Sì
amica mia, è vero...
E in qualche modo io e te, nel tuo ascolto, stiamo facendo
lamore.
Ed è questa soddisfazione profonda che sentiamo entrambi, e che
ci riempie, a indicarlo. E anche il senso della sospensione,
che in un certo senso è levità, leggerezza. Anche questo
è essenziale allamore.
Per un violoncellista, portare il suo strumento a contatto col suo corpo,
ancor prima del suonarlo, è un gesto pieno di significato. Egli
lappoggia al cuore, lo accoglie fra le proprie gambe, dilata il
proprio corpo in un abbraccio intenso, avvolgente, dispone le dita sui
tendini tesi delle corde, pronte a riceverne il tocco sicuro nel misurare,
dividere, soppesare, infine fa cadere il braccio e larco verso
quel contatto sublime con la corda che produrrà voce in miracolosa
espansione...
Tutto questo ogni amante della musica lo riconosce, lo ammira, ne gode
e lo associa allatto del far lamore, offrendo una metafora
allosservazione di una gestualità che nessun altro strumento
di musica, seppur nobile, può palesare con altrettanta evidenza
alla vista. In quei gesti e quei movimenti del corpo, larte, che
sospende lusuale percezione delle cose, ne sposta la visione alludito.
E
dunque è il pubblico il suo ascolto attento, la sua partecipazione commossa a divenire lamante del concertista. E anche questa
è cosa nota e ripetuta, fino a renderla sottintesa, poi ovvia,
e infine trascurata. Così il concertista calca le assi del palco
in solitudine, e si mostra allo sguardo dei convenuti come separato,
allontanato da un invisibile muro che divide il suo spazio dal loro.
Quel muro è situato esattamente sulla linea di confine, più
o meno evidenziata dal teatro o dalla stanza, tra la prima fila di spettatori
e la scena. Se non è un confine invalicabile, ciò accade
proprio per effetto della sua precisa delineazione; a volte io lho
percepito simile a un fossato riempito dacqua torbida, o a un
fiume o un canale lento e fangoso che in qualche modo dovevo poter attraversare.
In entrambi i casi, cè unacqua immaginaria che spaventa,
poiché cela invisibili abissi, imprevedibili pericoli nascosti
dalla sua opacità.
Nel suonare in concerto pubblico, spesso la
mia attenzione si concentrava sul desiderio di renderla trasparente,
sicura.Allora fissavo gli occhi sullo spazio tra le due sponde e immaginavo
di sollevarmi, di tenermi sospeso fra quelle come diventassi un ponte
lanciato nellaria con la stessa grazia dun colpo darchetto
a colpire le corde del violoncello, quando si improvvisa un calmo preludiare. E
immediatamente accorrevano al generarsi di questa illusione tutte le
linee curve e le forme del mio strumento, abitudinaria visione troppo
spesso inutilmente presente di fronte ai miei occhi: il ponticello ritagliato
con sapienza di Architetto e di Pontefice, per trasmettere, per comunicare
alla cassa la vibrazione della corda...
E sotto i piedi del ponticello, il rigonfiamento della tavola armonica,
come leggero arco di ponte appoggiato agli archi delle fasce...
anchesse ponti, altri e ribaltati per rovesciare le
direzioni dei pesi, spostare la direzione della gravità, e opponendosi
congiungere mondi paralleli e capovolti, per racchiudere un universo
nello spazio fra i due volti speculari e nascosti del violoncello...
E nel volto nascosto l arco di ponte del fondo, viso
senza occhi, o schiena incurvata nello sforzo, opposto e connesso allo
sguardo frontale e aperto della tavola, per effetto del vibrare di quella
sottile e nascosta colonna di legno, eccitabile quanto una corda tesa,
che chiamiamo anima, forse perché si posa là dove unarte centenaria,
istruita dallorecchio, sceglie e stabilisce di volta in volta
dappoggiarla, presso il punto preciso in cui gli archi di ponte
di tavola e fondo iniziano a scendere, l'uno verso l'altro e insieme
verso il centro invisibile dellenergia... E quella si espande
in ogni direzione, scaricando i pesi nella voluta del riccio, o nelle
curve ritorte e complesse dei fori armonici, o nelle linee del corpo
di colui che ne trae musica...
E ancora larchetto, impugnato dalla sua mano... ponte
anchesso, coi piedi appoggiati sulla linea bianca dei crini di
cavallo, presi a prestito dalle loro ondeggianti, inquiete, sensibilissime
code. Crini non più scompigliati al vento delle corse eccitate,
ma raggruppati e tesi, a carezzare la vibrazione della corda, e spingerla,
frenarla, percuoterla, proiettarla nel suono...
E l arco di ponte dellonda del suono sinnalza,
sinarca, svetta, si slancia, si riflette, scavalca le barriere...
