Il libro

 

...Tirò fuori da una cartella sgualcita di pelle marroncina un libro dalla copertina rigida, patinata, come nelle edizioni economiche dei vecchi libri per ragazzi degli anni ‘50. In copertina c’era il disegno acquerellato di un giovane col violoncello, lo sguardo severo, rivolto allo spettatore, seduto su una sedia di legno dallo schienale intagliato e le gambe a tortiglione. In alto, stampato in grandi caratteri gotici, il titolo che era anche un nome: David Popper; sopra, in caratteri sproporzionatamente piccoli, l’autore: Steven De’ak; in basso a destra: “Foreword by János Starker”. Conoscevo benissimo il primo e il terzo nome: due fra i più grandi violoncellisti del nostro secolo, il primo morto nel 1913 e l’altro tuttora attivo come concertista; ma non sapevo nulla dell’autore del libro, , allievo di Popper dal 1911 al ’13, ma in quarta di copertina appariva in una foto che mostrava un anziano violoncellista.
Convenimmo che era tardi ed era meglio andare a dormire. Dopo un lungo abbraccio commosso, gli promisi di tornare al più presto da lui, ma non la sera dopo, perché ero invitato a cena dal Barone.

-XVIII-


Il sonno mi rapì così lontano quella notte che, se davvero sognai qualcosa, neppure il mio inconscio avrebbe potuto ricordarsene. Alle otto del mattino avevo già fatto un’abbondante colazione e mi ero disposto a una mattinata di esercizio per il mio concerto: Antonin Dvorak opera 104, melodie nostalgiche, slanci appassionati ed eroici, esaltazione, elevazione, estasi, fierezza, gloria. Quante volte era stata eseguita quella sequenza circolare di sentimenti? Cos’era potuto salvarsi, di verità, in quelle melodie? Lasciavo che fossero le mie dita a cercar di rispondermi, muovendosi nel loro tempo dilatato: tutto il primo movimento in gesti lentissimi, nota dopo nota al doppio della sua durata, trattenendo l’espressione e il sentimento di ogni suono lungo tutta l’attesa necessaria a giungere al momento di abbandonarlo per quello successivo. Come me in quel mattino, migliaia di altri violoncellisti dilatavano il tempo, e infilavano una ad una, come perle di una preziosa collana, tutte le note nella sequenza del loro Concerto; decine di violoncellisti a dilatarne il ritmo per conquistare la capacità di eseguire il Concerto in si minore opera 104 di Dvorak; decine di migliaia di persone che ne cristallizzavano i suoni e i gesti e le emozioni dentro ai codici dei loro compact disc; decine e decine di migliaia di persone che ne discioglievano i solenni rituali di note in distratti ascolti radiofonici...
Venne presto mezzogiorno. Una breve passeggiata nel centro di Vienna, fino a un confortevole ristorante ungherese; un’ora di rilassamento nel piacere dell’atmosfera mitteleuropea, da solo. Vienna era accogliente, serena. Le mie mani funzionavano bene: non c’era alcuna difficoltà a far scorrere tutte le note di Dvorak, palleggiandole fra l’arco e la mano sinistra. E il solito miracolo era avvenuto: le melodie tanto ripetute, cantate una dopo l’altra, ancora e ancora, nel capogiro delle intersecazioni, seducevano ancora, suonavano sempre nuove, s’accompagnavano ai miei passi, seguivano il ritmo dei miei sguardi, si dilungavano con quello, sfuggivano a quell’altro; le note scorrevano nel flusso della vita, l’abbracciavano, la respiravano.
Cos’era cambiato in me, quel giorno? Tutto sembrava uguale a sempre: il mio violoncello suonava perfettamente, con la sua doppia voce: l’una dentro a suggerirmi l’idea e la visione, e l’altra fuori a comunicarla al pubblico; nulla sembrava averlo disturbato o mutato. Quale strana indifferenza nasceva dentro di me?
Gironzolai un po’ alla ricerca di un caffé italiano, per poi accorgermi che stavo sfuggendo a quel libro. Era là, sul tavolo della mia stanza d’albergo, vicino al foglio di un fax per me. Giulia mi mandava lunghi saluti, auguri e notizie di casa. Mi bastarono le prime righe: il libro mi attendeva.
Mi guardava attraverso gli occhi puntati su me della fotografia di David Popper diciottenne, acquerellata in modo dilettantesco, con toni marroncino-rosati, con pessimo gusto e cattiva tecnica. C’era stata incollata e poi staccata un’etichetta, come quelle che vengono messe sui libri di proprietà di biblioteche pubbliche, e la traccia di colla secca rimaneva sul dorso. All’interno vidi il timbro di una scuola di musica di Philadelphia, Pennsylvania; c’erano ovunque numeri e codici d’archivio, scritti a penna e a matita; in un angolo persino un prezzo, scritto con bellissima calligrafia, con gusto quasi antico: Paganiniana Publication $14.95.
Era il primo oggetto giunto fra le mie mani che potesse raccontarmi qualcosa della vita di Ahasvero: ISBN zero, otto sette seicentosessantasei, sei due uno, sette; Zeta trentadue, Paganiniana, poi lo strato secco di colla giallastra, da cui traspariva il logo: Paganini di profilo, nell’atto di far cadere l’arco sulle corde. Curiosa serie di informazioni ––pensai–– stampate in caratteri così grandi; o almeno: curiosa, per esser stampata sul dorso del libro, continuandone la linea del titolo e con la stessa importanza e visibilità. Il testo di quel dorso è qui, conservato nella memoria del mio computer:

 David Popper  De'ak ISBN 0-87666-621-7   Z-32 PAGANINIANA
Il segno della colla cominciava dopo “Paganini...”, coprendo il resto del nome, mentre il logo era stato nascosto da un ulteriore bollino adesivo: l’effetto era curioso, perché la figura di Paganini era come l’apparizione di un fantasma, attraverso la densità giallastra di colla e carta invecchiate.
Il volume era rilegato come tutti i libri che io possedevo da bambino: come il mio “Gatto con gli stivali” o la mia “Isola del tesoro”; erano per lo più quelli che i miei avevano comperato per quel mio fratello che non avevo potuto conoscere, perché era già morto...
Sì, io avevo un fratello, anche se non ne avevo mai visto gli occhi, non avevo mai ascoltato il suono della sua voce pronunziare il mio nome, chiamarmi, parlarmi. Mio fratello era un’entità invisibile anche nelle profondità più occulte della mia memoria. Era solo un nome: Giovanni, deceduto all’età di sei anni a causa di una malattia genetica, un anno prima della mia nascita, giunta per sostituirlo, per riempire un vuoto insopportabile. Giovannino, il piccolo uomo saggio che Dio aveva voluto riprendere a sé, con la velocità e la violenza della saetta... Zeta trentadue: Tzaddìk, il saggio; egli cammina nei trentadue sentieri della saggezza...
Ma com’era fatto mio fratello? Non ne parlavamo assolutamente mai, in casa; non c’erano neppure sue fotografie, a parte quelle nascoste nel comodino di mia madre... Io le scoprii a dodici anni, quando cercavo là dentro dei soldi nascosti, con la voglia di comprarmi qualcosa di desiderato. Li cercavo proprio lì perché ero convinto che mia madre ci tenesse un tesoro, dalla circospezione con cui ne apriva e chiudeva il cassetto. Seppi che era l’immagine di mio fratello solo quando a quattordici anni, in un giorno di tristezza, mia madre volle mostrarmele, dicendo che gli somigliavo. Ma restò un segreto fra me e lei.
Otto, sette, sei; scendere nei ricordi del primo giorno di scuola, a sei anni. Mio padre faceva il maestro di scuola elementare; insegnava nella classe a fianco, e io mi chiedevo: ma perché non sono con lui? Papà, perché non hai fatto tacere tutti quei tuoi libri di psicologia infantile, e non mi hai preso con te, nel tuo piccolo orto, a coltivarmi con attenzione, con rispetto? Hai delegato ad altri il tuo compito, alimentando le tue certezze in quella fuga razionale dal tuo panico, con la tua “Ragione di Apollo”. Altri mi hanno educato, e il vuoto che hai lasciato in me è diventato quel vuoto che ci separava come un baratro.
Seicentosessantasei, la bestia, l’orrore dell’Anticristo; quel numero, nella mia città, era il segno di un’appartenenza. A quattordici anni, con i miei compagni di classe, andavamo a cercare quel segno scritto sui muri della città, su angoli appena nascosti; tracce misteriose da seguire per incontrare misteri terribili, troppo affascinanti per essere ignorati a quell’età. Poi una sera i compagni mi portarono in un cimitero abbandonato, e con un martello fasciato d’uno straccio per non far rumore rompemmo il marmo di una celletta d’alveare, per rubarne ossa e un cranio. Bisognava scavalcare l’alto muro di cinta del cimitero; ero entrato, ma non riuscivo più a uscire; pazzo di paura, i compagni mi derisero e abbandonarono là, in cima al muro, fra le schegge di vetro e il terrore di cadere sull’asfalto della strada sotto i miei occhi. Fui portato giù di lì dalla polizia, punito in modo indelebile.
“Sei due in uno!” mio padre mi diceva piangendo, abbracciandomi, scompigliandomi i capelli con la mano in segno di disapprovazione severa. Eravamo nel posto di polizia dov’era venuto a prendermi. Sei due uno; fratello che mi mancava per avere l’amore di mio padre, fratello che mancava ai miei giochi di bambino. Sette; l’età che lui non aveva potuto dire, e che mio padre mi pronunciava con timore: “hai sette anni; ormai stai diventando grande: devi studiare di più e giocare un po’ di meno; e allora recitami la tabellina del sette: set/te, quattordici, ventuno: figlio mio, sei due in uno; ventotto, trentacinque, quaranta/due: a studiar bisogna essere in due; quaranta/nove, cinquanta/sei: vincerai se bravo sei; sessanta/trè, settanta... or che lo sai, il conto canta!”.
