-XXX-

 

Ahasvero! Quale veleno avevi fatto scivolare nelle mie vene? Cosa mi avevi fatto mentre cedeva la mia resistenza al sonno, e mi abbandonavo nel ricevere il riposo? O mentre ero così attento, e prudente, all'ascolto di uno solo dei tuoi cuori? Quale virus insidioso avevi saputo inserire di nascosto, nelle reti del mio cervello? Ora ero un automa nelle tue mani invisibili! Una dopo l'altra cambiava e s'adattava ogni sequenza numerica del mio corpo, frazione dopo frazione si sottraeva da me qualcosa, che svaniva nel nulla, e si moltiplicavano coincidenze e canali industriosi di nuovi mattoni, di nuove cellule d'un essere che apparteneva sempre più solo alla terra: alla terra di cui tu eri il prigioniero e il condannato, non io!
Anch'io ormai stavo dissolvendomi velocemente, e la mia schiavitù, la mia atroce metamorfosi era vicina! In equivalenze, enarmonie tuttora stridenti, ma solo per poco: stavano allineandosi, pian piano, tutte quelle corrispondenze; e si legavano fra loro, si adattavano in automatismi più veloci dell'occhio le differenze ancora dissonanti; attendevano il loro turno appartate, rifugiate, nascoste nelle cifre ultime di quegli scarti troppo lontani dallo sguardo affrettato, distratto.
Amore! Anch'io perduto nel limbo, in cerca dei miei frammenti scartati e gettati dalla finestra del mio edificio, della fabbrica del mio divenire! Amore che era solo più bisogno di fuoco per far muovere gli ingranaggi di quella maledetta macchina! Energia! Pila elettronica a due poli opposti: il vero e il falso, l'inganno e la realtà!
Chi ero diventato? Un essere anch'io di doppia natura, come fauno, metà simile al dio e metà alla bestia: ero solo un nuovo Marsia, ingannato dal caso di ritrovare uno strumento rigettato, per tentare ancora una volta la vittoria su Apollo! Vincerlo con la bellezza struggente di Auschwitz, d'infinite fughe prospettiche di fascino, di abissi di piacere narrativo, di corrispondenze intense con l'esperienza universale, inscritta nel sangue, nel dolore, nella depressione, nella sofferenza ineffabile, nell'incubo della morte inutile; racconto maestro dell'arte tragica, dove l'orrore è solo più parola utile, necessaria, amica, simpatica nell'oliare l'ingranaggio dell'intrigo d'emozione!
Noi nelle nostre tiepide case! Noi annoiati osservatori, indigenti mendicanti di storie, insaziabili divoratori di sogni altrui; noi leccavamo vogliosi le ultime briciole, gli ultimi resti, le ultime gocce, in quella tazza che nacque per essere calice pietoso e nobilissimo!
Un calice d'oro, fuso nel fuoco del dolore. La scodella della fame di Auschwitz, delle pelli terrose di patata, dell'acqua lurida. Alluminio alchemico, nel fuoco bianchissimo di sangue già marcito nelle fosse. Tutta la nostra storia condensata in una briciola di pane raffermo e sporco: pane dell'odio.
Quanti libri c'erano su Auschwitz? Quanti libri erano stampati e venduti nel mercato intorno al Tempio? Quale libro non ci allontanava da sé con quel senso del dejà vu, con quell'impressione del già letto, già scritto, già vissuto, già stampato, già studiato, già divorato, già rigettato, già risorto, già riscritto, già ripubblicato...
Chi poteva più dire il nuovo? Bestie affamate di emozione! Bestie malate di stress e depressione! Bestie vogliose di tragedia, di libidinosi drammi di lacrime di sangue! Quale cancro lentissimo si sostituisce alla nostra vera anima? Riempie il nostro inconsapevole cervello, confondendosi all'occhio fra ramificazioni sottili e belle come coralli, di capillari e arterie confezionate ad arte da demoni abili e precisi, sicuri nel gesto, ricamatori eccellenti della tela sottile che regge il nostro peso, l'inganno d'un cammino, l'infida piattaforma sospesa sui loro abissi!
Ahasvero, mi avevi ormai imprigionato al mio mostruoso millennio, a questa nostra era infame! Al limbo pieno di parole babeliche, ammucchiate in magazzini immensi di carta stampata, di vanità letterarie, di slanci lirici, proiettati ai soffitti altissimi della nostra biblioteca universale: miliardi di miliardi di miliardi di parole vive per l'eternità, dentro a quell'inferno di fiamme che bruciano ma non consumano quella materia maledetta, tra fiumi abissali che affogano eppure non disciolgono quegli scritti!
E ancora là, quando ancora io avrei potuto salvarmi, correre al richiamo del vero, del giusto, io invece restai, mi ricomposi allo specchio, ritrovai i miei contorni passati, ricongiunsi le mie fratture con quel che c'era -colla di modernità industriale, di sicurezze d'un mondo ricco, di un mondo colto, di un mondo saggio, disincantato, libero- e continuai a suonare la mia nuova cornamusa, la mia ghironda alchemica, il mio violoncello di Auschwitz, errante, non ebreo, non vero.

 

-XXXI-

 

