
caso assicurare scale ottimali di produzione senza dover fare intervenire
l'intero mercato mondiale.
Se si accettasse il terzo scenario come quello da raggiungere, anche solo nel lungo termine, la collaborazione Europa-Giappone diventerebbe più credibile. Innanzi tutto il Giappone dovrebbe ridurre l'invasione dell'Europa con i suoi prodotti specialistici non per fare un favore a noi, ma perché sarebbe costretto a perseguire una politica di de-specializzazione, per poter investire in tutti i settori necessari allo sviluppo equilibrato dell'area in cui opera (Asia dell'Est?). Per realizzare ciò l'Europa sarebbe, almeno in fase transitoria, di grande aiuto con la sua tecnologia e con i suoi prodotti (magari realizzati con minore produttività, ma più vicini alle esigenze di una società socialmente più complessa).
I problemi strategici dello sviluppo di risorse energetiche e di materiali che rendano le rispettive aree meno dipendenti dall'import da aree esterne, acquisterebbero ora un senso più completo, rispetto, ad esempio, al caso del primo scenario.
L'Europa da parte sua, meno sotto l'assillo di investire nei prodotti maturi (ma portanti per tutta l'economia) per aumentarne la produttività per fronteggiare l'invasione giapponese, potrebbe dedicare risorse umane, imprenditoriali, finanziare, tecnologiche al sostanziale rinnovamento dei prodotti e non solo delle tecnologie produttive.
Si potrebbe così rimettere in moto un vero nuovo cielo di sviluppo economico e sociale a lungo termine.
Da Il Sole 24 Ore, 17 Febbraio 1983
3.5 Anni '90, quale mercato comune?
Le strategie delle imprese europee nella transizione verso un nuovo "sistema tecnico". A una regolamentazione burocratica è preferibile una politica flessibile di incentivi
Da più parti, per ragioni e con riferimenti diversi, si sente affermare che viviamo un'epoca di transizione. Transizione verso che cosa? L'ipotesi su cui ci soffermiamo è che si tratti di transizione verso un nuovo "sistema tecnico". Per sistema tecnico, intendiamo quell’insieme di prodotti, processi produttivi, materiali, vettori energetici, che caratterizzano una data epoca nella storia. Secondo Alvin Toeffler starebbe addirittura per arrivare la "terza onda" (la civiltà della tecnologia dell'informazione) dopo l'onda della civiltà agricola (risalente al neolitico) e la più recente onda della rivoluzione industriale. Non è tuttavia necessario rifarsi alle grandi ere della storia, ma basta esaminare più da vicino gli ultimi 200 anni.
Secondo quegli economisti che sono convinti dell'esistenza di cicli economici a lungo termine (i cicli di durata cinquantennale individuati da Kondratiev), le date sono quelle giuste per la partenza di un nuovo ciclo. Fino ad ora ne sono state individuate quattro (partendo dal 1780). Ciascuna è stata caratterizzata da una innovazione tecnologica fondamentale (la macchina a vapore, la ferrovia, la siderurgia e la chimica di base, le radiocomunicazioni ed i materiali sintetici) e dalla prevalenza di una particolare fonte di energia (legno, carbone, petrolio, gas). La tecnologia dell'informazione dovrebbe, anche in questa visione meno ampia rispetto a quella di Toeffler, essere la tecnologia che caratterizza il nuovo ciclo economico.
Tanto basta per definire il quadro che fa da sfondo alle osservazioni che seguiranno e che vogliono mettere in luce come
l'ipotesi della transizione possa portare a dare risposte specifiche ai problemi in cui l'Europa si dibatte: realizzazione completa del Mercato Comune; apertura assoluta o meno delle frontiere alla concorrenza USA e Giappone; possibilità di una politica industriale europea. Va detto tuttavia subito che non è possibile sviluppare un discorso unico per le varie componenti del sistema produttivo. Ciò sarebbe riduttivo di una realtà complessa, tanto più se si è in un periodo dì transizione quando può cambiare la struttura stessa del sistema. Divideremo pertanto (ed è già una semplificazione) la transizione da un "sistema tecnico" ad un altro in tre parti il cambiamento della base tecnologica, il rinnovamento dei prodotti correnti, lo sviluppo di nuove linee di prodotto.Verso una nuova base tecnologica.
