Dio uno in essenza, primo Autore della Musica in Cielo ab eterno fece l’unissono, Tubal in tempo fece l’ottava à Dio; & in capo à otto generationi cominciò la Musica in terra.
[...] essendo i quattro Elementi le quattro corde del Canto Fermo, sopra le quali stanno appoggiate le note della vita humana [...]

Angelo Berardi, “Ragionamenti musicali”, Bologna 1681,
pag. 75 e pag.123.


Giorgio usa la rete informatica con tutte le premesse di chi vorrebbe un mondo in cui poter applicare la lezione dantesca del "fatti non fummo per viver come bruti" senza l'intervento di Andy Warhol o di altri simili maestri.
Egli compone musica con abilità sublime e grande sapienza, ma solo nello stile e "linguaggio" pre-classico (ovvero prima di Mozart e Haydn). Ovviamente, a causa di ciò, oggi nessuno lo considera un compositore "interessante", né ancor meno se lo studia o lo esegue. Ergo: ogni tanto lui si esegue da solo.
Tutto ciò potrebbe non essere un problema se solo lui non fosse un contrappuntista, la qual cosa crea non poche difficoltà a chi possa suonarsi in solitudine solo degli assoli di flauto... e poco importa se dividendosi e moltiplicandosi con l'arte di usare mani e piedi e intelligenza sull'Organo a canne —o sui relativi surrogati elettrici o elettronici che la tecnologia moderna rende democraticamente utilizzabili anche da casa propria e con moderata spesa— i contrappunti, bene o male, si potranno eseguire e ascoltare con le proprie orecchie. Insomma: una masturbazione sana va con più o meno intrinseca soddisfazione in contrappunto con una fantasia erotica, ma quando si muove e intesse nell'immaginazione una sola delle voci di un contrappunto a due, o a tre o a quattro o cinque... o si riceve dal cielo il genio di Bach e di Telemann, oppure si rischia di finire in depressione.

Due anni fa il prolifico Maestro scrisse un Concerto per violoncello e archi dedicandolo a un professore di Conservatorio, il quale ringraziò e lo mise nel cassetto dopo avergli detto che molti passaggi erano "non violoncellistici". Dunque anche in quel caso, il deluso contrappuntista raccolse pietosamente le sue residue certezze dentro a un documento elettronico "MIDI" (...gli strumenti musicali sintetici, che si trovano nascosti all'interno dei misteri più profondi del tuo computer, nel quale riescono ad eseguire con perizia ma con poco spirito ogni più difficile partitura) e affidò alle acque e correnti dell'oceano-rete il destino di quella sua nuova opera.
Fu così che io navigando, sospinto da qualche misterioso zefiro finii a toccarne le sponde.

Sì, sì, d'accordo... ora smetto di imitare lo stile affabulatorio. Ma giusto per brevità, ché il mio Giorgio meriterebbe un'Ode in rima, un romanzo e tre novelle intrecciate a treccia, o a spirale, avvolte intorno a un flauto dolce ben tornito e ritto come una colonna dei cancelli del Paradiso.

Un anno fa all'incirca io gli scrissi complimentandolo per quel suo ottimo contributo al repertorio violoncellistico, non senza una certa amarezza derivata dalla coscienza dell'impossibilità di proporre alcunché della sua opera ai normali canali concertistici. Ne ebbi in rimando la partitura del Concerto e tanti complimenti per le mie composizioni esposte in rete (che a seguito del mio interesse per le sue, lui s'era andato a sentire, e uso com'è a sognare i suoni oltre le barriere dei "midi", le aveva godute nel Paradiso musicale dei saggi). Ci incontrammo a Venezia a fine maggio, nel palazzo Contarini degli specchi presso Rialto, dove abitavo appena lasciata la vecchia casa a moglie e figli.
Ora, quel magnifico appartamento barocco ricavato ad arte da un imponente e massiccio edificio medioevale, aveva per me un significato strano, poiché mi ritrovai a vivere lì per caso, ma quel luogo non mi era nuovo...