Mi
accadde così, da queste sospensioni del mio pensiero, che nel
meravigliarmi di tutto ciò un giorno finii col trattenere troppo
a lungo il braccio dallatto di iniziare il concerto. Nellimbarazzo,
anziché tacere e conservare nel segreto dei miei ricordi quella
visione, io abbassai larco allontanandolo dalle corde, e rivolsi
la parola al mio amante, il Pubblico.
Alzandomi
e indicando il bordo del palco, la linea di confine fra me e loro, mostrando
i nostri spazi divisi, dissi: «Cè un ponte che congiunge
la mia alla vostra isola, il ponte che gettiamo insieme io e voi...».
Tutti sentirono come una lacerazione, un dolore sottile che si insinuava
nel profondo, con la coscienza della distanza, del distacco. In quella
particolare qualità del silenzio io continuai: «...È
il suono del mio violoncello. Esso è come un ponte, e appoggia
sui due estremi contrapposti della mia tecnica musicale e del vostro
desiderio di ascoltarne il suono, proiettato oltre le nostre distanze...»,
così iniziando a far vibrare le corde nella mia prima frase di
musica.
Al termine del concerto io narrai loro una storia.
—L’anello della sposa —
In una notte dottobre, a Venezia, passeggiavano
due amici cinquantenni e una donna. Vestivano eleganti abiti
da sera, e la donna, avvolta in un manto
di seta azzurra, portava vistosi orecchini di brillanti, al collo una massiccia collana
di cristalli e perle, ma alle dita solo un anello: la vera doro del suo matrimonio. Camminava taciturna, ancora giovane com'era, quasi in disparte, come volesse sottrarsi con discrezione e timore all'intenso dialogare dei due uomini.
Di quelli luno, padre di due figli, si era appena separato dalla moglie,
e laltro, dopo due divorzi strazianti e un lungo periodo di solitudine, aveva appena sposato in terzo
matrimonio la donna che passeggiava con loro.
All'apparenza erano una coppia fiera, serena, pienamente soddisfatta nonostante la differenza d'età. Pur tenendo segreto il suo pensiero, luomo
da poco separato vi percepiva però un tarlo, un difetto, una paura. Taceva la sua curiosità per quel
fatto, così come riservava per se stesso il racconto del dolore
ancora intenso che gli avvelenava lanimo.
Laltro, invece, col
gesto di chi vuol esser vicino allamico sofferente poiché pensa
di riconoscervi i tratti di un dolore già provato su se stesso, si insinuava senza pudore nellintimità dellamico,
insistendo nel domandargli di raccontare la vera storia della sua separazione.
Passeggiavano di notte, in una Venezia autunnale a tratti lugubre tra le sue pietre vischiose dumidità. Già da ore vagavano fra calli e campielli, decisi, o rassegnati,
a veder sorgere lalba sulla laguna. Ormai anche la donna aveva abbandonato ogni discrezione: stuzzicavano
entrambi lamico per fargli raccontare il fallimento della sua vita matrimoniale. E forse ci sarebbero riusciti da un momento allaltro, nel rilassarsi
dei modi, con la complicità della luna, nel silenzio della
città addormentata.
Ma lamico non dava segno di cedere. Abilmente, cambiava discorso,
scherzava scapolando le loro domande, iniziava e mai finiva lunghi
racconti su tuttaltri argomenti.
Nel gironzolare a caso giunsero allampio ponte in legno dellAccademia,
e in mezzo a quello si fermarono appoggiandosi alle sponde, come fanno
tutti per ammirare la chiesa della Salute, le
possenti volute a spirale della cupola, in quella notte illuminata dalla luna riflessa
nellacqua. Inaspettatamente, di fronte a tanta maestosità,
la donna si sedette a terra ripiegando la seta del suo vestito sotto
le ginocchia; si distese poi sulle travi di legno grezzo e impolverato
come fossero preziosi tappeti e cuscini, e invitò gli uomini
a imitarla.
Prima
imbarazzati, poi divertiti, i due amici accettarono linvito e
furono accanto a lei, incrociando le gambe impacciate
dalle scarpe da sera, provando e riprovando posizioni accucciate, finché
risero di quello strano gesto,
riuniti come a un picnic sullerba nel mezzo di un ponte veneziano a tarda
notte.
Ecco che inaspettatamente, in quel preciso momento, luomo che fino ad allora aveva
evitato di parlare di sé sciorinò una dopo laltra
in un fiume tutte le parole che descrivevano il ricordo e la coscienza
della sua separazione. Rivisitò i litigi, gli equivoci, la violenza
dellodio espresso a parole e a pugni e a schiaffi, il dolore dei
figli, le notti insonni, gli incubi affannosi, le parole che feriscono,
gli avvocati che invadono la vita, gli amici che consigliano, le urla,
gli sguardi dei vicini di casa, la paura della solitudine, la rabbia,
lorgoglio, la disillusione, il senso di colpa.