La base tecnologica di un sistema tecnico, è l'insieme dei materiali, delle tecnologie ed, in generale, di tutti gli strumenti che vengono utilizzati per concepire produrre e vendere i prodotti hard o soft, (primari, secondari o terziari). Caratteristica degli elementi che fanno parte della base tecnologica è di essere orizzontali nel senso che intervengono in tutti o quasi i settori produttivi (ciascuno considerati come l'integrazione verticale di diverse tecnologie orizzontali). Gli elementi fondamentali che fanno pensare che si stia sviluppando una nuova base tecnologica sono:
·
lo sviluppo di materiali del tutto nuovi (compositi a fibra lunga, ceramici ingegneristici) che si affiancano e che già sostituiscono in alcuni casi (ad es. aerospaziale) materiali correnti contribuendo già ad indebolire il predominio dell'acciaio;·
l'apparire di nuove tecnologie di trasformazione e lavorazione dei materiali (laser, centri di lavorazione automatici, sistemi flessibili di lavorazione, nuovi metodi di formatura di materiali sintetici compositi);·
lo sviluppo di tecnologie di intelligenza artificiale, che tendono a rendere il sistema produttivo non solo flessibile (robots) ma gestibile in modo globale come un vero e proprio sistema contro-reazionato (ad es. assicurazione della tolleranze di lavorazione a fine di una linea complessa di lavorazioni grazie ad interventi in tempo reale, a monte, sugli utensili), aggiungendosi alla generale diffusione delle applicazioni della tecnologia dell'informazione alle varie funzioni del sistema produttivo (automazione non solo degli uffici amministrativi, ma degli uffici tecnici, delle esperienze, dei magazzini, ecc ...).
Per un sistema economico-sociale come l'Europa, essere padrona della
nuova base tecnologica, non è, come molti sembrano affermare, un problema
legato soprattutto allo sviluppo di nuovi posti di lavoro in vista di una
nuova organizzazione internazionale del lavoro che emergerà dalla transizione.
Si tratta in realtà di un problema strategico: della necessità cioè
di assicurare che il sistema socio-economico europeo abbia al suo interno il
controllo di detta nuova base-tecnologica (che è appunto alla base
della costruzione del nuovo sistema-tecnico).
E' in questa luce che va visto il problema della protezione o meno
dell'industria comunitaria durante la transizione e della importanza della
realizzazione di un vero mercato unico (privato e pubblico) per sostenerne lo
sviluppo.
Sulla necessità di disporre di un vero mercato unitario a scala europea per
permettere lo sviluppo della tecnologia dell'informazione, nessuno ha dubbi.
Diversi invece sono gli atteggiamenti circa la necessità di
"proteggere" in questa fase di transizione l'industria europea. E'
qui che le considerazioni strategiche diventano rilevanti e debbono
fare pendere la decisione verso un certo grado di protezione (come ad esempio
proposto nel Memorandum del settembre 1984 sulla politica industriale del
Governo francese alla Cee). In ogni caso è opportuno accomunare nel dibattito
e nelle scelte operative, l'intera base tecnologica e non solo quel suo
elemento particolare individuato come tecnologia dell'informazione.
Il problema si presenta in modo diverso per i prodotti correnti, destinati all'uso finale. Il loro rinnovamento (sia come prodotto che come processo di produzione) per tener conto del cambiamento nella base tecnologica, richiede un periodo di apprendimento sia da parte dell'azienda che del mercato. In questo periodo l'azienda o è in grado di poter contare su un mercato domestico ad essa favorevole, o può correre grossi rischi con il rinnovamento. Infatti, prima che il prodotto rinnovato abbia raggiunto il proprio assestamento, passa attraverso fasi di incertezza (sia dal punto di vista del produttore che del mercato). Ad esempio, quali sono i cambiamenti nelle specifiche del prodotto permessi dalle nuove tecnologie e premianti alla lunga (ad esempio, quali degli attuali "gadgets" elettronici sull'auto entreranno nel prodotto rinnovato)? Oppure quale è l'affidabilità delle nuove soluzioni? Durante la transizione, inoltre, i costi del prodotto sono maggiori rispetto al passato proprio per la varietà (oltre che per la mancanza di esperienza produttiva)'delle soluzioni messe sul mercato.
