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interruzione: è appena passata sotto
la mia finestra una processione di amici
studenti in festa di laurea, con Enrico,
clarinettista klezmer, accompagnato da violino
e basso tuba sotto spirito che ha fatto salire
gli
effluvi alcolici del suo fiato fino al mio terzo piano di palazzo seicentesco.
Mi hanno omaggiato con "Oy oy, Rebbe
Eilimelech!" così stonata che mi è
saltata una corda del violoncello migliore, e
ora penzola lì tutta...
triste * *
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...Dicevo: non mi riusciva di trovar piacere e soddisfazione fra quella
gente tanto ricca di soldi e povera di spirito.
Ci si consolava allora visitando spesso nuovi amici di altra estrazione
sociale, cucinando spaghetti per tutti in allegre compagnie, dalle quali
però non sortiva nulla che servisse alla nostra sopravvivenza
d'artisti. Né che l'appagasse, peraltro, dato che dopo dieci
o undici minuti di sopportazione dei loro orripilanti dischi di musica
omologata ai gusti giovanili, richiesti timidamente di propinarci "qualcos'altro",
io venivo afflitto da atroci dischi di jazz, intesi come "musica
colta per palati raffinati".
Ora, vedi, un giorno eravamo inviatati a pranzo da un direttore d'orchestra
che avrei potuto definire "sospeso a metà altezza fra la
plebe e la nobiltà ", essendo iscritto al partito che all'epoca
si chiamava PCI, vivendo in una pregevole casa borghese, e convivendo
quotidianamente con l'alta società veneziana, in quanto solo
quella si occupava di mantenere l'economia del suo lavoro, fra il Teatro
La Fenice e i concerti di musica sinfonica (le "quattro-stagioni-di-vivaldi"
per turisti, in quegli anni, non avevano ancora invaso le chiese veneziane).
La conversazione era insopportabilmente noiosa e io, ricordo, trovai
una scusa per allontanarmi. Fu così che mi ritrovai da solo in
un salottino sul retro del loro appartamento, con due finestre aperte
su un grazioso cortile interno. Affacciato a una di quelle per fumare,
ammiravo all'altro lato di quel breve spazio, dalle mura imponenti di
un palazzo molto antico, quattro meravigliose fonti di luce da altrettante
finestrate gotiche aperte a fiordaliso arrotondato, come piaceva nel
Cinquecento, e interamente riempite di splendidi cristalli di Murano
disposti in bell'ordine su diversi ripiani della stessa fragile materia,
a modo di scaffali incastonati tanto nell'apertura rettangolare quanto
in quella ornata. Là erano disposti in bella mostra diversi oggetti
ridondanti di colori e orpelli, altri sublimi nella semplicità
delle loro pure forme, nate solo dal soffio dei maestri vetrai.
Mentre
godevo di quella vista, dolcemente rilassato, mentre mi dilettavo ad
osservarla attraverso le nuvolette di fumo della mia pipa di radica
ben stagionata, sbuffando divertito al sole di mezzogiorno che asciugava
le mie ossa già provate dall'umidità veneziana delle mezze
stagioni, con un fragore sconcertante una di quelle finestrone si spalancò,
scuotendomi dal mio torpore. Mi apparve una visione così insospettabile,
così inattesa che la credetti frutto del mio subconscio: là,
in quella cornice sontuosa e piena di luce riflessa, fra le trasparenze
preziosissime di quei cristalli e la danza aggraziata delle loro forme
barocche, mi appariva quella che per me era null'altro che l'icona della
stupidità del mondo, assunta ai cieli del potere più becero
e squallido che mai pianeta del sistema solare aveva dovuto subire:
quello della televisione. Dall'altro lato di quel cortile, in quella
fessura aperta verso un mondo di luci e bellezza antica e sublime c'era
H., l'allenatore di calcio più famoso del mondo, colui la cui
immagine mass-mediale si imponeva ogni giorno al popolo tutto, in democratica
uguaglianza di interessi e passioni, impressa su tutti i quotidiani
d'informazione, sull'infinitamente stupido cristallo dei tubi catodici.
La sua figura penetrava nei cervelli impoveriti, attraverso percezioni
retiniche ormai sottomesse e dipendenti dal mondo che aveva cementificato
e asfaltato pressoché tutta la bellezza artistica e naturale
del paese in cui io ancora mi sforzavo di vivere e cercare protezione
e ascolto, mentre questi confinava me e tutti i miei maestri nel limbo
dell'oblio. Insomma: l'icona di quell'Italia degenerata degli anni Sessanta,
che gente come Pasolini piangeva aver distrutto ogni memoria o traccia
di passata grandezza...
Ci
guardammo a lungo, minuti lunghi quanto eternità, certo io sapendo
chi lui era, e lui che io, non essendo altro che uno che "sapeva
chi stava guardando", indubbiamente ammirassi intorno alla sua
figura il segno del suo successo mondano e la sua ascesi all'Empireo
dell'eleganza e leggerezza del quale si era EVIDENTEMENTE appropriato,
accasandosi non in un blocco di cemento con varie e disordinate aperture,
quali erano le abitazioni progettate in quegli anni dai moderni architetti,
bensì in ciò che millenni di esercizio e devozione al
bello avevano saputo creare!