Era infatti l'83, quando lasciata Torino e una donna che non amavo più per una che allora amavo, nel seguire quest'ultima finii a Venezia. Dopo pochi mesi divenne mia moglie, e poi la madre dei miei figli. Ma prima di tutto ciò era solo una ragazza danese, studente di lingue e di canto lirico approdata in Italia per amore della nostra lingua. In quei giorni io non avevo null'altro che diversi pianoforti in un magazzino, diversi violoncelli a casa di mia madre, pochi soldi in tasca e tutto il resto alle spalle, casa e mobili e quadri e libri e ninnoli e conti in banca lasciati alla donna torinese cui avevo detto "non ti amo più, me ne vado, tieniti pure tutto il mio passato".
L'aver scelto Venezia per una nuova vita cominciava col problema di trovar casa, che già era diventato impossibile (l'equo canone!... maledetti!), e noi, affascinante coppietta d'artisti innamorati, saltellavamo da un palazzo a un altro ospiti di ricchi snob e generalmente ignoranti rampolli di antiche famiglie. Questo non contribuiva a formare in me una neppur accettabile- - - - - ---


   *   *  *  * * * interruzione: è appena passata sotto la mia finestra una processione di amici studenti in festa di laurea, con Enrico, clarinettista klezmer, accompagnato da violino e basso tuba sotto spirito che ha fatto salire gli effluvi alcolici del suo fiato fino al mio terzo piano di palazzo seicentesco.
Mi hanno omaggiato con "Oy oy, Rebbe Eilimelech!" così stonata che mi è saltata una corda del violoncello migliore, e ora penzola lì tutta...
triste
 *   *   *  * * *


...Dicevo: non mi riusciva di trovar piacere e soddisfazione fra quella gente tanto ricca di soldi e povera di spirito.
Ci si consolava allora visitando spesso nuovi amici di altra estrazione sociale, cucinando spaghetti per tutti in allegre compagnie, dalle quali però non sortiva nulla che servisse alla nostra sopravvivenza d'artisti. Né che l'appagasse, peraltro, dato che dopo dieci o undici minuti di sopportazione dei loro orripilanti dischi di musica omologata ai gusti giovanili, richiesti timidamente di propinarci "qualcos'altro", io venivo afflitto da atroci dischi di jazz, intesi come "musica colta per palati raffinati".
Ora, vedi, un giorno eravamo inviatati a pranzo da un direttore d'orchestra che avrei potuto definire "sospeso a metà altezza fra la plebe e la nobiltà ", essendo iscritto al partito che all'epoca si chiamava PCI, vivendo in una pregevole casa borghese, e convivendo quotidianamente con l'alta società veneziana, in quanto solo quella si occupava di mantenere l'economia del suo lavoro, fra il Teatro La Fenice e i concerti di musica sinfonica (le "quattro-stagioni-di-vivaldi" per turisti, in quegli anni, non avevano ancora invaso le chiese veneziane).
La conversazione era insopportabilmente noiosa e io, ricordo, trovai una scusa per allontanarmi. Fu così che mi ritrovai da solo in un salottino sul retro del loro appartamento, con due finestre aperte su un grazioso cortile interno. Affacciato a una di quelle per fumare, ammiravo all'altro lato di quel breve spazio, dalle mura imponenti di un palazzo molto antico, quattro meravigliose fonti di luce da altrettante finestrate gotiche aperte a fiordaliso arrotondato, come piaceva nel Cinquecento, e interamente riempite di splendidi cristalli di Murano disposti in bell'ordine su diversi ripiani della stessa fragile materia, a modo di scaffali incastonati tanto nell'apertura rettangolare quanto in quella ornata. Là erano disposti in bella mostra diversi oggetti ridondanti di colori e orpelli, altri sublimi nella semplicità delle loro pure forme, nate solo dal soffio dei maestri vetrai.
Mentre godevo di quella vista, dolcemente rilassato, mentre mi dilettavo ad osservarla attraverso le nuvolette di fumo della mia pipa di radica ben stagionata, sbuffando divertito al sole di mezzogiorno che asciugava le mie ossa già provate dall'umidità veneziana delle mezze stagioni, con un fragore sconcertante una di quelle finestrone si spalancò, scuotendomi dal mio torpore. Mi apparve una visione così insospettabile, così inattesa che la credetti frutto del mio subconscio: là, in quella cornice sontuosa e piena di luce riflessa, fra le trasparenze preziosissime di quei cristalli e la danza aggraziata delle loro forme barocche, mi appariva quella che per me era null'altro che l'icona della stupidità del mondo, assunta ai cieli del potere più becero e squallido che mai pianeta del sistema solare aveva dovuto subire: quello della televisione. Dall'altro lato di quel cortile, in quella fessura aperta verso un mondo di luci e bellezza antica e sublime c'era H., l'allenatore di calcio più famoso del mondo, colui la cui immagine mass-mediale si imponeva ogni giorno al popolo tutto, in democratica uguaglianza di interessi e passioni, impressa su tutti i quotidiani d'informazione, sull'infinitamente stupido cristallo dei tubi catodici. La sua figura penetrava nei cervelli impoveriti, attraverso percezioni retiniche ormai sottomesse e dipendenti dal mondo che aveva cementificato e asfaltato pressoché tutta la bellezza artistica e naturale del paese in cui io ancora mi sforzavo di vivere e cercare protezione e ascolto, mentre questi confinava me e tutti i miei maestri nel limbo dell'oblio. Insomma: l'icona di quell'Italia degenerata degli anni Sessanta, che gente come Pasolini piangeva aver distrutto ogni memoria o traccia di passata grandezza...