«Hans! Mi sembra di impazzire! Non posso più credere a questa storia! E poi, perché a me? Perché io, che non sono ebreo?»
«Calmati, Claudio, trattieniti... Che altro ti potevi aspettare? Adesso capisci qual è stato il mio tormento per anni? Il mio silenzio straziante? Capisci perché ho atteso tanto prima di parlarti?»
«Sì, sì, capisco, capisco! Ma da te non ho mai le risposte alle mie domande! Perché a me, se non sono ebreo?»
«Ma Claudio... la Shoah non è una tragedia di famiglia! Perché mai solo gli ebrei si dovrebbero caricare del peso tremendo di questa memoria?»
«No! non voglio questo! Ma non posso neppure gemere io per quei morti!»
«Ma perché gemere e basta?!»
«Perché è tutto quel che mi sembra di poter fare con un violoncello!»
«Solo perché si esprime nel suono e non con la parola? Cosa vorresti fare? Pensi che ragionamento, pensiero razionale, la logica, ti aiuterebbero a dare un senso a questi gemiti che rievochi attraverso l'udito?»
«Io sento solo più gemere... o gridare l'accusa, la rabbia, o straziarsi la gola nell'implorare pietà!... come posso vivere senza impazzire?! Mi vedo a strapparmi le vesti, come fossi davvero un ebreo... e non so pregare... ma che devo fare? Che posso fare, io, oltre al gridare il dolore di questa offesa, come l'avessi subito io, il martirio?! Io non sono un testimone!»
«...E quindi non vuoi neppure il martirio...»
«Ti prego! Aiutami a capire! Dammi una sola buona ragione per essere proprio io a evocare Auschwitz, dai nervi di quel legno!»
«...Questo posso... e non posso farlo...»
«Almeno provaci!»
«Claudio, sai cos'ero andato a fare a Torino, quando ti ho conosciuto, quel giorno d'autunno, in quella strada, mentre tu eri là ad aprire e chiudere le porte della tua conoscenza?»
«...Io aprivo e... chiudevo porte?... Non capisco... non lo so, dimmelo tu!»
«Ero andato a Torino, proprio in quella strada, perché volevo provare a recitare lo "Shemà Israël" sulla tomba del vostro scrittore ebreo: Primo Levì...»
«Santo cielo... Hans! Cosa vorresti dire, con questo "provare a recitarlo"?»
«...In gioventù io non sono stato una bella persona, Claudio... non lo sono stato affatto. E se il rimorso ti prende, l'unica cosa che occupa la tua mente è il pensiero di come liberartene. Tu vorresti sempre essere pulito, santo, giusto. Ma nessuna preghiera riesce a rivelarti qualcosa: hai esercitato il tuo cuore a non farsi sollecitare, la tua mente a non rispondere al richiamo dell'altro. Per quanto preghi, più preghi e più il suono della tua preghiera scheggia la tua anima, ti frantuma i pensieri, e finisce col farti scoprire cosa sono e su cosa si reggono le tue conoscenze, o i tuoi ricordi: capisci che sono sempre insufficienti, incompleti, instabili...»
«E Torino e Primo Levi?»
«Io ero nella città della sua culla e della sua tomba, nella strada del suo palazzo, di fronte alle sue porte. Per quattro giorni avevo camminato avanti e indietro, sempre lì intorno, in quel maledetto freddo. Fissavo quel portone, a vuoto, senza riuscir a pensare; poi scivolavo via vergognoso per il tempo buttato via in atti inutili, e camminavo, camminavo, spedito, senza distrazioni, senza rallentamenti, fino alla grande Sinagoga. Là me ne restavo, muto, a contemplare quelle cupole a cipolla in stile orientale, neo-moresco, squamate in verde e giallo dalla fantasia errante dell'Architetto eclettico...»
«La conosco. Parlami di te, non della Sinagoga!»
«Camminavo prima per linee rette e veloci, poi per spirali, in tondi vertiginosi, sulla mappatura quadrata dell'antico Castrum romano, poco distante dai luoghi di Levi. Guardavo, contemplavo la Mole di Antonelli, quell'immenso miraggio di conquista dell'emancipazione e della libertà: il primo grande Tempio israelitico dell'Italia dei Savoia! Che buffo destino l'aveva innalzata in quel modo così ridicolo, maldestro? Una cupola immensa, spiovente come un'ampia gonna da signora fine Ottocento, e sopra, al posto del busto, solamente quella sottile, spinosa, lunghissima vagina nerastra spinta dentro al cielo!»
«Abito lì vicino, Hans... la conosco...»
«Erano i resti di un progetto rifiutato a metà della sua edificazione, quando erano ormai giunti proprio in cima alla grande "gonna" alla moda. I committenti che avevano cambiato idea, per farsi un Tempio meno imprudentemente trionfale, erano quei signori dai volti intelligenti ma comuni, con alti cappelli a cilindro in testa, che alle cinque del pomeriggio del venerdì salutavano educatamente i loro operai con un democratico "ciarèa!", e si recavano a benedire il pane e il vino del sabato, nelle loro belle case signorili, con le mogli eleganti, ben pettinate, che già avevano acceso i lumi e preparato i figli coi vestiti della festa. Carlo Alberto li aveva liberati, rassicurati...»
«Li aveva illusi, Hans!»
«Può darsi, ma nel Tempio c'era un piccolo 'Aron tutto nero, in segno di lutto per quel Re illuminato che aveva "fatto l'Italia". Il male poteva ancora rigenerarsi, ma ora era tempo di vivere, di innalzare lodi a Dio con fanfare gloriose di grandi Organi e lunghe trombe egizie, orchestre di violini e arpe a salmodiare col grande coro, di uomini e donne separati solo dalle altezze del matroneo aperto, mentre su tutto il solenne incedere del canto si sollevavano ancora -terribili, squarciando i cieli, facendo tremare la terra- i gridi spinti all'acuto degli Schofàr, dei corni dell'animale offerto da Dio stesso, sul monte d'Abramo e Isacco, sulla sommità del supremo sacrificio a Dio, dell'Olocausto dei capri espiatori!...
E la voce del Rabbino si alzava commovente, col tono squillato e vibrante dei grandi Tenori dell'epoca, con l'emozione, il singhiozzo, la spinta del celebre Tamagno, articolando con torniture maestose le punte e gli apici delle parole nella lingua dell'unico Dio:

"Shemà Israël! Israele, ascolta! Il Signore, Adonài, è il tuo Dio! Il Signore è Uno! Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua persona, con tutte le tue facoltà. Queste parole che Io ti comando oggi, saranno sempre presenti al tuo cuore! Le ripeterai ai tuoi figli, e parlerai di esse quando te ne stai in casa tua e quando cammini per la strada, quando ti corichi e quando ti alzi! Le legherai come segno al tuo braccio e saranno come frontali fra i tuoi occhi! E le scriverai sugli stipiti della tua casa, e sulle porte della tua città! E avverrà, che se darete retta ai Miei precetti, che Io vi do oggi, di amare il Signore vostro Dio e di servirLo, con tutto il vostro cuore e la vostra persona, Io darò la pioggia necessaria alla vostra terra a suo tempo, pioggia autunnale e pioggia primaverile, e tu potrai raccogliere il tuo frumento e il tuo mosto e il tuo olio; ed Io darò nel tuo campo l'erba per il tuo bestiame, e tu mangerai e ti sazierai. Guardatevi! che il vostro cuore non si lasci lusingare, che non debba deviare e servire altri dei, e prostrarsi ad essi..."»
«"...L'ira del Signore si accenderà contro di voi, se ciò farete! Egli chiuderà il cielo, e non ci sarà pioggia! e nessuna terra darà più il suo prodotto! e voi scomparirete ben presto dalla buona terra che il Signore vi dà!..."»
«"...Metterete queste Mie parole sul vostro cuore e sulla vostra persona, e le legherete come segno sul vostro braccio e saranno come frontali tra i tuoi occhi. Le insegnerete ai vostri figli parlando di esse, quando te ne stai in casa tua e quando cammini per strada e quando ti corichi e quando ti alzi; e le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte delle tue città..."»
«"...in modo che siano molti i vostri giorni e i giorni dei vostri figli sulla terra che il Signore ha giurato ai vostri padri di dar loro, come i giorni della durata del cielo sulla terra."