Oh, papà, quanto devi aver sofferto a quel pensiero... ma quanto amavo le tue filastrocche sciocche futuriste... “Giovannin pèt-pèt-cicala, che faceva l’aviatore, se mancava la benzina, allor pisciava nel motore”, e io ridevo come un matto, e tu me la dicevi ancora, e io nuovamente ridevo... e quel “pisciare” che era già là, terribile come il nome del mio fratello mancato: Giovanni! Il piccolo Giovanni che suonava il violino, la cicala Giovanni, il malato ai reni Giovanni!
Zero: niente, vuoto, il nulla. Giovannino volava lontano col suo aereo a pipì, bevendo pioggia e volando in eterno nel nulla, dentro al vuoto, verso lo zero. Lo zero era il punto da cui lo guardavo, lo ascoltavo fare pèt-pèt col suo violino dal suono di trombetta nasale. Eppure il suo violino era là, nell’armadio grande della camera da letto, in una custodia nera imbottita di rosso, sotto i vestiti di mia madre che lo scaldava e proteggeva ancora.
Paganiniana: come vortici di un Rondò sul violino di Giovannino, piccolo Paganini cancellato dalla terra, annullato. Io sulla terra, invece, a imparare a memoria le tabelline, e a sbagliarle sempre. “Tuo figlio mi farà impazzire!” diceva a mia madre, con quel modo dei padri scontenti di figli e mogli insieme; “ha un rifiuto assoluto del senso dell’aritmetica, come un blocco mentale!”. Quel giorno indimenticabile mi riempì la testa di schiaffi per infilarci dentro tutta la conoscenza della lettura dell’orologio. “Non voglio sapere l’ora, io! Me la dice la mamma!”; “Tu l’imparerai adesso, dovessi passarci la notte! Dodici e sessanta: ripeti!”; e io confondevo i numeri nella mia testa: ne pensavo uno e la bocca ne diceva un altro, ne dicevo uno e la mano ne scriveva un altro; dovettero portarmi da uno psicologo, e quello li convinse che prima o poi sarei guarito, ma intanto ero un vero artista.
E tornava sempre l’estate, con la maglietta dalle maniche corte che preannunziava il profumo del mare, la spiaggia, i castelli di sabbia, le passeggiate di sera. Volava via in fretta, ma persisteva a lungo nel rito della spellatura: togliere poco a poco, giorno dopo giorno, lo strato sottile di pelle che si era abbronzata, in quell’unica settimana di sole e mare che i miei genitori potevano offrirmi, finché la pelle nuova non ne era completamente liberata; e quelli erano i primi giorni di scuola, ogni anno, per anni. Così mi sembrava di cambiar pelle e corpo, crescere di un ciclo, ritornare in classe dopo essermi mutato in un altro.
E i miei libri facevano precisamente la stessa cosa: gli si staccava quella sottile pellicola trasparente, in pezzi irregolari, e al tirarli via opponevano la stessa resistenza di quella sottile pellicina scurita sul mio corpo. Ricordo la paura di poter essere bocciato a scuola, con l’idea che dopo la mia mutazione sarei giunto, o ritornato a un luogo irrimediabilmente sbagliato, spostato in un movimento ciclico parallelo, dal quale sarebbe stato poi impossibile riconnettermi al giusto ordine della mia vita.
Così era quel libro, con la pellicina che si era staccata in prossimità della colla secca e scurita, proprio come su quei miei libri da ragazzo, là dov’era stata tolta l’etichetta che ci metteva Giovannino, che io non sapevo chi fosse, né dove fosse, né quasi che nome avesse: perché lui era per me solo il nome di mio padre, e del mio «angioletto custode». Perché Ahasvero mi aveva dato quel libro da leggere e guardare attentamente? Ancora una volta: chi sei, Ahasvero? da dove vieni? che volevi, da me?
Papà, ti ricordi dello “Spaventapassi”? Io ero bambino, e tu, per insegnarmi a vincere lo spavento, a scavalcare la paura, mi raccontavi la storia terrificante di quello spiritello che va in giro a spaventare i passi della gente: la gente cammina, o passeggia, o corre, e non sa, non s’accorge; ma ogni tanto, ecco! lo Spaventapassi gli tocca un piede! Lui non se ne accorge quasi, crede che sia un soffio d’aria, e continua a passeggiare, a camminare o a correre; ma poi inciampa, e inciampa ancora, e inciampa sempre nello stesso modo per tutta la sua vita: perché c’è uno spavento nei suoi passi, e lui non lo sa. Non lo sa e non sa più avanzare: si ferma lì, e il tempo passa e lui poi muore. Nessuno si ricorda più di chi era lui. Rimane solo il suo spavento. E quel passo che non aveva fatto...

 

[...]

 

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