Il tempo de Il Mondo

Quando viene pubblicato il primo numero de Il Mondo, nel febbraio del 1949, il fotogiornalismo italiano era in una fase di profonda crisi. Esauriti gli entusiasmi della Liberazione, la contrapposizione politica tra il fronte di maggioranza, cattolico-conservatore, e il fronte comunista stava conducendo la stampa nazionale verso posizioni sempre più sterili e retrive. Anche i periodici che, sull'esempio di Tempo, avevano adottato formule grafiche facenti abbondante uso di illustrazioni fotografiche (i cosiddetti fototesti) e promosso un giornalismo di sincero impegno civile, avevano sconfessato i promettenti esordi votandosi ai registri dello scandalismo o della cronaca "rosa". Rispetto a questi indirizzi, per gli italiani emancipati dalla logica della "guerra fredda", per i fotografi delle generazioni cresciute nel dramma dell'ultimo conflitto, Il Mondo  ha indubbiamente costituito un riferimento di primaria importanza, un’oasi di dignità e di autonomia nel provincialismo conformista che contraddistingueva la maggior parte della stampa italiana d'allora. De Il Mondo è nota la funzione politica di minoranza in chiave antifascista, anticlericale e antistalinista, sfociata nella costituzione del Partito Radicale. Le battaglie civili intraprese da Il Mondo, fondamentali per la crescita della più avveduta generazione politica e intellettuale del dopoguerra, sostenevano la liberalizzazione dell’economia dagli interessi delle grandi concentrazioni monopolistiche, la modernizzazione della morale pubblica, l’ostilità verso ogni forma di autoritarismo, la rinascita delle arti e della cultura all’insegna dell’idealismo crociano.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Carlo Dalla Mura 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Carlo Dalla Mura 
Il Mondo e la fotografia  

Malgrado si professasse rivista d’argomento politico, economico e letterario, Il Mondo finì presto per diventare anche un periodico di enorme importanza per la fotografia italiana.  "Le fotografie del Mondo ! ... - ricorda Beniamino Placido, uno dei tanti collaboratori della rivista - Le ‘leggevamo’ nel settimanale, dove prendevano senso dalle rubriche, le colonnine, le ‘arie’ che le circondavano. Anche lì: Pannunzio (...) prima di impaginarle, studiava accanitamente con quali fotografie poteva accompagnarle. Era stato pittore, era stato critico cinematografico. Aveva un gran talento per le immagini. Di ciò che bisogna fare per renderle espressive... La pittura é una poesia in attesa di parole. La fotografia, anche. Se illuminate da tutte quelle parole che le stavano attorno (...) quelle foto e quelle note di costume rappresentavano una settimanale lezione di attenzione: guardatevi intorno, non stancatevi di osservare. Le scattavano a volte fotografi professionisti, altre volte dilettanti. Le impaginava, con i suoi collaboratori, Mario Pannunzio."  
Figlio ideale di Omnibus, la rivista di Leo Longanesi soppressa nel 1939, Il Mondo ne ha adottato il gusto tendente ad attribuire alle fotografie la capacità di sintetizzare alti tenori di significazione in cifre visive di grande efficacia comunicativa. I toni prediletti erano quelli dello sguardo arguto, dell'aneddoto illuminante, talvolta - specie per quanto riguarda il nostro Paese - del bozzetto popolare, con qualche sconfinamento nei terreni della denuncia sociale e l'eventuale contributo di sapienti composizioni formali; il campo d'applicazione pressochè fisso di questa fotografia era la strada, ossia la vita colta quasi involontariamente nell'autenticità ineguagliabile del frammento, dell'attimo fuggente. Uomo di cultura fondamentalmente letteraria, Pannunzio chiedeva alla fotografia giornalistica nient'altro che sottili tranche de vie, garbati sketch ugualmente lontani dalla sciatteria degli "scattini" (così venivano chiamati in Italia i fotoreporter più dozzinali prima che nascesse il termine "paparazzo") come dai velleitari intellettualismi dei circoli accademici. A distanza di tempo potrà sembare cosa da niente, ma per la fotografia italiana di allora si trattò di una svolta cruciale: per la prima volta poteva accedere alla stampa di larga diffusione sulla base di valutazioni principalmente estetiche, scavalcando i criteri funzionali (l'attualità, il repertorio) che fino a quel momento ne avevano giustificato l'utilizzo sui giornali. 