Il non essere riusciti a rendere veramente unitario il Mercato Comune avrà una importanza rilevante per il rinnovamento dei prodotti correnti e sarà alla base di comportamenti apparentemente "chiusi" verso l'ulteriore realizzazione del Mercato Comune. Ad esempio, un'azienda che copra il 15 % del l'intero mercato Cee, ripartito tuttavia come 40 % del mercato "nazionale" e 5 % degli altri mercati, potrà considerare come vero mercato domestico solo il mercato nazionale. Ed il poter mantenere la sua posizione particolare in questo mercato è fondamentale ai fini degli obbiettivi di riuscire ad attraversare la delicata fase del rinnovamento dei prodotti. E' importante rendersi conto che diversi sono i comportamenti ottimali in una fase di cambiamento, rispetto ad una fase di consolidamento del cambiamento e di espansione.
Paradossalmente, se è vero che si sta attraversando la fase di transizione "da un'epoca all'altra" per favorire il raggiungimento finale della completa unificazione dei mercati Cee, occorrerà accettare politiche industriali nazionali che aiutino produttori locali ad attraversare la transizione del rinnovamento per quei prodotti per i quali il Mercato Comune non ha ancora raggiunto lo stadio di mercato domestico.
Queste osservazioni valgono soprattutto per il prodotto destinato all'uso finale.
Può invece essere molto diverso il comportamento ottimale di una strategia industriale europea per i settori fornitori di materiali, componenti, sottosistemi di detti prodotti finali. Qui la fase di rinnovamento può portare alla necessità di ristrutturare detti settori su un mercato più ampio di quello nazionale. Il concetto stesso di mercato è diverso da quello dei prodotti finali. Per quanto difficile ciò possa essere, è qui che va giocata una vera politica industriale comunitaria per trarre vantaggio dalla fase di trasformazione, perché l'industria fornitrice emerga ristrutturata sia come dimensioni di produzione che come linee di attività (il cambiamento nella base tecnologica tende a produrre cambiamenti nella struttura delle forniture di componenti e sottosistemi per un prodotto finale). Naturalmente, non si può generalizzare e va esaminato caso per caso, settore per settore, opportunità, convenienza e possibilità di intervento.Il mercato gioca invece un ruolo decisamente diverso per la nascita ed il primo sviluppo di linee veramente nuove di prodotto. In questo caso è il mercato locale che gioca un ruolo fondamentale, con una molteplicità di piccole aziende capaci di cogliere le opportunità e le differenze del mercato locale. E' una fase di apprendimento comune (imprese-mercato) di quali saranno le caratteristiche del prodotto leader che emergerà successivamente come uno "standard" per mercati più ampi.
Una politica comunitaria che in questo caso voglia anticipare unificazioni regolamentazioni, stretto controllo degli accordi tra aziende, sarebbe chiaramente controindicata. Sarebbe volere anticipare tempi non maturi e costringere a scelte tecnologiche e a soluzioni di specifiche burocratiche, bloccando la importante e delicata fase di apprendimento impresa/mercato. E' fondamentale invece una politica di linee di credito incentivato, che accetti l'alto rischio e la molteplicità di iniziative simili.
Benché si parli molto di nuovi prodotti, c’è da chiedersi quali di essi siano veramente classificabili come prodotti sul nascere e non prodotti che hanno già superato la fase giovanile. Probabilmente, non ne ce sono molte di vere linee nuove di prodotto che stanno emergendo ora. Forse lo sono la nuova bio-ingegneria e le macchine per l'utilizzo delle energie rinnovabili. Forse ve ne sono anche nel terziario, come ad esempio la produzione di software per le applicazioni personali della rivoluzione informatica.
Da Il Sole 24 Ore, 26 Gennaio 1984