17 novembre 1999
Caro Giorgio,
Ti ringrazio per la bella lettera. Condivido con te la nostalgia per il passato. Questo sentimento sarebbe normale in ogni vecchio che non può che ricordare con affetto il mondo in cui ha vissuto, ogni episodio come trasfigurato ed addolcito. (Ma possiamo poi dire di essere vecchi? A volte mi spaventa l'idea che a 70 anni potrei viverne ancora venti e dovermi poi domandare, alla fine, cosa ne ho fatto di questo ulteriore lasso di tempo.)
Tanto per fare un esempio. Ricordo il castagnaccio del Forte come una cosa non mai più assaggiato così buona. Ma nel mio ricordo mi pare addirittura di un gusto non più ritrovabile, quello che mangiavo a Vimercate - ricordo più lontano e quindi più struggente - portato da un signore in bicicletta che lo vendeva per la strada. E sicuramente quello di Vimercate non era un gran castagnaccio. Eppure…
Detto questo per fare la tara sul filtro trasfigurante ed abbellente della nostalgia, sento tuttavia crescere in me una ribellione sul mondo che mi si sviluppa attorno. E mi pare di vedere anche in te segni analoghi.
Nella mia vita non sono mai riuscito a dare giudizi netti sugli avvenimenti o sugli uomini. Secondo mia moglie è un difetto. Ma ora - effetto dell'irrigidimento della corteccia cerebrale - ne do o mi sento di darne. Mi pare, così, di vivere in un periodo di decadenza vera. Forse lo è tutto il globo, ma certo in Italia - laboratorio anticipatore dei mali del mondo occidentale - lo è in maggior misura. Faccio alcuni esempi della decadenza.
Pensioni d'oro. Non mi scandalizza tanto il fatto che uno
prenda venti milioni o più al mese, quanto il fatto che, sulla basa di quello
che lui ha versato, gliene spetterebbero si e no cinque (?). Ma non è tanto
nella dimensione della disparità tra le due cifre che trovo il segno di decadenza. E' che quel signore,
chiunque sia, non credo pensi di essere debitore mio e di altri tax payer di quella
differenza. Anzi, lui è sicuro di essere nel giusto e che percepisce quello che
gli è sacrosantamente dovuto. E sentirai che strilli, magistrati in testa, se
uno pensa di toglierli un misero 2 o 3 %.
Io reputo di avere una buona pensione, non d'oro, ma d'argento, diciamo.
Tuttavia è una pensione così detta d'annata.
Chi è andato in pensione un anno dopo me, pur avendo versato quanto il
sottoscritto o addirittura meno, prende il 30 - 40 % in più per via di una
legge fatta da furbi. Tu credi che lui si senta un privilegiato? No, gode solo
di un suo diritto. Io invece, non riesco a togliermi dalla mente che, malgrado
la mia - a pari versamenti - sia minore della sua, in realtà sono un
privilegiato, prendo di più di quanto mi spetterebbe (con il metodo
contributivo). E un po' mi vergogno di essere un privilegiato, per lo meno di più
di tanti altri.
Ecco, mi pare un segno di decadenza che un senso di colpa come il mio non lo senta quasi nessuno. Ho scritto una letterina su questo argomento al 'grande vecchio', a Montanelli. Ma non ha reagito. Forse trova inutile la riflessione, o forse non è d'accordo con me che anche lui probabilmente ha una pensione superiore ai contributi versati.
Ma un segno ancor più grande di decadenza lo trovo nella
perdita del senso della 'giusta mercede' rispetto al lavoro che uno fa. Ognuno
dovrebbe ricevere in proporzione a quanto dà. Naturalmente c'è sempre stato un
premio speciale che il successo e la fortuna da ai fortunati, indipendentemente
dal valore intrinseco del proprio lavoro.
Prendiamo gli scrittori. Ci può essere chi diventa ricco senza che di lui
rimanga poi niente e chi, pur morto
povero, rimarrà poi nel ricordo come un grande. Ma nel mondo attuale, grazie
anche alla globalizzazione, all'Auditel o che altro, il rapporto (in termini di
ricompensa del proprio lavoro) tra chi ha successo e chi no, è cresciuto a
livelli che mi paiono insopportabili.
Balzac era un grande scrittore ed ha avuto successo. Diventò ricco. Ma il rapporto tra quello che lui guadagnava e quello di un suo pari di minor successo era comunque limitato dal fatto che allora di libri se ne vendevano poche migliaia. Oggi, un autore di successo di libri ne può vendere milioni. La differenza tra lui ed un suo pari merito, ma con minor successo (che magari ne vende 10000 copie) è abissale. Mi piacerebbe sapere se Ken Follet un po' si vergogni di guadagnare tanto sentendo la sproporzione tra la 'fatica' che ha fatto ed il compenso ricevuto. Non so cosa pensi Ken Follet. Ma so, perché lo ha detto lui stesso, che Del Piero non sente minimamente vergogna per l'ingaggio miliardario che è riuscito ad ottenere. E' la legge del mercato… ha detto. E certo non si pone il problema della sproporzione tra l'opera e la mercede nemmeno chi gli ha dato quei soldi.
Mi è capitato di sfogliare in una sala d'aspetto l'ultimo numero di Capital. Riportava gli stipendi dei manager di successo e dava dei criteri con cui valutare il proprio. La domanda terribile che mi è venuta è la seguente. Ma quel signore, che tra l'altro ho conosciuto, che guadagna più di dieci miliardi all'anno per dirigere un'azienda - sia pure la più grande italiana - avrà o no qualche volta il dubbio di guadagnare troppo? Gli verrà di fare un paragone del rapporto contributo dato / mercede ricevuta suo e di qualche suo dipendente?
