Il concerto privato.

 

-XIX-

Caddi in un sonno profondissimo, per circa un'ora, sulla poltrona. Attraversai sogni concitati, angosciosi, in un crescendo che mi fece risvegliare in stato di fortissima agitazione; era tardi, dovevo prepararmi in fretta per la serata. Avevo promesso al Barone di suonare con un pianista inglese, altro suo protegé, e gli avevo proposto la mia recente riscoperta delle Sonate per violoncello e pianoforte di Alfredo Piatti, violoncellista bergamasco morto nel 1901; dovevo essere pronto ad eseguirne almeno una per i suoi ospiti.
Mi sedetti al violoncello, e sul leggio posai il libro della biografia di Popper; si aprì sulla foto a piena pagina di una donna bellissima, messa diprofilo: pagina 96, "Sophie Menter, David Popper's wife of 14 years and ardent disciple of Franz Liszt. Popper liaison with Sophie Menter was stormy."
 
Sophia, tornavi di fronte a me: riconoscevo i tuoi occhi a mandorla incantati, la tua bocca carnosa, le tue narici sollevate a respirare il mondo...
 
 

 
Ripercorrevo a memoria le note di una Sonata carica di passione per la vita, eppure capace di recarsi a visitare i luoghi più vicini alla morte, come sollevasse il canto del violoncello, con infinità gravità, muovendo sul passo di un Andante solenne, così lento da quasi fermare la sabbia d'una clessidra, verso un pianto, o una bellezza talmente lontana da non poter più riportarla indietro alle nostre cose, ai sentimenti... C'è ancora qui, scritto nella memoria di questo vecchio computer in cui digito i miei ricordi, il foglietto illustrativo che avevo preparato per il Barone:
 
 
Alfredo Piatti
 
(Bergamo, 8 gennaio 1822 - Crocette di Mozzo, 14 luglio 1901)
 
Seconda Sonata, in Re maggiore, opera 29,per violoncello e pianoforte; dedicata al suo amico l'Esquire F.C. Pawle.
Prima esecuzione: Londra 5 aprile 1886; l'autore con Agnés Zimmermann al pianoforte.
Lento - Allegro spiritoso; Adagio lento; Variazioni sul primo tempo.
-Prima esecuzione in tempi moderni-
 
Violoncello di G.B. Guadagnini, 1745.
 
La musica di Alfredo Piatti, simile a un distillato delle più alte tradizioni musicali europee, resta sospesa sui percorsi musicali del '900, rivoluzionario, tragico più di ogni altro secolo della nostra storia. Essa pare consegnarci il messaggio del profondo interprete e del grande uomo: ci rammenta che le tradizioni antiche s'erano poste mète che non hanno avuto il tempo di raggiungere, e dunque proprio nella tradizione può esservi ancora un percorso possibile, e forse rivoluzionario.
Con la sua Seconda Sonata, composta nel pieno della sua maturità artistica, Piatti sembra offrirci questa sua lezione, meditando su due avvenimenti fondamentali della sua vita.
Come sua abitudine, nei suoi ultimi anni londinesi, nell'estate del 1885 era tornato in Italia con la figlia, già fidanzata al Conte Carlo Lochis di Bergamo. Ebbero un grave incidente di carrozza, in cui Alfredo si ruppe malamente il braccio destro. Appena fu in grado di muoverlo, scoprì di non poter più a suonare e credette di essere così giunto alla fine della sua carriera. Durante la lunga convalescenza scrisse questa Sonata e la dedicò a un suo caro amico, l'Esquire F. C. Pawle. Guarì infine perfettamente, tanto da eseguirla lui stesso a Londra già il 5 aprile '86, con la pianista Agnés Zimmermann.
L'8 luglio 1844 fu l'altro avvenimento: Felix Mendelssohn -che pochi giorni prima, il 24 giugno, aveva diretto una memorabile serata dei Philarmonic Concerts di Londra con Piatti come solista- chiese di suonare per pochi amici la sua Seconda Sonata in Re maggiore op.45, appena composta e ancora sconosciuta, con il "beau talent" del giovane virtuoso italiano. Alfredo suonò a prima vista dal manoscritto dell'autore, e ricordò sempre quel concerto come il più importante della sua vita, proprio nell'anno in cui cominciò la sua fortuna. È certamente per questo che nella sua Sonata, dopo una breve, intensa frase d'apertura di carattere grave e solenne, inizia un Allegro spiritoso carico di forza vitale, di gioia di vivere, composto nella stessa tonalità, tempo e ritmo di quello di Mendelssohn; quasi un omaggio, o un ricordo del Maestro che il virtuoso bergamasco amò più d'ogni altro, e indicò con la sua arte a modello dei suoi ideali di bellezza musicale (Mendelssohn, dal canto suo, iniziò a scrivere per Piatti un Concerto per violoncello e orchestra, ma perse i suoi appunti durante un viaggio, e non lo portò più a conclusione).
Dopo la splendida pagina meditativa dell'Adagio lento, capolavoro di introspezione, la Sonata si conclude con delle Variazioni del I° tempo, a confermare l'omaggio al grande Maestro tedesco, consegnandoci nel contempo una formidabile prova del suo virtuosismo: nella bravura acrobatica e nell'espressione del sentimento. Il virtuosismo e la cantabilità che per oltre due secoli furono la gloria dei musicisti italiani, avevano in Alfredo Piatti un Maestro e un conservatore, ma ritrovavano nella sua musica anche tutta l'antica vitalità e grandezza.