 
Mai, prima de Il Mondo, la grande stampa nazionale era stata tanto generosa (immagini di vasto formato e isolate, fuori dal contesto tradizionale dei servizi, da guardare come si guarderebbero i dipinti) nei confronti della fotografia. Poco male se per accedere nell'"eden" de Il Mondo, i fotografi dovevano adeguarsi ai gusti sovrani e inamovibili del suo direttore, girare alla ricerca dell'"aria di.." (erano frequenti le rubriche della rivista con questo titolo) nella quotidianità della provincia italiana o di quella, abbracciando l'internazionalismo caro a Pannunzio, di Parigi, di Londra, degli Stati Uniti, di qualsiasi paese estero con il quale si avesse a che fare. Poco male se nell'estetica fotografica di Pannunzio vi fosse ben poco spazio per le personalità dei singoli (ne Il Mondo i nomi degli autori delle fotografie appaiono solo a partire dal 1959) o per rigide differenze tra dilettantismo e professionismo (Il Mondo pubblicava qualsiasi fotografia pervenuta e gradita al direttore, indipendentemente da chi l'avesse fatta). I fotografi italiani guardarono ugualmente Il Mondo come a un luogo eletto che non trovava pari nell'asfittico panorama nazionale. Dietro lo "stile" de Il Mondo, dietro la palestra della fotografia "stradale", della fotografia di "aria" nella quale si cimentavano ad armi pari esperti ed esordienti, settentrionali (la "scuola milanese" dei vari Patellani, Meldolesi, De Biasi, Dondero, Mulas, Cisventi, Colombo, Camisa, Casiraghi, Lucas, Cappelletti, Capellini, Cerati, i veneti Roiter e Berengo Gardin), centro-meridionali (la "scuola romana" di Garrubba, De Martiis, Pinna, i Sansone, Volta, Di Paolo, Contino, Rea, Cascio, Vespasiani, Sorci, Spinelli, Scalfati, i toscani Branzi e Cagnoni, i siciliani Sellerio, Minnella e Scianna) perfino qualche prezioso apporto straniero (Horvat, List, Sieff), si è sviluppata una comune école du régard che ha importato e sperimentato in maniera massiccia la poetica "istantaneista" di Cartier-Bresson e ha favorito enormemente la crescita d'interesse degli italiani verso l'arte fotografica, ancora vittima di forti pregiudizi sulla sua "meccanicità".
Della scuola de Il Mondo l'avvocato udinese Carlo Dalla Mura, collaboratore della rivista proprio negli anni in cui essa rivela la coscienza di svolgere un ruolo sempre più importante per la fotografia italiana (1958-1966), è stato rappresentante assolutamente impeccabile. Riscoprirne l'attività significa ripercorrere, oltre che un percorso individuale di tutto riguardo, i caratteri di un discorso collettivo irripetuto e forse irripetibile, in ogni caso fondamentale  per le sorti della fotografia italiana del Novecento. Ce n'è abbastanza per riservare a Carlo Dalla Mura l'attenzione che finora gli era stata negata
Carlo Dalla Mura 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Carlo Dalla Mura
Il Mondo di Carlo Dalla Mura 
 

Egregio Direttore,sono un assiduo lettore de "Il Mondo" di cui ammiro fra i tanti pregi il particolare gusto nella selezione delle fotografie pubblicate ogni numero. Io mi diletto di fotografia e da un mio viaggio a Parigi ho riportato una piccola serie di immagini che mi permetto di inviarLe con le didascalie a chiarimento delle località in cui furono scattate. Spero esse le piacciano e che Le ritenga degne di pubblicazione.La ringrazio in ogni modo per il suo giudizio e distintamente la saluto. 