...E infine si deve dire: "Il Signore disse a Mosè queste parole: Parla ai figli di Israël e dì loro che si facciano una frangia Tzitzìt, negli angoli dei loro abiti, per tutte le loro generazioni, e che aggiungano alla frangia Tzitzìt dell'angolo un filo azzurro. Questo costituirà per voi una frangia Tzitzìt, lo vedrete, e ricorderete tutti i precetti del Signore, e li eseguirete, e non andrete errando..." ...errando...»
«"...errando dietro il vostro cuore e dietro i vostri occhi, dietro ai quali siete soliti deviare; cosicché ricorderete ed eseguirete tutti i Miei precetti e sarete santi al Signore vostro Dio. Io sono il Signore, Adonài, vostro Dio, che vi ho fatto uscire dalla terra d'Egitto per esservi Dio; Io sono il Signore vostro Dio."»
« "Adonài Elohìm Eméth. Il Signore Dio è Verità." ...Grazie, grazie... grazie davvero di questa preghiera con me, Hans! E' come una liberazione! Che Dio m'aiuti! ...Sono un uomo disperato...»
«Tu disperato?! Tu, amico mio? Tu che sei ancora pieno di giorni per cambiare, mutarti, apprendere più e più modi, più e più parole? Io ero disperato! Io che rubavo il tempo al sonno, per avere ore, minuti, secondi in più d'opportunità di trasformarmi in un altro, con un'altra storia, un altro destino, altre speranze! Io volevo studiare la Toràh, solo perché la vita non me l'aveva concesso! "Non l'ha messa lontano", ci diceva Mosè, "non l'ha messa al di là del mare o su inaccessibili cieli! Così nessuno potrà dire: non ho potuto recarmi a prenderla..."; queste erano le ultime parole di Mosè: "quella cosa che Dio ti ha ordinato, ti ha donato, è sulle tue labbra, nella tua bocca, affinché nessuno debba andare a prenderla per te!"; e io nella mia bocca cosa avevo? solo il sapore della mia morte! I gusti ormai nauseanti delle cose dolci della vita!»
«Sì... ma io...»
«Sulle mie labbra non c'era proprio niente! Solo "vanità e pascersi di vento", capisci?! "È nel tuo cuore", diceva Mosè; e io cos'avevo nel cuore? Sangue ispessito dagli stravizi, dall'alcool, dalle carni grasse di maiale, mangiate con ingordigia, da sigaretta su sigaretta su sigaretta, fumate per riempire portaceneri fino all'orlo, e per contemplarli poi come emblema del mio tempo consumato... Che cosa devi già rimpiangere della tua vita mancata, tu, Claudio?»
«Scusami... non volevo...»
«Io non avevo più giorni: solo rimpianti, rimorsi, senso del fallimento. Io cercavo qualcuno che m'insegnasse una preghiera fatta solo per me, su misura, come le scarpe e i vestiti che mi ero abituato a comprare.
Poi, per caso, solo perché se ne parlava con entusiasmo, lessi il libro di Primo Levì: "Se questo è un uomo"; quello io cercavo! Quell'uomo era riuscito a raccontare l'inenarrabile, a cogliere l'attimo e trovare la chiave! L'uomo che mi aveva dato l'unica speranza di riuscire a pregare, a chiedere perdono per la mia anima! Un ingegnere! Non un Rabbino, o un Santo, o un Profeta!...
Prega, Claudio! Prega con me, adesso!! Tu le conosci le parole di Primo Levì! Tu non puoi non averle imparate! Ora dille, recitale con me! Parola dopo parola! Recita insieme a me: ..."Voi che vivete sicuri...
«"...nelle vostre tiepide case...
«"...voi che trovate tornando la sera...
«"...il cibo caldo e i visi amici..." ...no, Hans, ti prego...questa non è una preghiera!»
«"...Considerate se questo è un uomo...
«"...Che lavora nel fango..." fermati qui, Hans. Non è il momento...»
«"...Che non conosce pace...
«"...Che lotta per mezzo pane..." chiudiamola qui, questa poesia!»
«"...Che muore per un sì o per un no...
«"...Considerate se questa è una donna...
«"...Senza capelli e senza nome...
«"...Senza più forza di ricordare...
«"...Vuoti gli occhi e freddo il grembo...
«"...Come una rana d'inverno...
«"...Meditate che questo è stato...
«"...Vi comando queste parole...
«"...Scolpitele nel vostro cuore...
«"...Stando in casa e andando per via...
«"...Coricandovi alzandovi...
«"...Ripetetele ai vostri figli...
«"...O vi si sfaccia la casa...
«"...La malattia vi impedisca...
«"...I vostri nati torcano il viso da voi.
«...Hans, ho studiato questa poesia a scuola... Hans, ti prego, ascoltami: l'ho recitata nel teatrino della mia scuola, e i miei compagni mi applaudivano... in sottofondo, ricordo che il Maestro mise un vecchio disco in vinile che faceva gracchiare il violoncello meraviglioso di Pierre Fournier, sulle note del "Kol Nidrei" di Max Bruch; l'orchestra sembrava lontana, tra i fruscii, e somigliava a un vecchio armonium sfiatato. Mentre scorrevano quelle note scorrevano anche le mie parole, e io focalizzavo, proiettavo lontana l'attenzione, nel terrore di aver buchi di memoria: lasciavo che la mia bocca emettesse ciò che vi avevo immesso, e cercavo un appiglio per i miei pensieri. Nel gracchiare del disco, pian piano, riuscii ad isolare degli scoppiettii, e concentrai il mio ascolto su quelli; fu così che ebbi la visione di caldarroste sul fuoco, il calore tutt'intorno, nel freddo pungente: il sollievo... e così, senza accorgermene, recitai tutta la poesia.»
«E fu un successo?»
«Dopo, sì, tutti si complimentarono con me, e il maestro mi abbracciò commosso; altri lessero dal diario di Anna Franck, poi il maestro recitò un brano di Elie Wiesel... e io mi vergognavo... io mangiavo caldarroste calde e croccanti, mentre la mia bocca diceva tutte quelle parole di sofferenza e orrore...»
«Bravo... Io invece gustavo ostriche voluttuose, mentre quei fatti succedevano davvero; e mi gettavo in gola lo champagne come fosse birra, vivevo la notte, e correvo con grosse automobili... ed era il '39, in America, e poi fu il '40, e il '41, e il '42, il '43, il '44, il '45... e io stavo in braccio a belle fanciulle, a ridere, e ridere, e bere, e spogliarle, leccare i loro capezzoli e dire "mamma, mamma! dammi il latte!"... Io vendevo bambine ai soldati, ai soldati ricchi, agli alti ufficiali, modelli di virtù... oh, diciottenni, s'intende! Con tanto di certificato medico di controllo! Tutta merce di qualità...»
«...Questo facevi... Hans?»
«Che t'aspettavi? Un pio rabbino che studiava la Torah? Ero un malvivente, un porco, un commerciante di carne umana...»
«...Hans... tu avevi... quindici anni, nel trentanove...»
«...No... no, ne avevo ventidue, ...e... non mi chiamavo Hans...»
«Spiegami immediatamente!!»
«...Calmati. È duro da raccontare... te l'ho detto: non sono stato una bella persona...»
«Avanti! Racconta!»
«Sì, sì, d'accordo... non ti agitare... la mia è stata la vita di un dissoluto... e poi di un dissoluto pentito, ma incapace di accettare il fatto d'essere cambiato, ma non veder scendere Dio in persona a congratularsi con me, a ringraziarmi, a dirmi "bravo! ora puoi sederti qui, tra i Giusti, a goderti il mio Paradiso"... io ho gettato dalla finestra una tale montagna di soldi, per pentirmi...»
«Voglio sapere, immediatamente! qual è il tuo vero nome?!»
«...Io mi chiamavo Joseph Dutilo...»
«Sei tu?!... non è il nome scritto nel libro, quello dell'uomo che acquistò il Guadagnini di Popper?»
«...Io ho comprato il Guadagnini di Popper, a Los Angeles, nell'ottobre del '55.»
«Chi è Hans Haas
«...La mia falsa identità. Quella sì, ha 74 anni.»
«Devo tirarti fuori le cose con le tenaglie? Dimmi tutto, una buona volta!»
«A dirti il mio vero nome già rischio anche troppo! Sai cosa sono i programmi di protezione pentiti?»