 
 
 
 
È curioso: rileggendo adesso questo testo, mi accorgo che avevo tralasciato il mio nome, limitandomi ad essere un violoncello di Guadagnini del 1745...
No: niente sentimenti. Era assolutamente necessario che io mantenessi il perfetto controllo di quella serata; in un modo o nell'altro io mi giocavo la carriera proprio a cominciare da quell'informale concerto per gli intimi del Barone: era gente che mi avrebbe protetto da qualsiasi invidia, oppure lasciato a me stesso, e io, ora, ero ben cosciente della mia condizione di grave debolezza, se fossi rimasto indifeso. Era necessario un distacco totale, una freddezza interiore che mi permettesse di non sbagliare, di dominare pubblico e pianista.
Alle sette in punto ero nell'ampia sala di musica del Barone. C'era moltissima gente d'alta classe intorno a un tavolo da cocktail e sparsa nella sala; il Barone mi venne incontro quasi subito, insieme al giovane pianista inglese. Questi era un ragazzo con occhi glaciali, bellissimo, e l'avrei detto tedesco piuttosto che britannico, così privo com'era della simpatia che ci si attende dagli inglesi. Era una specie di statua di ariano, così come le scolpivano negli anni Ttrenta, e quasi muto quanto quelle.
Chiesi subito una stanza per preparare il mio violoncello, e mi rifugiai in un elegante salottino lontano dal chiasso della gente. Avevo paura, anzi, ero terrorizzato. Spalancavo le braccia per distenderle, far circolare meglio il sangue fino alle mani ghiacciate. Maledicevo me stesso per essermi data tanta pena a studiare una Sonata tanto difficile, per poi essere pure così stupido da sceglierla proprio per quella serata.
Venne a chiamarmi il maggiordomo. Nella sala tutti erano seduti in silenzio ad attendermi: il padrone di casa mi aveva già presentato con un breve discorso ai suoi amici; il pianista sedeva al suo posto e m'inviava sorrisi rassicuranti; avremmo suonato per la prima volta insieme in quel momento, senza prove: era il divertimento del Barone.
Alzai verso gli occhi di quel giovane genio l'arco, e lo distesi come il fioretto nelle mani del maestro di scherma. Vidi il suo sguardo cedere il sorriso e la freddezza, lasciar posto a un timore, e su quello, sull'istante della sua debolezza, l'attaccai. Il mio suono giungeva solo alla settima nota del pianoforte, ma fu come se io avessi suonato quella tastiera, e quando la prima nota del violoncello cominciò a espandersi nella sala, io stesso mi sentivo venir meno, risucchiato nella sua incredibile potenza, proiettato immediatamente nello spazio superiore che essa aveva creato.
La Sonata si sviluppò in modo trionfale, attraverso un Adagio dove ognuno poteva vedere e toccare l'istante ultimo della sua vita, in un contatto quasi sensibile con l'abbandono del peso del mondo, come anima gentile e leggerissima che scivolava via dalle cose, le perdeva per sempre, si dissolveva nell'oceano di vuoto e stelle, verso il mistero della sua origine.
Giunse l'applauso sul riprendere del respiro, sul rilasciarsi del corpo appagato. Il pubblico era contento, il pianista era vinto, il Barone soddisfatto. Fui richiesto per il bis, e mi sentii incapace di riprendere il duello col pianoforte. Prima che il sorriso invidioso di quel giovane Apollo potesse raggiungermi con la domanda di quale pagina suonare, il mio braccio cadde sulle corde e cominciò ad eseguire il primo preludio di Bach.
Lo suonai con ferocia, controvoglia, sguaiatamente. Mi era impossibile fermarmi a metà, dovevo concluderlo così come l'avevo cominciato, ma odiavo quel suono che ne scaturiva, e odiavo il momento che l'aveva fatto iniziare. Furono due minuti soli, ma ne ebbi disgusto e li conclusi con un gesto quasi di rabbia. L'applauso fu formidabile: erano tutti in piedi, a bocca spalancata, gli occhi fissi sui miei, in un fragore infernale. Il Barone corse al mio fianco continuando a battere le mani, alte verso il mio volto, volgendo la schiena al pianista sconfitto.
Seguì un lungo discorso ai suoi ospiti, nel quale disse del miracolo ineffabile, del dono divino, del piacere superiore, della barriera alla barbarie, all'anticristo della degenerazione del gusto musicale, del messaggio eterno, incorruttibile che il vero virtuoso conserva in sé: e tutto quello ero io, cui ogni nobile intelligenza avrebbe dovuto chinare il capo in umiltà. Poi invitò tutti alla cena e alla festa, nel salone a fianco. Subito un quartetto d'archi cominciò a suonare musica di Mozart da quel salone, e tutti si diressero ai tavoli.
Chiesi di ritirarmi, e il Barone fu felice di concedermi questo privilegio: confermava la mia diversità e superiorità dal resto del mondo. Avevo vinto. Ero stremato.
 