I due sposi ascoltavano stupiti, in assoluto silenzio. Lei teneva gli
occhi fissi a terra, e con le dita rivelava
uninquietudine, giocherellando nervosamente con la vera d'oro del suo matrimonio: la
toglieva e la rimetteva allanulare prima di una mano e poi dellaltra,
la tastava e soppesava, la faceva girare e dondolare fra pollice
e indice. In un nulla, l'anello scivolò via da quelle dita in unellissi
troppo veloce anche per locchio, evitò lo slancio della
mano a bloccarne la caduta, e infine scomparve nel toccare il suolo.
Seguì
un silenzio terribile.
Ognuno, senza quasi respirare, fissava gli occhi sul punto tra le assi consunte
di quella piattaforma sospesa sull'acqua, dal quale intravedeva appena il luccicore del canale,
attraverso un pertugio allungato, poco più largo dellanello che pareva averlo attraversato con precisione infinitesimale.
Era
impossibile credere a ciò che era successo: come poteva essere caduto proprio in quel punto, in
una fessura così piccola, lunica tuttintorno a loro? Cerchiamolo, devessere rotolato qui vicino! si ripetevano agitati
devessere finito più in là, da unaltra parte! Non può esser caduto in quel buco! Locchio
si è ingannato, è stata la penombra... o forse si è infilato tra le pieghe del vestito!
Alzati! Cercalo! Trovalo!
Finché fu certo che a quellanello, per disgraziata casualità, non poteva esser successo
altro che centrare
e attraversare l'unico punto delluniverso da cui non
era più possibile recuperarlo.
Mentre lei già piangeva, il marito si tolse la vera gemella. Reggendola fra due dita
penetrò rabbiosamente il vuoto della fessura, ne misurò tutte le dimensioni,
constatò che cera appunto lo spazio necessario a rendere possibile
un fatto così incredibile. Strinse fra i pugni il suo anello, senza più rimetterlo al dito.
La donna rimase a guardarlo, immobile nello spavento. Voleva uno sguardo, un
cenno, una parola. E da quel silenzio sfogò in un grido disperato,
stringendo i polsi del suo uomo, avvinghiandosi a lui, soffocando in
singhiozzi la rabbia, implorando perdono.
Lui la guardava con disprezzo, poi fissava il vuoto, poi ancora quella fessura, con lespressione severa
di chi legge un segno oscuro del destino e ne considera peso e volume.
Il loro amico si allontanò, incapace di agire, consapevole di aver assistito
a qualcosa di tragicamente profondo. Capiva che forse proprio il suo racconto aveva aperto le porte alla coscienza dolorosa di una paura che si voleva segreta.
Ebbe in quel momento lidea, il desiderio di togliersi la vera
nuziale che ancora testardamente continuava a portare al dito, e portarla
a loro in dono. L'afferrò con decisione ma, nellatto di sfilarla, rimase immobile: comprese di essere sul punto
di consegnar loro nullaltro che il simbolo di un matrimonio fallito.
Nuovamente pensava di volersi stringere a loro, offrirla in dono allamico perché fosse lui a darle un senso nuovo: la vera doro come segno di una ricostruzione,
di una rinascita. Voleva chiedere a quelluomo, che tanto ora gli somigliava, di unire i due anelli superstiti, comprenderne linutilità,
il cessato valore; e infine avrebbero potuto gettarli via, insieme allaltro, nel vuoto di quella
stessa fessura da cui era scomparso il primo, in una sorta di improvvisato rituale, una follia benedetta dallamicizia, per benedire in qualche modo un nuovo inizio... Sì pensò a quel punto , i Dogi veneziani sposavano il mare col
rituale solenne di gettarvi un anello...
Si mosse deciso verso la coppia di amici, ma fu sufficiente un solo frettoloso sguardo al viso disperato di lei, alla
maschera di lacrime che lo deformava, perché subito gli apparisse evidente quanto
sarebbe stata inopportuna una simile intromissione.
Lui stesso, ora, non riusciva a cacciare dagli occhi la visione della
donna che era stata sua moglie e madre dei suoi figli: lanello del loro matrimonio glielaveva gettato in faccia, con disprezzo, con infinita, incomprensibile crudeltà. Non poté far altro che allontanarsi nuovamente,
mentre i due sposi, vinti dalla disillusione, si chiudevano al mondo.