Ci guardammo a lungo, minuti lunghi quanto eternità, certo io sapendo chi lui era, e lui che io, non essendo altro che uno che "sapeva chi stava guardando", indubbiamente ammirassi intorno alla sua figura il segno del suo successo mondano e la sua ascesi all'Empireo dell'eleganza e leggerezza del quale si era EVIDENTEMENTE appropriato, accasandosi non in un blocco di cemento con varie e disordinate aperture, quali erano le abitazioni progettate in quegli anni dai moderni architetti, bensì in ciò che millenni di esercizio e devozione al bello avevano saputo creare!
Lui —visione, per me, d'un demone ridacchiante— richiuse poi la finestrona e scomparì fra leggerezze di stucchi settecenteschi e altre meraviglie di illuminati artigiani antichi, e io me ne dovetti tornare ai miei imbecilli ospiti, ormai così afflitto da poterli sopportare senza tropp'altra pena...


Bene, gli anni passarono poi veloci, non senza subire le conseguenze subliminali di quel pomeriggio. Io trascurai inconsciamente quanto sistematicamente tutte le buone persone dell'alta società veneziana, finché la mia vita divenne quasi cosa segreta qui in laguna, benché fosse possibile raggiungere la mia casa presso il ghetto semplicemente chiedendo al primo nativo disponibile dove abitasse il "sonador de chitarron co' a barba e do fioi e 'na mujer bionda che a canta a la fenice".