 
 
-XX-
 
 
Passai circa mezz'ora da solo, nel salottino, sdraiato sul sofà, assorto in unpensiero vagante: Caporale vinto da Cervetto. Eppure Caporale doveva essere un uomo ben diverso da questo idolo ariano di pianista che avevo sopraffatto: piccolo, non bello, non biondo o candido come gli angeli e i Serafini, dotato sì di molte qualità, ma di quelle sbagliate per la sua posizione sociale. Questo pianista, invece, leggeva con naturalezza torrenti impetuosi di note, li dominava con una precisione e una sicurezza inimmaginabili, li piegava alla sua volontà come un dio antico, e del dio antico, per di più, aveva l'aspetto.
Il maggiordomo era venuto subito ad occuparsi di me, per far sì che mi sentissi a mio agio, per farmi sapere che era a mia disposizione nel caso volessi qualcosa da bere o mangiare, e io mi ero fatto portare una grande tazza di latte.
Poi arrivò il Barone, esultante.
«Ah, Italia! Patria di mistici e visionari! Solo nel suo paese possono nascere geni come lei, mio magnifico Maestro!»
«Sono contento di averla soddisfatta, Barone.»
«Soddisfatto? Cosa troppo misera, al confronto di quel che ci ha dato! Noi siamo stati elevati da lei: c'è qualcosa che ci avvicina all'immortalità nel dono che ci ha consegnato con la sua musica!»
«La "mia musica" era quella di Alfredo Piatti...»