 
Iniziava così, con un pudico biglietto che accompagnava 5 fotografie, l’avventura di Carlo Dalla Mura fotografo de Il Mondo. Era il febbraio del 1958, e Dalla Mura, rientrato a Udine, dove era nato nel 1927, dopo una prolungata permanenza a Parigi, si accingeva a intraprendere la professione che avrebbe esercitato e che esercita tutt'oggi, quella dell'avvocato. Erano trascorsi otto anni dalla laurea in giurisprudenza, anni dedicati ai viaggi, al perfezionamento della lingua francese - diploma conseguito alla Sorbonne - e alla passione per la barca a vela, (nel 1971 sarà campione italiano per la classe Dragone, nel 1983 compirà la traversata dell'Oceano Atlantico). La fotografia si era insinuata da poco tra questi molteplici interessi, come naturale compendio alla dimensione del viaggio, certo, ma destinata ad assumere ben presto un peso rilevante proprio grazie all'influenza esercitata su di lui dalla formula iconografica che Mario Pannunzio aveva adottato sul suo settimanale fin dall'inizio degli anni Cinquanta.  
Delle cinque fotografie inviate due vennero acquistate e pubblicate tra il marzo del 1958 ed il gennaio del 1959, dando così inizio ad una collaborazione pressochè continua, interrotta solamente dalla definitiva chiusura del settimanale, nel marzo del 1966. Durante quegli otto anni Dalla Mura ebbe pubblicate su Il Mondo ben 59 immagini (ed altrettante sono custodite, non pubblicate, nell'archivio della rivista, oggi conservato alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze); un numero considerevole, superiore anche al contributo di tanti reporter professionisti, che, se certo non è sufficiente a fare di lui un maestro della fotografia, rimane l'indice ineludibile della sua partecipazione ad uno dei momenti più significativi vissuti dalla fotografia in Italia. 
 
 Dalla Mura non ha mai amato troppo la definizione di fotografo dilettante, preferendo non senza ironia quella di fotografo riluttante. E questa è certo una delle possibili interpretazioni della sua figura, e soprattutto della completa rimozione di cui è stato vittima fino ad oggi. La riscoperta del suo lavoro, ad oltre trent'anni di distanza, non vuole essere motivata semplicemente da ragioni di risarcimento, peraltro non richiesto, di eventuali torti perpetrati da una storiografia miope e distratta, quanto piuttosto da ragioni storico-filologiche, inserendosi nel quadro di una ricerca attorno al  ruolo complessivo svolto dal settimanale diretto da Mario Pannunzio nello sviluppo di una moderna cultura fotografica in Italia.
Di biglietti come quello di Dalla Mura, infatti, alla redazione de Il Mondo ne dovevano ricevere molti, perché molti erano i dilettanti che, sedotti da un gusto visivo che non richiedeva lo sprezzo del pericolo del reporter, né il rigore compositivo dell'artista d'avanguardia, ma piuttosto arguzia e sense of humor, si sentivano sollecitati a proporre le proprie immagini al settimanale romano. Ma tra i tanti fotografi occasionali che attirarono l'attenzione di Pannunzio, proprio Carlo Dalla Mura può essere legittimamente considerato non solo un vero e proprio paradigma del suo modo di concepire la fotografia, ma anche un efficace esempio di quella grande modernità di vedute di cui essa era diretta conseguenza, e che ha fatto de Il Mondo "la migliore rivista fotografica della sua epoca..." 
Rinunciando a priori al  piano della pura denotazione, l'immagine per Pannunzio risultava valida non tanto e non solo per i propri intrinseci valori formali, o per la referenzialità di cui sapeva essere capace, quanto piuttosto per la sua qualità evocativa, per la disponibilità nel farsi carico dei legami di significazione generati dagli accostamenti con il testo. E le fotografie di Carlo Dalla Mura possedevano senz'altro queste caratteristiche. 
I soggetti e i luoghi innanzitutto: le scene della vita di provincia, un Friuli aneddotico e bozzettistico, che però raramente scivola nel luogo comune di un'elegia romantica della civiltà contadina; la grande capitale europea, i boulevards, i musei, le belle ragazze di una Parigi osservata dai tavolini di un caffè...  Uno sguardo che si posa con la stessa identica leggerezza ad ogni latitudine, a Venezia come a Sofia, a Istambul come a Madrid, ad Atene come a  Belgrado, Salisburgo, Monaco...  Nella fotografie di Dalla Mura non si può rilevare un progetto rigoroso di rappresentazione, la cura spasmodica dell'inquadratura, la volontà di incarnare un ruolo testimoniale. Esse vengono concepite come appunto di viaggio, annotazione rapida del tranche de vie. Sono quasi sempre frutto di uno scatto secco, di un occhiata furtiva ad una realtà in perenne movimento. Quello che invece si coglie e che assegna al loro autore un ruolo non indifferente nelle vicende della fotografia italiana, è proprio il loro alto grado di rappresentatività del progetto culturale e iconografico perseguito da Il Mondo. Si ha la sensazione insomma, che Dalla Mura fotografasse con gli occhi di Pannunzio, prima ancora che con i suoi. Tanto che, chiusa la rivista, sarebbero inevitabilmente cadute le motivazioni principali di un’attività fotografica che egli non aveva evidentemente mai concepito come ricerca formale fine a se stessa, o come partecipata battaglia di denuncia civile, ma essenzialmente come personale e parzialissimo contributo ad un'idea di rinnovamento della vita culturale italiana che a quel progetto faceva capo. Anche i modelli scelti erano proprio quelli che si potevano ammirare  sulle pagine del settimanale romano: il sottile formalismo di Jean-Loup Sieff,oltre naturalmente all'Henri Cartier-Bresson di Images à la sauvette. Ed è forse proprio a quest'ultimo, più che a chiunque altro, che Dalla Mura certo deve la levità di uno sguardo mai costretto nel dogma di una dialettica spicciola tra forma e contenuto, ma, al contrario, capace di liberarsi, soprattutto nella dimensione fluida del viaggio, in frammenti di realtà vivida, non ricercata, ma piuttosto incontrata per caso. E che oggi consente alle sue immagini di trasmettere con grande freschezza lo spirito della loro epoca, risultando una sorta di contrappunto impressionista di altre immagini, delle icone del Neorealismo, le fotografie dei Patellani, dei Secchiaroli, dei Pinna, dei Sellerio...
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Carlo Dalla Mura 
 