«...Quel tipo di pentito?»
«Senti, quei dettagli della mia storia personale è troppo pericoloso per me, e anche per te, farteli sapere. E poi ti servirebbero a poco, dal momento che porterebbero a pensare di me quel che io ti ho già detto che sono.»
«Dimmi tutto! Subito!»
«Io sono cambiato, Claudio: io non sono più quello che ero; ho dedicato anni a studiare, a scavarmi, a dissodarmi, a coltivarmi, a redimermi...»
«...Cioè tu hai ottenuto una falsa identità protettiva, da parte di un qualche governo?»
«Esattamente; per informazioni di estrema importanza e gravità. La mia vita, in realtà, da molti anni è appesa a fili sottili, che molti vorrebbero tagliare...»
«...È pazzesco!... Ogni volta che tu mi riveli cose nuove, sono cose pazzesche! Io non ce la faccio più a seguirti. Sto distruggendo la mia vita dietro alle cose che tu mi offri, e non riesco più a credere a una sola parola di quel che mi dici! Cervetto e Salomone e Lanzetti e Liszt compresi! Tu sei un pazzo, e vuoi far impazzire anche me!»
«...E anche Popper?»
«Quello sarà la più ingegnosa delle tue trovate! Su, signor Joseph Dutilo, avanti, dimmi dove sono i documenti!!... Hai capito? Voglio i suoi documenti! Voglio i documenti del violoncello! Atti di vendita, di proprietà, attestati, dichiarazioni d'autenticità! Voglio foto, filmati, testimoni vivi e parlanti! Voglio la verità!!»
«...I documenti si falsificano con una facilità che neppure t'immagini...»
«Li voglio lo stesso! Tirali fuori subito!!»
«Ecco, tieni, guarda! Questa è la mia carta d'identità! La vedi? Sai leggere? "Hans Haas, nato a Vienna il 10, 11, 1924; celibe, commerciante, segni particolari: nessuno; abitante in Neulinggasse numero quattro; valida fino al 31 dicembre 1999". Contento? Annusala pure, guardala con la lente, col microscopio! È falsa; è solo una carta d'identità falsa. Eppure è vera...»
«...E del violoncello cos'hai?»
«L'attestato di Wurlitzer, quello della vendita, e la sua autentica; dei Guadagnini non rimane nulla: sai benissimo che durante l'ultima guerra uno spezzone incendiario cadde proprio sul loro laboratorio, in piazza San Carlo, a Torino, e tutto il loro archivio fu distrutto dal fuoco... trovarono solo la cassaforte intatta: era grande quanto una stanza; l'aprirono, ed ebbero la visione di tutti quegli strumenti che parevano ancora interi, intatti; appena li toccarono, però... finirono tutti in briciole: erano carbonizzati, come in un orribile forno crematorio...»
«Smettila di incantarmi con le tue storie favolose! Non riesci a distrarmi con questi tuoi violini di "folgorite"! Dove sono i documenti? e le prove?!»
«È tutto in una cassetta di sicurezza, in Svizzera, intestata a un altro nome di copertura: quello che avevo allora.»
«E qual era?»
«Basta. Ti ho già dato anche troppe informazioni pericolose. A suo tempo, tornerò a Ginevra, prenderò tutte le mie cose dalla cassetta di sicurezza, e ti prometto che avrai anche quei documenti e le prove che ho in mio possesso. Capisco perfettamente il tuo stato d'animo, e ti faccio una promessa su ciò che ho di più caro nella vita che ti consegnerò tutto a suo tempo. Per il momento, se metto piede in Svizzera, io rischio di sparire per sempre. E non voglio che tu mi chieda il perché!...»
«...Sì, capisco... capisco... va bene... e ti chiedo scusa; evidentemente io sono davvero stupido... stupido e sotto stress. ...Ma capirai che tutto quello che mi sta succedendo è un inferno insopportabile!»
«No, no, l'inferno è ben altra cosa. Tu, piuttosto, stai cercando in tutti i modi di sfuggire al tuo compito! Ti comprendo, è qualcosa di troppo difficile. Ci vuole molto tempo per capire cosa fare, come scegliere, dove guardare. Quel violoncello, dopo il '45 è stato offerto, consegnato, persino imposto a diversi altri famosi violoncellisti. Nessuno l'ha mai voluto tenere: nessuno l'ha mai voluto suonare in pubblico, nessuno ha mai avuto il coraggio di promuoverne l'uso in concerti per la memoria dell'Olocausto, per meditarne l'orrore, per esortare il mondo al pentimento... è tornato in Europa, nuovamente in Inghilterra, poi in Francia, in Italia, in Svizzera. Hanno continuato a proporlo e riproporlo, ma tutti, sempre, invariabilmente, hanno detto: "oh, no, è troppo, non possiamo.", oppure: "no, non si può trattare un argomento come l'Olocausto a mo' di spettacolo, con melodie strappalacrime da baraccone!"; altri sono stati più precisi, nel loro rifiuto. Qualcuno l'ha giustificato più o meno con queste parole: "Lasciamo, semmai, che sia la musica pura a parlare, e non contaminiamola con le parole, o con un oggetto che può solo più destabilizzare il pubblico, per la sua eccessiva eccentricità: ormai non più nobile, o aristocratico, com'è diventato con tutte le sue "fratture", e dunque non più violoncello; quello strumento è diventato solo un 'essere' muto, il simbolo silenzioso d'un fenomeno terribile e indesiderabile: quello per cui, dopo Auschwitz, non si può più fare poesia."»
«...Ma... non fu Adorno, a dire quest'ultima frase?»
«Sì, fu proprio lui. E se ne pentì quasi subito.»
«Se ne pentì?»
«...D'altronde l'aveva detta, e c'era una forza terribile e inquietante in quell'idea, così, sebbene suo malgrado, quella frase resta una sequenza di parole che è stata pronunciata, e vive nelle idee che ne conseguono...»
«...Questo quindi è il problema che io dovrei cercar di risolvere? Offrire all'intelligenza e al sentimento una nuova opportunità... per rendere la poesia capace di contenere in sé, simultaneamente, anche la più razionale lezione della memoria storica?»
«Questo è quanto parrebbe riuscito, o realizzato nell'opera di Primo Levi; tu puoi esprimere in mille altri modi concetti simili o dissimili a questo; il punto è che in quel violoncello non c'è nulla che si possa o si debba teorizzare per possederne il controllo: tu sei violoncellista, e non devo insegnarti io che il violoncello non lo suona la teoria, ma la pratica. È nel suono che si manifesta la visione della verità: l'unica verità possibile, ovvero l'unica verità infalsificabile.»
«...Non ho detto altro che questo per anni!...»
«Può darsi, ma a chi l'hai detto?»
«L'ho ripetuto mille volte, a me stesso e ad altri, e solo ora finisco con l'accorgermi che facevo solo teoria...»
«Parlami di questo, allora.»
«Proprio io, proprio con quell'idea in testa, mentre cavavo suono dal mio strumento separavo in me stesso due mondi: quello della parola a un tempo, e quello della visione acustica a un altro. L'illusione è stata quella di poter connettere quei due mondi con l'intelligenza, un giorno o l'altro, in modo razionale, pienamente cosciente... ma la realtà è un'altra... la realtà si manifesta nel non connetterli affatto, neppure nell'esperienza emotiva: l'intelligenza rifiuta d'ibridarsi con l'emotività, e viceversa...»
«Va' avanti...»
«Quando accade che quei mondi si fondono, nasce una contaminazione dissonante, qualcosa che si espande in una sorta di limbo informe... è come sterile, chiusa su se stessa, incapace di comunicare alcuna complessità. È pericolosa, perché genera caos, cioè disordine incontrollabile, indominabile. La contaminazione scavalca le difese, le barriere all'errore che secoli, o millenni di esperienze sedimentate sono riuscite a fabbricare nell'essere umano; la contaminazione disintegra in un istante quelle barriere, e instaura una legge nuova, un nuovo "codice genetico" dal quale si formano connessioni caotiche quanto l'origine di quella condizione stessa.»