«Oh, no, quella era marginale: solo il "veicolo" del suo miracolo musicale; lei esprime attraverso una poetica che è molto al di sopra di qualsiasi composizione!»
«Vuol dire che non ha trovato bella la Sonata di Piatti?»
«Suvvia, non mi deluda con queste domande...»
«No no, per carità! Ma la sto rubando ai suoi ospiti; crede che io sia veramente troppo scortese a non mischiarmi alla folla, stasera?»
«No, tutt'altro! E non si preoccupi per loro: li ho messi tutti nelle mani di mia moglie, che sa perfettamente come trattarli, e molto meglio di me. In ogni caso, non si parla d'altro che di lei! Io ho tardato a raggiungerla perché non riuscivo a staccarmi dal nostro Generale di Corpo d'Armata, l'ufficiale in alta uniforme piena di decorazioni! Lei l'ha completamente stravolto, quell'uomo: non riusciva più ad articolare un discorso sensato, continuava a descrivere la visione che ha avuto stasera, nella quale lui ha contemplato l'eroe arcaico, ad impugnare la spada sacra del suo archetto e comandare alle anime di piegarsi alla grandezza di Dio! Non riuscivo più a fermarlo, tanto era esaltato.»
«L'ho notato: fremeva sulla sua poltrona di prima fila. A dirle la verità, credevo non sopportasse la musica...»
«Ah, infatti lei ha proprio ragione! Riusciva solo a sopportare grandi concerti sinfonici, o al massimo musica per pianoforte; ma questa sera lei gli ha aperto un universo davanti agli occhi: l'ha "iniziato"!»
«Buon per tutti noi. Che dice il giovane pianista?»
«Dire qualcosa? Ma non ha notato che è muto
«No: parla
«A sì? Non me n'ero accorto! Cosa vuole che dica una macchina per leggere note? Non sa neppure cos'è successo intorno al suo pianoforte! È stato lei a far suonare le sue dita sulla tastiera!»
«Di questo sono cosciente...»
«L'ho ben visto. Piuttosto, mi ha molto divertito l'unico rappresentante della nostra orchestra che ho voluto invitare stasera: la spalla dei violini. In realtà avevo deciso d'invitarlo solo per far crepare d'invidia quel nostro mediocre direttore stabile: è una vera nullità, anche se conosce bene il suo mestiere e ci fa comodo per tenere in perfetta efficienza l'intera macchina orchestrale.»
«Questo è divertente. E cosa dice il violinista?»
«Non parla più neanche lui! È in piena crisi esistenziale! Poveretto, credeva di sapere esattamente cosa è bello e cosa non lo è! Noi l'abbiamo destabilizzato, l'abbiamo messo in crisi acuta a proposito dei suoi confortevoli valori professionali!»
«Mi conforta vedere che lei trova tutto ciò positivo...»
«E come potrebbe non esserlo? Se lasciassimo la musica alla loro professionalità, ne morirebbe in pochi decenni. E intendo pure il mercato, qualsiasi cosa ne pensino i benpensanti che ho lasciato di là a pascersi. Lei è un genio, Maestro, e presto se ne accorgeranno tutti con la mia stessa gioia.»
«E lei è troppo buono con me. Io vorrei avere un po' più di precisione nelle mie esecuzioni; a volte mi sembrano troppo approssimative...»
«Aristotele diceva: la precisione del matematico non è la stessa dell'Architetto.»
«Io sarei l'Architetto?!»
«Certo: con la sua tecnica lei costruisce un Tempio in cui noi possiamo penetrare e vedere Dio. Altri cercano di svelarlo attraverso la contemplazione o la fiducia cieca nel numero, ma quando pare ci riescano, sono sempre soli.»
«Citazione per citazione, Platone scrive che il tempo è l'immagine in movimento dell'Eternità. Io meditavo anche su questo, poco fa, qui sdraiato su questo divano. Ora, mi permetta di farle una domanda, che necessita di una premessa: io ho voluto offrirvi una Sonata inedita dello sconosciuto, o meglio, ignorato compositore Alfredo Piatti, perché volevo proporre la figura dell'interprete secondo una visione più alta e complessa di quanto non si faccia abitualmente. Vi ho proposto, insomma, la composizione di un grande Maestro dell'interpretazione di Bach, di Beethoven o di Mendelssohn, ovvero della tradizione, che tramite il suo contributo si è conservata ed elevata attraverso il tempo; ciò a dire che vi ho offerto di meditare sull'idea per cui le grandi tradizioni hanno proclamato valori che ancora non sono stati realizzati, e quindi, per conseguenza, proprio la tradizione è giunta ad essere, oggi, rivoluzionaria.
Questo significa che in un mondo che tende sempre più ad arrestare il suo cammino spirituale, di fronte all'illusione del progresso, o all'esplodere del terrore dell'invisibile, la rivoluzione che torna ciclicamente a scioglierci dai lacci della crisi e metterci su nuovi sentieri, oggi diventa, al contrario, necessaria per riprendere il cammino interrotto.