  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Carlo Dalla Mura
Aria del Friuli 

Se può apparire scontato l'oblio che ha circondato la figura e la produzione di Carlo Dalla Mura in ambito nazionale, considerando che una analoga sorte è toccata perfino a fotografi del calibro di Franco Pinna e generalmente a quasi tutto l'ambito del fotogiornalismo italiano, risultano al contrario davvero di difficile comprensione le ragioni che hanno determinato la sua completa rimozione perfino dalle cronache - peraltro non certo esaltanti - della storia fotografica della sua regione, il Friuli-Venezia Giulia. Da una parte esse vanno indubbiamente ricercate nella già citata riluttanza dell'avvocato udinese a "prendersi sul serio", ad attribuirsi una qualsivoglia dimensione professionale in ambito fotografico.   
Anche in ragione di ciò Dalla Mura non aveva  mai fatto parte di quell’entourage fotografico che in quegli anni viveva in Friuli il suo momento di maggior vitalità, cresciuto soprattutto attorno alle vicende del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia (Italo Zannier, Carlo Bevilacqua, Gianni e Giuliano Borghesan, Aldo Beltrame e i veneziani Fulvio Roiter e Toni Del Tin), rimanendo estraneo agli ambienti dei circoli e dei gruppi organizzati - allora i principali veicoli di ogni attività fotografica praticata al di fuori delle esigenze giornalistiche - se si esclude qualche occasionale frequentazione con Gianni Berengo Gardin. L'isolamento dalle cerchie qualificate non significa comunque che Dalla Mura fosse fotograficamente incolto o sprovveduto; letture come quelle della rivista Camera o dei primi fotolibri di William Klein non erano così frequenti in Italia nemmeno tra i professionisti. Eppure ciò non era finora bastato a meritargli un minimo di considerazione. E' probabile che anche per Dalla Mura abbiano pesato le stesse endemiche tare che hanno contraddistinto la ricerca in ambito fotografico degli ultimi quarant'anni. Il discrimine operato sistematicamente dalla storiografia e dalla critica attorno nozioni come "autore" "movimento", "manifesto", profondamente ancorate a schemi ormai consunti, ha consentito di trasferire la questione sul piano privilegiato dell'espressione artistica, stabilendo gerarchie arbitrarie, concentrando l'attenzione su fenomeni spesso sopravvalutati, comunque certo marginali rispetto agli immensi mutamenti operati sul piano della comunicazione visiva da quasi un secolo di fotogiornalismo. Un atteggiamento che, se fornisce le attendibili motivazioni di quella dimenticanza, non rende il paradosso meno evidente, a maggior ragione se si limita il contesto all'ambito locale, considerando che proprio Dalla Mura è stato di gran lunga il fotografo friulano che ha avuto maggior riscontro sulla grande stampa nazionale.