Tornando alla mia penultima digressione, passarono ben venti dei miei anni vivendo una buona vita senza nobili o arricchiti veneziani a intristirmela. Né tantomeno i privilegi che aver fatto altra scelta avrebbe potuto offrirmi, a dea Fortuna piacendo. Ma l'icona di H. non mi abbandonò davvero mai... me la trovavo di fronte occasionalmente, a volte a un vernissage, altre a una festa, altre al mercato di Rialto a sceglier pesce, persino una volta presso la sinagoga, perché lui era di origini ebraiche. E questo alimentava non poco la fiamma del mio disprezzo, considerando quanto significhi per il mio senso etico l'essere ebrei, in termini di alte responsabilità civili e culturali, e quanto, rispetto a tali responsabilità, lui rappresentasse per me l'abisso...
Dunque la sua presenza, in effetti, non mi abbandonava proprio mai e sempre, nella mia fantasia, H. se ne arrivava e appariva incorniciato dalla sontuosa e cristallina bellezza delle sue finestre di quello scrigno d'arte e conoscenza che, seppure umidiccio, a fatica sopravviveva in questa miracolosa città, per la memoria universale dei maestri dell'Arte. Pur beffandosi di loro —io meditavo—, proprietario com'era diventato dei loro frutti terreni grazie all'arte di infilare un pallone gonfiato nella rete evitando il contrasto di tante gambe ingabbiate in un rettangolo di terra rubata alla Natura, così come succede a tutti, infine anche lui morì —Iddio abbia misericordia per lui— e fu sepolto, fra gli onori di un codazzo di non più giovani tifosi ridicolmente addobbati con sciarpe e magliette dagli azzuffati colori del mondo dello sport.

La mia vita, invece, continuava. Ma fra così tante frustrazioni e difficoltà che finii col far collassare il mio matrimonio d'amore e i progetti di una serena vecchiaia in compagnia dei ricordi di una vita tranquilla. La faccenda passò per il tribunale, che stabilì di affidare i figli alla madre, quindi attribuendo a lei anche i diritti sulla casa in cui abitavamo. Io dovetti cercarmene subito un'altra, e doveva essere necessariamente qualcosa di funzionale a riprendere contatti con quel "bel mondo" che —unico a interessarsi del mio lavoro di violoncellista classico— non mi avrebbe neppure preso in considerazione se solo io avessi azzardato a far sapere che vivevo presso il popolino. Né peraltro avrei potuto sopravvivere più di un giorno alla televisione o all'amplificatore di suoni del vicino di casa, felice di vivere in un mondo nel quale ci si può liberare dall'imbarazzo di rompere i coglioni del vicinato con le proprie rumorose beghe di famiglia, semplicemente inondando il mondo di suoni artificiali, ben amplificati, e a prezzi popolari.

Determinato a cercare in tutto e per tutto di costruirmi un'immagine d'artista "elitario", mi capitò l'occasione di abitare in un lussuoso appartamento nobiliare presso Rialto, ospite di una ricca signora. Accettai prima ancora di pensarci su. Fu così che un bel mattino di maggio, verso mezzogiorno, mi ritrovai a varcare la soglia di un elegante salotto settecentesco, decorato a stucchi e affreschi di bella scuola veneziana raffiguranti le quattro stagioni e, quali trionfanti fonti di luce, proprio quelle inusuali, splendide finestre che vent'anni prima avevo scrutato standomene dall'altra parte dell'universo...
Ero lì, proprio nel preciso punto in cui prima c'era stato lui, a rivivere quell'illusione in cui egli pareva beffarsi di me, stupido, obsoleto artista di altro e defunto mondo, già vinto e fagocitato dai nuovi padroni della terra, trionfanti ignoranti caproni, servi vischiosi del primo demone di turno! Ora ero però proprio io ad aggirarmi nelle stanze della bellezza, e dai luminescenti cristalli guardare le marcescenze d'intorno, ben protetto da tanta splendente trasparenza, al sicuro e isolato dai loro insopportabili schiamazzi elettrificati!

In quel salotto entrò, per il nostro primo incontro, il buon Giorgio (di cui immagino tu temessi di non sentir più parlare...).


