costanza

 

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    Amica cara,
una notte di violenti temporali mi ha regalato un sonno meraviglioso, e se ho sognato, sognavo di essere in paradiso. Mi sono svegliato pensandoti, e in effetti non so chiamarti col tuo nome, che se a volte è Filli, questa mattina è diventato —non so perché... — Costanza.

1Quando ero bambino, mia madre spesso mi portava con sé al lavoro perché non poteva pagare una baby sitter. Il lavoro di mia madre, in quegli anni, era molto vario; oltre ad essere mamma e moglie dedita alla casa, insieme a un ex attore di teatro diventato scrittore, realizzava l'unico periodico di critica e cultura teatrale nell'Italia di quell' epoca. A mia madre spettavano i compiti più diversi: scrivere, impaginare, viaggiare per interviste o articoli, leggere e scoprire nuove Commedie, tradurle o cercare i traduttori, trovare artisti che offrissero i loro quadri o disegni per le copertine della rivista. Tra questi c'era un giovane pittore bergamasco di nome Gentile. Mia madre mi infilava in spalla una borsa di quaderni e matite, e insieme partivamo col treno per andarlo a trovare nel suo studio in Bergamo alta, ricavato dalle antiche stalle di un palazzo quattrocentesco.

Lo studio di Gentile era un enorme salone con grandi finestre con vista sulla valle, quasi nascosta dalle ampie fronde degli alberi del giardino. All'interno, la parte luminosa era riempita di cavalletti e tele, e l'altra, in penombra, era simile al laboratorio di un alchimista. Era lì che preparava i colori con terre, metalli, vegetali, insetti, chiara d'uovo e resine rare. In un angolo c'erano grandi armadi pieni di barattoli di vetro disposti in bell'ordine, con le materie prime e le polveri colorate già pronte, e a lato di quelli, presso un tavolaccio di legno antico, c'era il lettino dove io riposavo mentre mia madre offriva un braccio, o una mano, o un seno all'occhio del pittore per un nuovo bozzetto. Le membra di mia madre da giovane sono sparse in chissà quanti dei dipinti di quegli anni, copiati su carte grigio-azzurre o rosa antico durante i miei innumerevoli sonni pomeridiani, quando io, socchiudendo gli occhi, vi trattenevo intimorito e affascinato la maestosità e il mistero degli armadioni in penombra.

2Io crescevo, cresceva la mia curiosità e il mio desiderio di dipingere le cose che cominciavo a vedere con occhi più vivi, e Gentile mi dava da pestare nel mortaio di pietra i lapislazzuli per fare gli azzurri dei cieli, o le cocciniglie per i rossi dei vestiti o dei fiori o degli incarnati. Più avanti, mi sedeva presso la finestra più ampia, con matite e carta grigia, per farmi copiare i disegni di Raffaello da un vecchio libro molto grande che appoggiavo a un cavalletto.

Non ci fermavamo mai a Bergamo meno di due giorni, dormendo nella casa di Gentile nella città bassa. Lì viveva all'ultimo piano di una palazzina fine Ottocento, piena di fiori di straordinaria bellezza, curati da sua moglie Costanza, donna di antica nobiltà lombarda, di straniante bellezza.

Costanza sapeva muoversi fra le cose come una brezza leggera, impalpabile. Io pensavo che avesse il viso più perfetto al mondo, eppure non mi riusciva di trattenerne i lineamenti nella memoria. Tutto questo mi ossessionava: mentre ero allo studio, cercavo di disegnare i suoi tratti e provavo e riprovavo a tesserne le linee, correggendole con rabbia, disperandomi di fallimento in fallimento. 3Quando mi accorgevo del sopraggiungere di Gentile, subito cambiavo foglio e tornavo a uno studio sulla mano, o sull'occhio iridato, o sulle pieghe del gomito di un braccio virile, e lo mostravo al mio maestro con enfasi, agitato dal timore che mi chiedesse di guardare ciò che davvero stavo disegnando.
Non capivo, allora, che la bellezza di Costanza era tale che non poteva arrestarsi in alcun lineamento, in nessun gioco di ombra e di luce. Era la bellezza all'apparenza diafana ma ineffabile dell'eterno femminino, che nessuno può chiudere dentro le linee di una forma. In quei giorni pensavo che solo Gentile avesse il privilegio di poterla descrivere col gesto della matita o del pennello, e per questo invidiavo la sua tecnica, la velocità della sua mano, l'acutezza dell'occhio, temendo di non aver diritto, o tempo a sufficienza per conquistarli anch'io.