Poi io mi seggo a suonare di fronte a voi con questa bell'idea in testa, con l'oggetto di questa tradizione, e mi ritrovo così fuori dal tempo e dallo spazio, che tutta la storia dell'uomo mi sembra compressa in un punto, e che sia null'altro che una ripetizione eterna di se stessa, in varianti minime, nelle quali coltiviamo solo l'illusione di un movimento verso qualcosa di ineffabile...»
«Ma quest'idea è bellissima! L'ha già scritta?»
«Beh... è nel foglio che abbiamo preparato per il pubblico di stasera...»
«A sì? Magnifico: coglie esattamente l'esigenza sostanziale del nostro tempo. Molto bene...»
«Ma la mia domanda...»
«Certo, la sua domanda... bene, vede, in un tempo come il nostro, saturato di individualità che gridano con forza il loro diritto ad essere presenze nel mondo, succede semplicemente che non c'è più spazio per nuove opere. Abbiamo troppi creatori di oggetti d'arte, e troppo pochi creatori di spazio e tempo per conservarle e goderne i frutti. Allora noi creiamo oggetti virtuali, come i miti effimeri che la televisione e i mass media possono imporre un giorno e far dimenticare quello dopo, generando un senso di soddisfazione e appagamento nella gente semplice, ma non in noi stessi, quando si è avuto prova di come si costruisce l'anima del mondo o la verità... ora lei vorrebbe convincermi che l'artigiano Alfredo Piatti, se si moltiplicasse come un Bach o un Beethoven nella frequentazione che altri, di diverse epoche, di diversi saperi, fanno delle sue opere, diverrebbe un grande? Ma non ha bisogno di persuadere me: io sono perfettamente d'accordo su questo fatto. È l'elezione di un uomo a modello da imitare che lo rende grande, attraverso l'opera combinata del soggetto, dell'oggetto della sua arte, e dell'uso che ne fa la storia. E quest'elezione la fanno altri uomini. Ma quando si giunge a intuire che la storia è solo l'illusione di un movimento dell'eternità, come lei m'insegna, tutti questi prodotti del tempo e della storia ci dovrebbero apparire come cose risibili.»
«In effetti, la mia domanda finiva coll'essere, semplicemente, se le era piaciuta o no la Sonata di Piatti...»
«No, amico mio, lasci perdere questi recuperi da musicologo; li lasci fare a chi non ha niente da dire, niente da trasmettere! Che bisogno crede d'avere per gettar via il suo tempo a ripescare dal dimenticatoio della storia qualcosa che, appunto, è finita lì perché non ce n'è bisogno, né c'è più spazio per conservarla? Queste sono le patetiche ricerche di un mondo di mediocri spazzini delle stanze della memoria: quando nel passato essi erano gli "storici", la nobiltà della loro professione era evidente, poiché essi eleggevano fatti e significati avvenuti in un tempo lineare, e li consacravano a un tempo assoluto, in un'eternità, appunto. Ma oggi non rimane più nulla di tutto questo: è "tutta vanità e pascersi di vento", ultimi rigurgiti di un'umanità destinata a scomparire, annullandosi da sola, persino a causa dell'insoddisfazione, del disgusto che presto avrà per se stessa... vede, il nostro secolo si conclude su un sapere frammentato in piccole specializzazioni disperatamente in cerca di informazioni e nozioni nuove per nutrirsi nel loro guscio; ciò non porta ad altro che alla constatazione dell'incompiutezza dei saperi, ed è una constatazione grave e deprimente, ma solo per coloro che hanno sempre creduto solo nel progresso dell'intelligenza umana. Io sono nella posizione per vedere il ridicolo che è nascosto in queste illusioni... lei mi capisce?»
«Credo...»
«Sicuro! Ne ero certo! Lei è un eletto, un essere superiore, in cui sono infuse le nozioni essenziali del mondo... la prego, mi segua nel mio studio, vorrei mostrarle delle cose.»
Entrammo nei suoi appartamenti privati: c'era un lungo, impressionante corridoio alto e stretto, completamente rivestito di libri fino al soffitto; mi portò poi attraverso tre sale oblunghe, dove quella presenza di dorsi stampati in diverse forme e colori continuava ininterrotta, senza finestre, come i caveau delle banche, e infine mi introdusse in quello che mi presentò come il suo rifugio dalla stupidità del mondo: il suo studio.
C'erano ancora le librerie a coprire interamente le pareti, ma coperte a loro volta da enormi quadri astratti, di particolare bruttezza, privi di qualsiasi fascino o attrattiva: «roba inutile...» mi disse, indicandomeli.
«Impressionante!», osservai.
«Si accomodi pure su quella poltrona: è quella su cui io amo rilassarmi e pensare. E osservi bene questo quadro.»