Mi intrattenne a lungo sul suo dolore, su quella montagna sacra che ogni giorno scalava per trarne il beneficio di qualche pallido contrappunto resuscitato, per poi finire in lunghe, squallide serate di solitudine di fronte alla miseria di un piccolo monitor di computer a ricopiare, convertire, addomesticare a quella stupida orchestra di bytes ed elettroni le sue opere in forma antica, affinché potessero almeno andarsene a galleggiare sull'oceano informatico, quasi disperati messaggi in bottiglia lasciati al destino delle ineffabili correnti marine.
Io lo sospinsi verso quella finestra fatata, e lui, senza sapere il perché, rimase là a parlarmi mentre io mi accomodavo sul liscio broccato di una comoda poltroncina rococò. I riflessi di mille luci spezzate dai cristalli disegnavano buffi effetti sul suo viso, e le smorfie concitate dal suo sofferto raccontarsi lo rendevano simile a un Arlecchino depresso, pronto ad abbandonarsi all'ultimo sonno, e incosciente scivolare nella nebbia e nella morte, inutile marionetta senza più fili gettati verso il cielo. Io mi sentivo l'anima uscire disgustata dal corpo, sfuggirmi, lasciarmi con gesto di disprezzo.
Mi vedevo seduto a mo' di nobiluomo annoiato, gratificare del mio ascolto il mio ormai inutile vecchio servitore, pronto a trovare il modo e il momento meno crudele per informarlo del suo licenziamento. Sovrapponevo, in una terrificante allucinazione, il patetico sguardo del mio povero musico personale col ghigno beffardo della decadenza e della degenerazione del potere, che per vent'anni avevo associato a quell'angolo dell'universo, a quelle luci, a quei riflessi. Sapevo bene che pure il più ignorante e vizioso dei nobiluomini antichi era tuttavia sottomesso alla servitù della Nobiltà dell'Arte, configurata nell'eccellenza virtuosistica della Téchne musicale, dominata dalla complessità delle regole d'Armonia e Contrappunto così come da quelle REGOLE E MISURE DELL'ARTE per cui un affresco rimarrà attaccato ai mattoni o un mirabile edificio continuerà ad accogliere il nostro stupore, almeno finché, per avverso e indomabile destino, bomba di guerra non lo distrugga o abbandono colpevole non lo riduca a crollo e miseria.

Giorgio smetteva di parlare, e al mio silenzio attribuiva valore di comprensione e commozione. Fu ciò che tentai di lasciargli impresso, accompagnandolo alla porta e congedandomi da lui, con promessa di studiare il suo Concerto in Sol minore. Una settimana dopo lasciavo quella casa, senza alcun desiderio di tornarci.

 

Questo è il mio debito nei confronti di Giorgio.


E qualche mese fa gli ho fatto visita nella sua casa in Romagna (condominio anni Settanta in periferia, con scantinato adibito a "Stanza della Musica"...) per leggere con lui le sue Sonate per flauto e Basso Continuo, insieme a quelle di Barsanti, Corelli, Haendel...
A cena, dopo tanta soddisfazione musicale quanta forse non ne avevamo messa insieme in almeno dieci anni, mi ha detto che sarebbe stato proprio carino fare un concerto insieme, a flauto e violoncello soli, e che lui forse sarebbe riuscito a organizzarlo in qualche chiesa del circondario, se solo io avessi accettato pane e mortadella da lui, più il letto dello scantinato. L'ho rassicurato sulla mortadella: io non mangio maiale, né cavallo o coniglio, secondo la regola ebraica. Quindi, abituato ormai a "viver di solo pane", sarei costato meno di un qualsiasi violoncellista non ebreo.




 

Vivi felice e restami amico,  

tuo Claudio Ronco, musico antico... 

 

 

 

 

 

 

Dedicata a Pierluigi,
il gattopuzzolo.


 

“Finalmente la Musica è necessaria a’ Principi grandi, ritrovandosi in questi la giustizia e la misericordia; addolcisce l’animo loro, distogliendolo dall’ira, e dalla vendetta, col mantenerlo placido per l’esercizio della Clemenza”

(Angelo Berardi, “Ragionamenti musicali”, Bologna 1681, pag. 110)

 

 

... Leggi di “Costanza”...

 

 

 

 

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