 
Si può ben dire, infatti, che il Friuli rappresentato sulle pagine de Il Mondo è  il Friuli di Carlo Dalla Mura. Anche prescindendo dalle immagini pubblicate - oltre alle ventidue dell'avvocato udinese, due di Italo Zannier, una dello scrittore Alcide Paolini ed un'altra, splendida, firmata Salvatore Chiolo - l'archivio conserva poco più che una ventina di altre fotografie di soggetto friulano. Dodici di esse sono sempre di Dalla Mura, otto di Paolini, cinque di Zannier, una firmata Pietro Sirch, mentre sono una quindicina le immagini di soggetto triestino (nove di Mario Orfini e sei di tale Cesare de Senibus, medico e anch'egli fotografo dilettante).
Ma in assoluto, tra i fotografi friulani della sua generazione (Bevilacqua, Gianni e Giuliano Borghesan, Zannier, Ciol), tutti legittimamente conosciuti ed apprezzati anche fuori dei confini regionali - soprattutto per merito dell’opera divulgativa compiuta negli anni successivi proprio da Italo Zannier - Dalla Mura sembra oggi possedere un respiro alternativo, in qualche modo più cosmopolita, e non solo per lo spazio che si è meritato sulle pagine del più importante periodico culturale del tempo. Ciò che lo distingue è soprattutto l'apertura del suo sguardo, non costretto nell’esclusività della dimensione locale, nel culto delle tradizioni popolari, o comunque in un "realismo poetico" legato ai riti della civiltà contadina, spesso in bilico irrisolto tra tentazioni pittorialiste e impegno neorealista, ma invece duttile, istintivo, sintonizzato con molta della più innovata fotografia europea della sua epoca.
In ogni caso, tra il 1959 ed il 1965, l'attività fotografica di Dalla Mura ebbe riscontri tangibili anche in "patria", attraverso la prolungata collaborazione con il periodico regionale Julia Gens; in esso l'avvocato pubblicò una decina di servizi d'argomento locale (notevoli i due sui pescatori di Marano Lagunare) strutturati in forma di fototesto, dimostrando tra l'altro di sapersi destreggiare anche al di là dell'immagine unica richiesta dalle pagine pannunziane.In queste ultime, così com'era iniziata, la carriera fotografica di Dalla Mura era destinata coerentemente ad estinguersi.  Nel marzo 1966 Pannunzio comunicava, in un memorabile commiato in prima pagina, la definitiva chiusura de Il Mondo e con esso di un'avventura fotografica che aveva coinvolto protagonisti piccoli e grandi. Quel numero fu anche l'ultima occasione per vedere un'immagine di Carlo Dalla Mura pubblicata prima dei nostri giorni.
Carlo Dalla Mura|
 
 
 
 
 
 
fotografie
Il percorso della mostra 
 
 Sono due le sezioni che compongono la mostra Carlo Dalla Mura, "Il Mondo" di un fotografo friulano. La prima - Fotografie per "Il Mondo" - presenta un'ampia selezione delle immagini  pubblicate sulla rivista di Pannunzio; la seconda - Fotografie 1956 - 1965 -  propone una scelta di immagini edite (Julia Gens) e soprattutto inedite che coprono l'intero arco della decennale esperienza fotografica dell'avvocato udinese.
 
 
 
 
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