Ricordo un'immensa tela piuttosto grezza e grigiastra, su cui era stata gettata della vernice d'un rosso spento: qua e là la vernice era colata, in due parti era strisciata con qualcosa di spesso più o meno quanto una schiena; per il resto era semplicemente l'espansione del liquido di una latta da due litri di colore fatta cadere da un metro d'altezza.
«Devo dirle cosa ci vedo?»
«Se lo desidera.»
«No, non lo desidero affatto: se l'avesse piegata in due quando la vernice era ancora liquida le avrei raccontato di vederci una grande, bellissima farfalla ad ali spalancate.»
«Magnifico! Lei è un genio... sono sei metri per quattro. Una montagna di soldi. L'ho già venduto: è qui solo per pochi giorni ancora. Ora mi sono comprato questo...»
E mi mostrò un tempietto barocco in legno stuccato e dipinto, che stava sul grande tavolo scrivania in noce massiccio. All'interno c'era un oggetto raccapricciante: un cilindro di vetro riempito di formalina, che conservava un feto umano, senza braccia, né gambe, né orecchi.
«Era in un istituto di medicina a Parigi, ma veniva da Berlino; ha circa cinquanta, sessant'anni. L'ho visto il giorno dopo quel suo concerto in cui l'ho scoperta, mi ha folgorato, e mi è arrivato solo una settimana fa. Vede, queste due opere che le ho mostrato sono errori del demiurgo, e ci affascinano entrambe per la loro anomalia. Nel mio castello in Carinzia ho una favolosa collezione di queste mostruosità; un giorno gliele mostrerò. Ma se ne vuole vedere alcuni in movimento, viventi, torniamo pure nel salone ricevimenti: questa sera ne espongo in mostra ben centotredici!»
Mi sentivo fortemente imbarazzato; il Barone mi scrutava e io non sapevo decidermi su quale comportamento tenere. Sulla scrivania, a fianco del tempietto, c'era un oggetto curioso e ben realizzato: un minuscolo inginocchiatoio barocco in miniatura, fatto in avorio, o in osso, di circa quattro centimetri di altezza, sul quale era inciso il numero della bestia.
«Cerco di capire dove devo collocare questo suo cinismo, Barone, ma il numero 666 che lei ha inciso su questo oggetto come devo interpretarlo?»
«Questo è splendido, non trova? È di un artista americano: era esposto all'ultima biennale di Venezia; è fabbricato con una costola di donna, unendo i pezzi con minuscoli chiodini d'oro. E il numero l'ho fatto aggiungere io: è l'inganno perfetto, il capolavoro del demiurgo!»
«Mi spieghi, la prego.»
«Conosce le Toledòth Jéshu, le storie di Gesù dei ghetti ebraici?»
«No, anche se ne ho sentito parlare.»
«Guardi qui...» disse estraendo dalla libreria un grosso volume; «Questa è una copia rarissima di una delle versioni più affascinanti di quella letteratura: il manoscritto di Huldricus, del 1705; qui c'è la traduzione italiana, abbastanza recente, di un rabbino di Firenze; guardi, legga qua: "frammento 1: ...come quando scrisse nel libro di Johannos al capitolo 13 che questi vide una bestia con sette capi e dieci corna e dieci corone e il nome della bestia come il nome della bestemmia ecc.; la somma del valore numerico delle lettere del nome della bestia è 666; questa è la spiegazione di questo capitolo: la bestia è Jéshu ha Notzrì, Gesù Nazareno, e ha sette capi, perché ci sono sette lettere nelle due parole Jéshu, Notzrì; le dieci corna sono quelle delle lettere così come vengono scritte; e le dieci corone sono così: la Jod ha un apice; la Shin ne ha tre; la Nun e la Tzáde altri sei, in tutto dieci. Tutto ciò che è stato detto con questo segno è un'allusione a Gesù, e il numero 666 corrisponde al suo nome, e così tutti i libri li fece solo per indurli in errore come avevano ordinato i re e i sapienti..."; non è meraviglioso? Tutti si sono dannati a cercare il nome celato dalla cifra, hanno detto Nerone Cesare, nomi di re, di maghi, di uomini famosi, persino quello di Ronald Reagan; e il nome era sempre lì, davanti ai loro occhi: è Gesù stesso l'Anticristo! Lei conosce il sistema omiletico della ghematria, vero?»
«Anche un po' d'ebraico; faccia vedere... Jéshu: Jod, Shin, Vav; Notzrì: Nun, Tzáde, Resh, Jod; 10, 300, 6; poi 50, 90, 200, 10, ovvero... totale 666! Sì, tutto fila liscio!»