Lui visione, per me, d'un demone ridacchiante richiuse poi
la finestrona e scomparì fra leggerezze di stucchi settecenteschi
e altre meraviglie di illuminati artigiani antichi, e io me ne dovetti
tornare ai miei imbecilli ospiti, ormai così afflitto da poterli
sopportare senza tropp'altra pena...
Bene, gli anni passarono poi veloci, non senza subire le conseguenze
subliminali di quel pomeriggio. Io trascurai inconsciamente quanto sistematicamente
tutte le buone persone dell'alta società veneziana, finché
la mia vita divenne quasi cosa segreta qui in laguna, benché
fosse possibile raggiungere la mia casa presso il ghetto semplicemente
chiedendo al primo nativo disponibile dove abitasse il "sonador
de chitarron co' a barba e do fioi e 'na mujer bionda che a canta a
la fenice".
Tornando alla mia penultima digressione, passarono ben venti dei miei
anni vivendo una buona vita senza nobili o arricchiti veneziani a intristirmela.
Né tantomeno i privilegi che aver fatto altra scelta avrebbe
potuto offrirmi, a dea Fortuna piacendo. Ma l'icona di H. non mi abbandonò
davvero mai... me la trovavo di fronte occasionalmente, a volte a un
vernissage, altre a una festa, altre al mercato di Rialto a sceglier
pesce, persino una volta presso la sinagoga, perché lui era di
origini ebraiche. E questo alimentava non poco la fiamma del mio disprezzo,
considerando quanto significhi per il mio senso etico l'essere ebrei,
in termini di alte responsabilità civili e culturali, e quanto,
rispetto a tali responsabilità, lui rappresentasse per me l'abisso...
Dunque la sua presenza, in effetti, non mi abbandonava proprio mai e
sempre, nella mia fantasia, H. se ne arrivava e appariva incorniciato
dalla sontuosa e cristallina bellezza delle sue finestre di quello scrigno
d'arte e conoscenza che, seppure umidiccio, a fatica sopravviveva in
questa miracolosa città, per la memoria universale dei maestri
dell'Arte. Pur beffandosi di loro io meditavo, proprietario
com'era diventato dei loro frutti terreni grazie all'arte di infilare
un pallone gonfiato nella rete evitando il contrasto di tante gambe
ingabbiate in un rettangolo di terra rubata alla Natura, così
come succede a tutti, infine anche lui morì Iddio abbia
misericordia per lui e fu sepolto, fra gli onori di un codazzo
di non più giovani tifosi ridicolmente addobbati con sciarpe
e magliette dagli azzuffati colori del mondo dello sport.
La
mia vita, invece, continuava. Ma fra così tante frustrazioni
e difficoltà che finii col far collassare il mio matrimonio d'amore
e i progetti di una serena vecchiaia in compagnia dei ricordi di una
vita tranquilla. La faccenda passò per il tribunale, che stabilì
di affidare i figli alla madre, quindi attribuendo a lei anche i diritti
sulla casa in cui abitavamo. Io dovetti cercarmene subito un'altra,
e doveva essere necessariamente qualcosa di funzionale a riprendere
contatti con quel "bel mondo" che unico a interessarsi
del mio lavoro di violoncellista classico non mi avrebbe neppure
preso in considerazione se solo io avessi azzardato a far sapere che
vivevo presso il popolino. Né peraltro avrei potuto sopravvivere
più di un giorno alla televisione o all'amplificatore di suoni
del vicino di casa, felice di vivere in un mondo nel quale ci si può
liberare dall'imbarazzo di rompere i coglioni del vicinato con le proprie
rumorose beghe di famiglia, semplicemente inondando il mondo di suoni
artificiali, ben amplificati, e a prezzi popolari.
Determinato a cercare in tutto e per tutto di costruirmi un'immagine
d'artista "elitario", mi capitò l'occasione di abitare
in un lussuoso appartamento nobiliare presso Rialto, ospite di una ricca
signora. Accettai prima ancora di pensarci su. Fu così che un
bel mattino di maggio, verso mezzogiorno, mi ritrovai a varcare la soglia
di un elegante salotto settecentesco, decorato a stucchi e affreschi
di bella scuola veneziana raffiguranti le quattro stagioni e, quali
trionfanti fonti di luce, proprio quelle inusuali, splendide finestre
che vent'anni prima avevo scrutato standomene dall'altra parte dell'universo...
Ero lì, proprio nel preciso punto in cui prima c'era stato lui,
a rivivere quell'illusione in cui egli pareva beffarsi di me, stupido,
obsoleto artista di altro e defunto mondo, già vinto e fagocitato
dai nuovi padroni della terra, trionfanti ignoranti caproni, servi vischiosi
del primo demone di turno! Ora ero però proprio io ad aggirarmi
nelle stanze della bellezza, e dai luminescenti cristalli guardare le
marcescenze d'intorno, ben protetto da tanta splendente trasparenza,
al sicuro e isolato dai loro insopportabili schiamazzi elettrificati!
In
quel salotto entrò, per il nostro primo incontro, il buon Giorgio
(di cui immagino tu temessi di non sentir più parlare...).
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