4Gentile mi amava come un figlio. Sedeva accanto a me quando cadevo addormentato, e da quella posizione continuava il suo lavoro disegnando nella penombra. Mi parlava per insegnarmi a pensare, come fanno i padri migliori con i figli che dovranno ereditarne la professione. Con i suoi ragionamenti mi portava lontano, in luoghi troppo oscuri per me; da quelle distanze raccoglievo poco più del terriccio che rimane sulle scarpe dopo una passeggiata; ne ricordavo solo la piacevole stanchezza alla fine del viaggio.
Un giorno Gentile mi confessò che aveva sempre desiderato avere un figlio, ma il destino gliel'aveva negato. Così si alzò, raggiunse un angolo della parte luminosa dello studio dov'erano appoggiati al muro diversi dipinti senza cornice, ne estrasse uno, lo lasciò coperto dal lenzuolo grigiastro di lino che lo proteggeva, e lo portò vicino a me. Svelatolo nella penombra, mi apparve mentre tutto ciò che era intorno scompariva alla mia vista.

5Fu un tonfo al cuore, uno straniamento così forte che nessuna parola mi sembra adeguata al ricordo. Un cielo d'un trasparente, chiarissimo azzurro, di un'infinita profondità mi abbagliava, come una finestra verso il cielo, spalancata d'un colpo agli occhi appena aperti nell'oscurità. Quella luce conteneva la figura di lei, l'unica, infinitamente bella, Costanza. Immagine di donna assorta in solitudine, vestita di un tenerissimo abito di panno rosato, il quadro la mostrava di profilo, gli occhi rivolti alla terra, la bocca chiusa come fiore bagnato di rugiada, stretto nel trattenerne a sé le gocce più preziose. I capelli bruni, raccolti sulla nuca, si sovrapponevano come pensieri sublimi, e lo sguardo, quasi di bambina imbronciata, era come si abbandonasse a una stanchezza grandissima, antica quanto il mondo. L'incarnato pallido, quasi giallognolo, attribuiva alla figura uno spavento, una fragilità che contrastava in modo strano con la fermezza e forza del lungo collo sensuale. Al seno, schiacciato nel vestito, seguiva verso il basso il gonfiore del ventre fecondo, simile a un grande uovo nato dalla terra, appena accennata da una linea scura. In quella, oltre quella, oltre il quadro stesso, scompariva la mano, forse in tensione, o forse in abbandono; solo il pensiero poteva guardarla. Nell'equilibrio perfetto, classico di quell'estatica composizione tripartita, l'ovale si moltiplicava all'infinito, trionfando in quel ventre gravido di vita come un'energia tellurica scatenata dal basso verso l'alto, un'ascesi che pareva attraversare tutta la figura, ignorata dallo sguardo mesto e silenzioso di Costanza.6

 Gentile l'aveva fecondata con l'arte, e lei portava in sé l'eterno. Io tornavo alla mia carta grigia, e tendevo fili di luce con pennello e biacca fra i segni argentei della mia matita, sperando di tornire uova trascendentali da quei mille volti di bellezza che non avevo terminato di disegnare né per me stesso, né per il mio maestro. Oggi raccolgo quei ricordi sbiaditi, e vedo la mano di Costanza poggiare con gravità sulla nuda terra umida, fecondandola ancora.

L'arte è quella volatile pienezza dell'amore, e il suo sguardo è lontano, nell'impossibile.

 

Claudio Ronco,
Venezia, 19 luglio 2002.
Dedicato ad Antonella.

IMMAGINI:

Dipinti e disegni di Mario Donizetti, Bergamo.
Dall'alto:
"Maternità", 1968, tempera encaustizzata, cm.35x55; (Coll. Ist. clinici di Perfezionamento, Milano)
Studio per ritratto di Costanza, 1957
Vari studi di mani, dal 1949 al 1971
"Ragazza con palloncini", tempera encaustizzata, cm.60x100, 1965, (Coll. privata, Londra)

 

 

©claudioronco2002