«Certo, è naturale: lo si sente subito, conoscendola... lei ha capacità superiori... deve solo essere acceso... pensi che questo Shimòn mago, a cui affidano l'incarico di scrivere i libri della "buona novella", ci dice anche che Gesù è un "mamzèr", un "bastardo", nato dall'adulterio di Maria con un soldato romano. Quella notizia attrasse l'attenzione di Hitler, che ordinò delle ricerche in merito; s'immagini un po': scoprire che Gesù non era ebreo del tutto, ma mezzo romano! Che colpo straordinario! Questa copia è stata proprio nello studio di Hitler, e queste sono le traduzioni in tedesco che aveva ordinato, e anche queste altre in inglese, per degli studiosi di Londra... fantastico, non trova?»
«Continuo a non capire perché mi mostra queste cose...»
«Conosce "Prosa", di Mallarmé? Iperbole! dalla memoria trionfalmente non sai innalzarti, oggi oscura cifra in un libro di ferro rivestito: insedio infatti con la scienza l'inno dei cuori spirituali nell'opera della mia pazienza...»
«...atlanti, erbari e rituali... sì, almeno quest'inizio; devo essermi perso qualcosa d'importante su Mallarmé, nell'ultimo periodo di tempo.»
«Benissimo; lei è un erudito, l'ho sempre sospettato. Dunque, visto che la conosce dovrebbe meditarla. La scrisse nell'ottantacinque, ma nel sessantaquattro già si trovò a dire "è necessario dipingere non la cosa, ma l'effetto che essa produce"...»
«Aspetti, questo è interessante... ricordo che Mallarmé inventò, o volle inventare, una lingua nuova per un suo poema, poiché la lingua stessa doveva necessariamente sgorgare da una poetica nuova...»
«Bravo, bravo; era la sua Erodiade, e diceva proprio queste cose in una lettera al suo amico Cazalis. Ora, vede, tutti questi sforzi furono vani, rimasero chiusi anch'essi "in libri di ferro rivestiti", e non seppero né poterono cantare "l'inno dei cuori spirituali", perché serrati nel silenzio delle parole e del senso. A che serve offrire la propria poesia al musicista, se i sentieri che l'inseguono sono solo sentieri del senso? Solo Wagner ha tentato la strada più vicina a quell'unione mistica di parola e musica, ma ne è poi scaturita una musica di parole, o meglio: una musica ridotta ad essere parola e nome, chiusi entrambi "in un libro di ferro rivestito".»
«Credo di cominciare a seguirla, dopotutto. Lei intende dire che il linguaggio letterario, filosofico o poetico, ha fallito il suo compito di ascendere ai luoghi della musica, perché si è sempre più strettamente legato al senso, salendo in spirali voluttuose o tortuose, ma ritornando e ricadendo inesorabilmente presso le sue origini, ossia al paradosso inquietante per cui la materia prima, in quanto "materia" e in quanto "prima", nell'ordine delle cose dovrebbe venire prima della divisione del senso, ma ciò è impossibile in quanto che... "nell'ordine umano, all'uomo non è dato nulla che non sia immediatamente accompagnato dal senso, e così di seguito, risalendo, all'infinito"... è stato Roland Barthes a farcelo osservare, più o meno con queste parole... Dunque né la parola né il nome, neppure esiliati dal senso e ridotti a sole lettere disarticolate, possono più avvicinare l'ineffabile; tutt'al più riescono a farcelo intuire, presenza appena dietro al velo d'illusioni, unica cosa ancora descrivibile con la parola o il nome; rappresentazione, però, di null'altro più che quello stesso velo...»
«Mio caro! Lei apre il mio cuore! Sì: la musica che si riduce a strutture, forme, immagini, tradisce se stessa e si riduce a un linguaggio della prigionia nel senso e nel tempo delle cose. Prenda Beethoven, ad esempio: ascoltare le sue composizioni significa non solo osservare il rigenerarsi di opere che conosciamo nella loro versione definitiva, finita, ma soprattutto il contemplare la visione del generarsi di embrioni d'una musica universale. In altri compositori, in gente minore, semplice, si assiste solo all'espressione del mondo di un individuo, per quanto, a volte, ricco e curioso possa essere. Forse anche quello di Beethoven in origine era poco più di questo prodotto d'una storia personale, ma della storia di un uomo eletto, e dopo duecento anni esso è diventato un universo infinito , moltiplicandosi nella frequentazione di altre menti, di altri mondi. Così ogni embrione di musica, che in lui è diventato opera compiuta, è tornato altresì embrione nell'opera stessa, e si compie negli altri, ovvero in coloro che hanno eletto Beethoven a modello.»
«Certo, questo è il destino e lo scopo dei "Classici". Ma allora, perché non vuole riconoscere questa grandezza anche nella musica di Piatti? Essa, in fondo, è solo un'interpretazione scritta, e non "suonata": un "commento" all'essenza dell'opera dei classici della nostra tradizione musicale.»
«Lei dovrebbe chiedermi, piuttosto, perché noi non vogliamo "eleggere" Piatti, visto che Piatti non è un eletto.»