Confrontando tutto ciò con i nostri tempi, mi vien fatto di pensare che allora la decadenza civile era minore, anche perché qualcuno che si poneva la domanda c'era. Non ho statistiche sottomano. Ma certo io, che ho raggiunto posti di una certa responsabilità e con stipendi importanti, ho sempre avuto l'impressione di guadagnare più di quello che meritavo. E ti assicuro che il rapporto tra il mio stipendio di dirigente di successo e quello di un giovane dirigente, non superava un fattore 2 - 3.
Che c'entra questo sproloquio sulla giusta mercede con la tua lettera? Era per darti ragione sul fatto che il mondo è cambiato, in peggio. O almeno così lo percepiamo sia io che tu. E da questa sensazione parto per rispondere alla domanda del perché nelle mie memorie mi sono fermato prima dei ricordi della mia vita di lavoro. E mi sembra che tu sia d'accordo che ho fatto bene a fermarmi.
Direi che se non lo faccio non è perché la mia fatica potrebbe interessare solo a pochi. Piuttosto, è perché non mi sembra che sarei in grado di farlo con quel senso di divertita ironia con cui mi pare di aver guardato il Luciano - Lucio nel periodo beato della crescita. Pur avendo avuto un certo successo (nel senso che ho ricoperto posizioni di rilievo), alla fine mi sembra che la mia esperienza di lavoro sia più di sconfitta che di vittoria. Ho cominciato con il nucleare, grande sogno dell'umanità, ed è finito come è finito. Poi ho cercato di rendere l'automobile un oggetto rinnovato ed anche qui ho dovuto lasciare a metà strada per ragioni di conflitti con il top, diciamo sulla strategia aziendale. Conoscendomi, finirei per dare la colpa a me stesso del risultato negativo della mia esistenza. E questo mi pare poco in linea con i tempi.
Ma soprattutto finirei per descrivermi come un giovane pieno di ideali (o di visioni) che ha affrontato la vita pieno di speranze. Però gli ideali (o le visioni) erano più grandi di lui e lui ingenuamente pensava di partecipare alla costruzione di un mondo nuovo. E non c’è riuscito. Come si fa a parlare di un approccio alla vita pieno di ideali ed entusiasmo quando sembra che nessuno più ne abbia, e dichiarare poi la propria ingenuità a pensare che fossero realizzabili? Alla fine il lettore più moderno e smaliziato e – forse - senza troppi ideali, finirebbe per dire che ha ragione lui a pensare solo ai soldi, al successo rapido eccetera, eccetera.
Se non ho capito male, anche tu hai avuto lo stesso mio approccio. Le miei erano visioni tecnologiche forse più che ideali sociali, come lo erano i tuoi. Ma l’approccio è sostanzialmente identico, e il risultato finale… sensazione di aver fallito. Comunque, di non essere riusciti a migliorare il mondo. Scrivere le proprie memorie in questo senso sarebbe un’operazione un poco triste, indipendentemente dal fatto che alla fine ci sia qualcuno che le legga con interesse o meno.
Per scrivere, hai ragione tu, ci vuole qualche stimolo. Ho scritto i ricordi, su come ho fatto a crescere, per i miei due nipoti. E mi sono divertito. Forse si divertiranno anche loro a leggere le avventure del nonno quando aveva la loro età. E magari capiranno che alla fine si può crescere bene. Ma non credo che a loro interesserà sapere come, una volta cresciuto, ho cercato di campare.
Sul titolo, sono d'accordo che è brutto. E' il risultato di uno sforzo intellettualistico di non essere banale, mescolato al background di cultura matematica. Quindi ho pensato ad una proporzione, a:b = c:d. Le mie memorie stanno al mio essere attuale, come la sinopia sta all'affresco finito. Hum!.
Per quanto riguarda la pubblicazione del libro, non ho
molte speranze. A parte tre libri di lavoro, non sono mai riuscito a convincere
nessun editore a prendermi sul serio. L’unica cosa divertente è che invece
sono state pubblicate tradotte in inglese delle favolette che ho scritto per i
miei nipoti. La traduzione è stata fatta da un maestro elementare inglese in
pensione che voleva imparare l’italiano. E poi lui è riuscito a trovare un
editore (sia pure uno di quelli on demand,
che fa circolare un catalogo e poi stampa a richiesta e a costo normale. Non
solo non ha voluto soldi, ma mi darà royalties se vende).
Per essere sicuro che qualcuno legga il testo, lo mando a qualche concorso. Penso che i componenti la giuria saranno costretti a leggerlo, almeno loro (?). Il problema di far stampare a proprie spese è poi quello di venderlo. Nelle librerie non ci va. Per regalarlo agli amici, tanto vale farlo fotocopiare. Abito vicino al Politecnico e i fotocopiatori abbondano e si fanno grande concorrenza. Un pensiero che mi frulla in testa è di fare un mio sito nel web, mettere un sunto del libro ed inviarlo in omaggio via e-mail a chi me lo chiede. Penso che ad uno come te che ha fatto anche il giornalista, l’idea che alla fine la carta stampata sparisca non piaccia molto. Neanche a me a dire il vero.
Ti saluto. Buon lavoro e forza con la Versilia.