«Ma questo non ti sembra un fatto naturale?»
«Non lo so... È l'esatto contrario di quel che succede in natura, dove gli accoppiamenti fra tipi umani diversi pare risolva i danni genetici a cui tende un gruppo troppo invecchiato, poiché i geni si rinnovano e arricchiscono grazie alle differenze...»
«Ah, certo; purché l'ibridazione avvenga, ad esempio, fra un aborigeno e un europeo, e non fra un uomo e una scimmia, ovvero fra quelle che sono autenticamente razze diverse.»
«Sì, nella natura è così. Nell'arte e nel pensiero sembrano innescarsi invece processi autodistruttivi, strade senza ritorno...»
«E tu credi che ci possa essere una sorta di "scienza genetica" nell'arte?»
«Beh, in una certa maniera, quella "scienza" è lo "stile" e il progresso degli stili: si comunica per schegge, frammenti, sequenze di idee e connessioni, tutte caratterizzate dalla stessa impronta...»
«Allora tu non vuoi proprio credere che solo il suono di quel violoncello possa -non solo idealmente, ma pure materialmente- generare condizioni capaci di innescare fenomeni di trasformazione della realtà e della materia?»
«Santo cielo... queste sono faccende da magia medioevale, o da narrativa gotica... però, in una certa maniera, succede realmente qualcosa di concreto, di "fisico": c'è nel corpo qualcosa di simile a un rispondere, o corrispondere, ai suoni che lo rappresentano, come se fosse chiamato all'appello; quando il corpo risponde, adatta se stesso muovendosi nelle direzioni di quel richiamo: si commuove...»
«Spiegami.»
«Per darti un esempio, -oltretutto, un esempio molto pertinente, visto ciò che ora conosco- qualche tempo fa, una violoncellista che vuole diventare mia allieva mi ha chiesto se riuscivo a spiegarle come mai il suono del mio violoncello invariabilmente le causava un'abbondante lacrimazione, qualsiasi cosa io suonassi sulla terza corda. Conoscevo già molto bene questo effetto, osservato con regolarità a tutti i miei concerti con il nostro violoncello. Per potermi spiegare a lei, le suonai lì per lì una melodia che può essere tanto maestosa quanto contemplativa, o persino appassionata, ma difficilmente diventare patetica o dolorosa: il tema che il violoncello solo suona come incipit della terza Sonata di Beethoven opera 69, in La minore. Subito gli occhi della ragazza diventarono lucidi; continuai ancora per un poco, solo su una nota lunga: il La basso, la tonica della Sonata. Dopo qualche secondo stava già cominciando a lacrimare, così le chiesi di dirmi qualcosa. Appena cominciò a parlare, potei farle notare che il suo timbro di voce era diventato simile a quello della mia terza corda.»
«Impressionante! e lei cosa rispose?»
«Lei rimase sbalordita nel constatarlo, quasi spaventata; io allora le spiegai che quando le mucose facciali si irrigano di sangue, in quel momento si gonfiano, e le ghiandole lacrimarie cominciano a spremere il loro liquido; ecco allora che la voce prende quel timbro particolare. Ciò accade a tutti, non solo in lei. Per qualche misteriosa ragione, i legni del mio violoncello rendono proprio quel timbro, e ben più di tutti gli altri strumenti; questa era la causa del pianto dei miei ascoltatori, in qualsiasi modo io suonassi la mia terza corda.
Ora, quella corda, nel violoncello, è sempre patetica: vi si suona il dolore, la nostalgia, l'introspezione più drammatica e altri sentimenti simili; ma su questo Guadagnini l'effetto è assicurato. Come mai? Forse semplicemente perché il corpo di ogni animale risponde sempre al richiamo del suono di altri corpi simili...»
«Ve bene, ma questo è il linguaggio del corpo, che può comunicare anche attraverso Beethoven o Mozart. E andando ancora più in là? Che succede quando ti avvicini alla parola, col tuo violoncello?»
«Comunico con le "assenze". Era stato Barthes a indicarcelo: ci faceva osservare che un violino, o un violoncello, possono "cantare" più di un Soprano o di un Baritono, e ciò accade perché, nei fenomeni sensibili, le cose si manifestano con maggior evidenza proprio là dove esse sono assenti. Ecco allora che la voce umana, -e dunque anche l'impressione, il "calco" di una parola, o il "suono" di una lingua-, evocata per somiglianze, o attraverso rappresentazioni, è qualcosa che si percepisce come una "presenza" più forte, più penetrante, persino più significante, quando essa si è generata esclusivamente all'interno del mondo di chi ascolta, senza intermediazioni.»
«...E il suo significato è universale...»
«Infatti. Ricordo che una volta, giocando al paradosso, un amico attore mi disse di intrattenere il suo pubblico standosene tutto solo sul palco per l'intera serata a dire "parole". Una persona che era presente a questo dialogo, chiese: "parole di chi? chi le ha scritte?", e l'attore rispose con aria canzonatoria: "scritte da colui che ha composto il dizionario!"; "sì, ma chi è l'autore del testo che reciti?", chiese allora; e l'attore, spiegò: "il pubblico! ...Cercate di capirmi," aggiunse a quel punto, "la gente è tutta così satura di parole, che io non gliene posso aggiungere altre in testa. Allora dico tante parole a caso, tutte di seguito, a volte arrabbiato, altre addolcito, poi triste, e poi euforico!... Le scelgo dal dizionario: le più belle, quelle col suono più ricco, attraente. E la gente ascolta contenta, ognuno immaginando di ascoltare la sua storia: quella che gli sto narrando io...". Ecco allora che quella persona guardò a lungo l'attore, poi guardò me, poi ancora l'attore, e disse, con tono d'intesa: "dunque tu non reciti un testo: tu fai musica!"; l'attore mi passò la parola, con una certa gioviale complicità, e io risposi in modo che non soddisfece né l'uno né l'altro, perché nessuno dei due capì: "No, -dissi- la musica non si può fare con le parole: si possono tutt'al più usare i nomi. Ma quel che ha fatto quest'attore è stato ben peggio: ha liberato fino in fondo la parola all'immagine, e l'immagine ha definitivamente imprigionato la parola nel caos; questo è ciò che era successo a Babele, ed è ciò che mise in disgrazia il mondo."»
«E loro capirono?»
«Credo di no... Quella volta non ebbi modo e tempo per spiegare, ma se l'avessi avuto mi sarei dilungato sul dire che da quando nella vita dell'uomo l'immagine è diventata un veicolo di comunicazione più veloce della parola, l'uomo ha continuato ad accumulare immagini, ad archiviare figure dialettiche, creare nicchie nelle parole per contenere altre immagini; e possono contenerne molte, troppe, perché chiudendole dentro agli spazi sempre più esclusivi e ristretti, nella saturazione, nel tempo congestionato della vita, diventa sempre più difficile liberarle; in un esempio: ci si è fatti un'immagine degli ebrei, per accettare e permettere l'avvio delle leggi razziali, con ciò che ne è conseguito nel nostro secolo, esattamente nello stesso modo in cui ci si fa un'immagine di cosa è buono e di cosa non lo è, e si finisce così col dirigere, senza accorgercene, l'intera economia di un mercato in continua urgenza di rinnovarsi ed espandersi, facendone subire le conseguenze all'intero pianeta...»
«Sagge osservazioni...»