«Infatti glielo chiedo, visto che pare che nessuno abbia meriti propri per eleggersi da solo...»
«Fingerò di non aver sentito questa sua ultima frase. Maestro, si ricordi che io sono l'erede di una stirpe senza la quale il mondo non avrebbe né Mozart né Lorenzo da Ponte. Niente di quei due uomini avrebbe sorpassato le loro vite dissolute, senza la Sapienza del mio antenato.»
«Per carità, mi scuso... non volevo in alcun modo offenderla...»
«Così va meglio. Ma torniamo al suo Piatti: è solo un imitatore, un artigiano che ripete ciò che gli è stato insegnato, senza averne colto l'embrione universale...»
«Mi permetta di spezzare una lancia in favore del mio virtuoso preferito, non foss'altro che per il tempo che ho dedicato a conquistarmi una parte del suo virtuosismo per offrirla alla vostra attenzione.»
«Ma non perda il suo tempo con Piatti!»
«La prego, solo un piccolo tentativo...»
«Va bene, l'ascolto.»
«Poco fa l'ascoltavo con interesse crescente, nel parlarmi del nostro tempo congestionato, saturato di identità caoticamente attive nelle loro produzioni di opere invadenti, inquinanti... in questa assenza di spazio e di tempo sempre più pressante, la lezione del virtuoso strumentista ci apre nuovi orizzonti: l'arte del virtuoso, infatti, consiste nel proporre se stesso e solo se stesso come opera d'arte. Ciò che di un artista rimane, inoltre, è il suo gesto, il suo segno, come quel qualcosa di quasi impercettibile che egli trasmette, o trasferisce ai suoi allievi, ma che diventerà, per vie misteriose, irrazionali, il miracolo del talento del virtuosismo. Non le strutture, quindi, veicolano l'arte, ma solo il gesto d'amore che è il divenire, il "mutarsi" in opera d'arte; ed è lei ad insegnarmi ciò, con le sue ottime osservazioni sulla musica di Beethoven. Ora, noi che non sappiamo né possiamo più essere autori di nessuna opera, noi che assistiamo al fallimento di tutti i nostri saperi in una vertigine incontrollabile di nozioni e informazioni, potremmo trovare in un artista come Piatti la lezione del virtuoso, fusa a quella del grande narratore, ovvero colui che raccontandoci ancora una vecchia storia, fa risonare in quella il nuovo, che forse vi era nascosto da sempre, fin dalla prima volta che fu detta, o eletta...»
«Affascinante. Ma la prego di osservare che lei, in mezz'ora di una Sonata piena di note, ha generato un tiepido entusiasmo per l'abilità delle sue dita, soprattutto in coloro che si occupano di giudicare quotidianamente la qualità di quel tipo di esercizi, mentre con una manciata di secondi del suo Bach lei ha stravolto l'intero uditorio!»
«Perché?»
«Perché quello è il miracolo che è racchiuso in lei, amico mio! Lei riesce a scavalcare i secoli di ripetizioni e riflessioni, l'annichilimento della nostra attenzione, e mostrare così l'assolutamente nuovo, il mai udito, l'ineffabile, proprio là, fra le cose più familiari...»
«Non avevo tenuto conto di questo, in effetti...»
«Certo, mio caro; è per questo che quando lei mi aveva proposto Robert Volkmann per il suo concerto al Musikverein io gliel'ho rifiutato; Dvorak non è più grande o più importante: è semplicemente più conosciuto e frequentato, e per conseguenza in Dvorak lei ha l'opportunità di mostrare quell'opera d'arte che è lei stesso, e non potrebbe riuscire in questo miracolo né con Volkmann né ancor più con qualsiasi altro compositore ignorato dalle programmazioni concertistiche degli ultimi cinquant'anni. Ma lei sa quanti anni ho io?»
«No; cinquanta?»
«Ah, magari! Ne ho settantasette, e ho sufficiente esperienza in merito a queste cose, mi creda. Lei lasci perdere tutta quella musica che sta negli scaffali delle biblioteche: la lasci a chi non ha musica né arte da dare. È già un danno sufficiente e, ahimè, inevitabile, che si continui a comporre, a mettere su carta e negli orecchi del pubblico altri esempi di permutazioni di idee inutili. Non aggiunga anche lei altro peso al mondo; non perda il suo tempo prezioso: segua il suo destino più alto!»
«Dunque lei mi aiuterà?»
«Sarò sempre fiero di essere al suo fianco! Lei ha una corda in più, al suo violoncello! Tanto per cominciare, noi ci vedremo dopodomani pomeriggio, alle tre qui nel mio studio con un uomo importante: il nostro critico musicale... l'attendo puntuale e sereno! Ora venga di là; giusto qualche istante, per mostrarsi alla plebaglia che sta esultando per lei! Le dia la soddisfazione di annusarla un po', soprattutto al nostro Generale!»

 

 

 

 

 

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