[..........]

«Quando però io posso aggiungere alla musica un nome, un nome come "Auschwitz", qual è dunque la connessione con la realtà storica che io le posso consegnare?»
«...Temo che sia solo una connessione debole, emozionale, sentimentale... fragile...»
«Ecco quindi che temo avesse ragione Adorno, dicendo che dopo Auschwitz non si può più fare, o dare, poesia. Ma -e questo è peggio- Adorno, articolando quella frase, forse non aveva tenuto conto del fatto che in una graduale salita a una comunicazione nell'astratto, in una dissociazione del pensiero poetico dall'irrazionale, ci sarebbero state ben presto più parole irragionevoli scritte e pronunciate nella musica, dentro la musica, con la musica, di quante la poesia e la letteratura insieme avrebbero mai potuto contenerne!»
«E come?»
«Vedi, anche spogliando della parola l'atto poetico, l'animo resta aggrappato nuovamente alla parola, per effetto del fenomeno ormai inevitabile -chissà? forse perché troppo lungamente esercitato, proprio nella musica- dell' "assenza"; essa è un "luogo", appunto, in cui l'oggetto -nome, immagine o parola che sia- si manifesta con maggior evidenza.»
«...Quindi tu vuoi dire che a ben vedere, gradualmente, percorrendo in diversi modi queste idee, questi pensieri, queste osservazioni dentro alle tradizioni musicali antiche, attraverso le voci di un tetracordo così antropomorfo com'è il violoncello, si giunge inevitabilmente, prima o poi, di fronte al tetragramma di Dio, e lo si guarda sbalorditi: esso è un nome, ma non puoi chiamare nessuno con quello; esso non ha suono, non si pronuncia, non si articola fra gola e naso, lingua e bocca, non si sente con le orecchie...»
«Sì, è così. Quando con le quattro corde del violoncello io voglio conquistare l'attenzione del pubblico, io non "articolo" i suoni di una qualsiasi composizione musicale in note staccate o legate, lunghe o brevi, forti o deboli secondo la partitura, nella sua rete degli accenti; io raggiungo il cuore dell'ascolto del mio pubblico, solo quando quei suoni li "pronuncio", dando alle "consonanti" d'un testo immaginario una pronuncia precisa e cosciente, facendo d'ogni consonante il mezzo per proiettare i suoni nell'ambiente, sia esso la sala in cui espando i miei suoni, o un luogo mentale, dentro all'essere che ascolta: così io lo raggiungo e gli "parlo". Ma anche quando quella prima comunicazione si è instaurata, ciò che ho potuto offrire continua ad essere diviso fra due universi separati: consonanti mute in un luogo, vocali risonanti in un altro; così com'è, restando dubbiosi di fronte alle quattro consonanti senza suono del nome ebraico di Dio...»
«...E in quanto al "Nome" con cui comunichi musica?»
«Tutte le cose che il musicista può condurre ad essere o divenire "nomi", possono giungere infine presso il "Nome" di Dio, ad essere anch'essi "Nomi" del "Nome", mostrandosi come un mondo separato ma ordinato ai suoi piedi. È così che il cabalista presenta i cinque libri di Mosè, la Toràh: il grande, il lungo nome di Dio, in cui leggiamo narrazioni e comandamenti, insegnamenti etici e morali, ma, soprattutto, nel quale potremo un giorno possedere la "partitura" della musica divina: quella con la quale Dio creò l'universo, e nella quale è cifrato l'ordine dell'universo stesso, fissato, e contenuto, nella chiave ineffabile del suo nome di quattro lettere...»
«Solo in lingua e scrittura ebraica...»
«...Forse, per assurdo, proibire, abolire definitivamente ogni religione, ogni pensiero e idea mistica, abolire la musica che si rivolge a quelle idee, cancellare il senso del divino nel suono, finirebbe per cancellare l'idea stessa di Dio, e diventeremmo così capaci di "creare", nella materia, concretamente, solo usando la "parola": con l'idea che forma altre idee che la realizzano. Creeremmo mondi a nostra immagine e somiglianza, destinati a diventare vecchi e depressi nel breve tempo dell'uomo, e ad osservarci con lo sguardo vuoto e mostruoso del Golem...»
«Già, appunto quelli: mostri formati dalla recitazione sconsiderata delle sacre permutazioni del Nome ineffabile di Dio...»
«...Taceremo quel "Nome": per comandamento divino, e per incapacità fisica. Forse io dovrò tacere anche il nome di "Auschwitz", per ragioni simili, ma banalmente connesse all'imperfezione più grave del mondo: il suo sfuggire alla verità, il suo arrestarsi nel cammino della conoscenza di Dio, la sua tendenza a volgere le spalle alle direzioni del divino...»
«...Ascoltami bene:chi si inorgoglisce per la sua conoscenza della Torah sull'ignorante, meglio sarebbe che non fosse mai nato... Amico mio, quando le quattro lettere ebraiche del nome di Dio, Jod, He, Vav, He, diventano le cinque lettere del nome latino di colui che dovrebbe essere lo stesso Dio, Ieova, o Geova, o quel che ti pare, quella quinta lettera ha generato l'illusione di parlare con Dio perché lo si è evocato nel suono; perché, nominandolo, egli esiste. Nel "Mercante di Venezia", sai cosa fa dire Shakespeare a Schylock, quando Bassanio lo invita a cena? "Sì, -dice il sordido strozzino ebreo- ad annusare maiale, a mangiare di quell'abitazione in cui il vostro profeta il Nazareno ha evocato il diavolo!". È un'immagine sibillina, sulla quale si sorvola, negli studi shakespeariani: giusto una formula contorta, per raffigurare questo giudeo irrecuperabilmente prigioniero del suo errore. Ma tu hai mai letto le Toledòth Jéshu, le storie di Gesù che si scrivevano e leggevano nei ghetti?»

[...]

«[...] No, non conosco quei testi; sono solo informato della loro esistenza, e poco più.»
«...Beh, fa lo stesso. In alcuni di questi scritti, il fatto che Gesù facesse miracoli prodigiosi e attirasse su di sé l'attenzione e l'amore delle folle, è attribuito al fatto che quel Jéshu, che era un bastardo nato da un adulterio, si fosse appropriato dell'ineffabile nome di Dio, rubandolo dal Tempio. Ma come aveva fatto?
Il Tempio, ci raccontano quelle storie, era difeso da due o tre cani enormi e feroci; dunque era impossibile entrarvi, a meno che non si potesse diventare invisibili. Ecco allora che Jéshu entrò in una carcassa di maiale e la abitò per un certo tempo, facendo riti per evocare il diavolo e congiurare con lui. Il diavolo, infine, acconsentì a concedergli il potere dell'invisibilità, e solo così Jéshu poté penetrare nel Tempio, rubare il Nome, e finalmente poter compiere miracoli meravigliosi, come resuscitare i morti, guarire gli ammalati, moltiplicare le cose, creare palazzi favolosi, e persino volare, leggerissimo, su per i cieli.
Com'è facile immaginare, questo tipo di storie aveva un'enorme successo fra la gente dei ghetti, poverissima e oppressa, ma imbarazzavano, anzi, terrorizzavano i Rabbini, che vedevano bene quanto aumentasse il pericolo di violenze e persecuzioni proprio con la diffusione di quelle leggende.
Nonostante ciò, è evidente che il bisogno di conforto cui quelle letture rispondevano, dopo le ore mattutine della domenica, quando gli ebrei erano costretti a sentire, stando in piedi e zitti, le prediche coatte che i buoni e pii frati gli imponevano, faceva sì che si continuasse a scrivere, copiare, conservare e leggere variazioni e interpretazioni di quella letteratura, cui faceva riferimento, appunto, anche Shakespeare...»
«Yes, to smell pork... sì, capisco...»
«Medita su questo, Claudio: non rendere il tuo violoncello una cornamusa caduta dal cielo, tra le mani del pastore Marsia! Quello era sì uno strumento creato dagli dèi, ma da una carcassa in decomposizione: la carcassa di un onnivoro maiale, rigonfia del fiato della vanità e della morte! Là, dentro quel cadavere dissonante, dio e demonio t'illudono di starsene allegramente insieme, di danzare in bell'accordo al suono euforico, sensuale di quelle canne da cui s'espande null'altro che l'affascinazione del "corpo" delle note. Non cercare, non trovare, non dare al tuo violoncello proprio quel timbro di voce, giusto per compiacere la corporeità, i sensi, l'emozione! Lì sta il segreto della vittoria! Lì è conservata la speranza che il suono di Dio torni ad espandersi, nel vibrare del legno di Davide e Salomone, e cambi il mondo nella sua materia, nelle sue cellule, molecole, atomi!
Quello, e solo quello è il suono della guarigione dalla malattia, dell'ignoranza, il suono taumaturgico, il suono che redime il mondo, il volo che ci è stato promesso! Medita, Claudio! Medita e umiliati, di fronte al Nome!»

 

 

-XXXII-

 

Sì, pazzo che sono stato!  Avevo già capito tutto l'inganno, e non lo sapevo! Stupido mio cervello verboso, vanitoso! Stupidi miei occhi pieni di libri di nomi di parole di lettere di alfabeti di mondi di universi di illusioni di deità di vuoti di niente di nulla di fine di zero di idea di numero di bello di nuovo di parole di fatti di realtà di modernità di libertà di leggerezza di tangibile di palpabile di concreto di materia di morte!
Memoria inutile! Perché non ha parlato solo il silenzio?
Cos'è, se non è vanità, che ci spinge con così tanta inerzia nella spiegazione, nel possesso, nella libido del vedere il senso del significato, la sua direzione? Quale rovesciamento dell'anima di Dio è il nostro rumoroso pensiero? Tutta la terra invasa, molecola dopo molecola, dalle nostre lunghe dita che indicano, scrutano, solleticano, spostano, svelano... esse non cercano affatto: trovare e solo trovare è l'inizio e il fine del loro atto! Guai a quel folle, allo sprezzante, superbo folle che cerca con la sua vanità nella parola, e trova il significato che la distrugge! Maledetto dalla terra e dal cielo! Cancro silenzioso e annichilente dell'anima immortale!
L'inferno musicale si ricreava nel mio strumento, formandosi dalle sue note poco a poco più insinuose, in figure di parole sonore, squillanti, stridenti, fragorose, terrificanti! Idolo mostruoso di armonie spente! Golem dalla voce bellissima e ingannatrice! Organo formidabile, frammentato in suoni multipli e complessi, di follia e disordine.
Rituale rovesciato, nei suoi schemi svelava il nome, lo spiegava in parola, ne rubava il suono, se ne appropriava, vi indagava negli abissi del senso, forgiava il senso nuovo nel suono sensibile, ne aboliva il significato per eleggere il significante, lo innalzava nel sentimento, fino alla catastrofe della distruzione della parola, della struttura della parola, fino all'annichilimento del nome e della lettera, la vittoria finale della follia!
Continuavano i miei passi nell'errore: ed ero fiero, orgoglioso di me stesso. Non m'importava più nulla del mio fallimento mondano: io ero destinato al sublime, alla gloria finale. Né il mondo mi era nemico; contavo, anzi, sul suo appoggio incondizionato: bastava cercare e trovare la gente, l'umanità che era già là ad attendere la mia venuta!
Io: Messia del violoncello di Auschwitz! Trionfante Lucifero nel mondo della leggerezza e velocità!

                                                                    

 

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