Scese
le scale del ponte, lo sguardo trattenuto in disparte da quella
scena di dolore, e già si accorgeva di un senso di distacco, di
indifferenza verso le tragedie della vita;
un nuovo, inatteso stato di tranquillità, insensibile al dolore
e apparentemente inattaccabile, forse neppure immorale. Pensava al fatto appena accaduto
e non riusciva a togliersi di mente lidea che la donna del suo
amico si fosse sposata solo per interesse, per paura dinvecchiare
in solitudine, nella fatica del lavoro e delle incertezze. Legarsi a
quelluomo ricchissimo non le doveva esser stato difficile, considerando
quanto era reso fragile dai suoi matrimoni falliti; bastava sposarselo
per tempo, prima che la sua bella femminilità cominciasse ad
avvizzire, la pelle, i seni, le mani a perdere freschezza; non cera
bisogno di alcuna complicata strategia...
Sì, questa gli pareva essere la verità più probabile.
E fu pensando queste cose che si fermò sulla riva del canale,
poco lontano dal ponte. Accese una sigaretta, fissò gli occhi
sul lento muoversi dellacqua nel Canal Grande, lasciò scorrere
in libertà i suoi pensieri, si abbandonò al piacere di
quella nuova calma del suo spirito.
Lo scosse un grido soffocato, primitivo, carico di presagi di morte. Alzò gli occhi in quella direzione, dovera lei, sulla sommità
del ponte, con le mani premute sul volto, sola. E in quellistante vide: larco del ponte, nel suo riflettersi
sullacqua, mostrava limmagine di un anello perfetto.
Tutto
ritornò ad agitarsi in lui. Risalì concitato i gradini
di legno, raggiunse la coppia di amici travolgendoli in un abbraccio.
La voce che gli si esauriva in gola, gridò: «Il vostro anello! Non lavete perduto: lanello è
qui, è questo ponte! È larco che diventa cerchio nel suo
specchiarsi nellacqua, dove ritorna su se stesso, congiunge il sopra al sotto, riflette ogni cosa in ciò che le si oppone!»
Tratteneva le mani della coppia fra le sue. La voce gli si calmò: «È
questarco di ponte, dove siamo ora. Se vi allontanate
appena e lo guardate in distanza lo vedrete subito: i suoi piedi poggiano sulla sua stessa immagine capovolta, riflessa nellacqua...»
Gli
amici si alzarono, seguirono con lo sguardo lamico che si muoveva
verso il punto in cui era caduto lanello. Lui continuò,
con affettuosa dolcezza: «Questo è il luogo e il
momento più vero del vostro sposalizio: lanello di matrimonio è
un anello fra laria e lacqua, a consacrare ciò che
temevate di aver perso...». Rimase a lungo in silenzio, poi riprese: «Questacqua ne conserverà per sempre il segreto...»
Sulla sommità del ponte, i due uomini si strinsero lun
laltro con gesti gravi, trattenendo la donna appena fuori
dal loro cerchio. Sinchinarono a terra, e mentre lei, ritta nel
mezzo, allargava
le braccia poggiando teneramente le mani sulle loro teste, carezzandone
i capelli con tocchi lievi, affondandovi le sue mani nude, consegnarono
al ponte i due anelli doro, lasciandoli scivolare nel vuoto fra
le dita di legno di quelle vecchie travi.
Separandosi in rispettoso silenzio, si incamminarono nella notte, soli.
Questa
storia ti dedico stanotte, notte di Shabbat.
Claudio Ronco,
Venezia,
16 luglio 2002
(Dedicato a Emanuela e Antonella, Muse sorridenti e luminose.)
[...] Il ponte veneziano presenta sistematicamente la scala doppia:
a ogni salita corrisponde una discesa.
«Si sale allora da un lato per pioli che sono scienze,
cioè gradi di conoscenza corrispondenti alla realizzazione di
altrettanti stati, e si ridiscende dallaltro lato per pioli che
sono virtù, cioè i frutti di questi stessi
gradi di conoscenza applicati ai loro rispettivi livelli» [...]
(René
Guénon, Simboli della scienza sacra, trad. it. Milano,
1987, pp. 123-124;
in: Giuseppe Sinopoli, Parsifal a Venezia, Marsilio 1993, pag.55)
[...] Mi accorsi di aver superato innumerabili ponti costruiti
con scale ascendenti e discendenti. La scala è un simbolo assiale,
riconduce allAsse delluniverso; cosicché salire
una scala equivale simbolicamente allascensione dellessere
lungo lAsse del mondo. I gradini o i pioli corrispondono ai
diversi livelli o stati dellesistenza universale, mentre i due
montanti che li delimitano lateralmente equivalgono «alla dualità
dell Albero della scienza o nella Cabala ebraica
alle due colonne di destra e di sinistra dellalbero
sefirotico» (R. Guénon, Simboli, pag. 291), rispettivamente
quella della Misericordia e quella del Rigore. [...]
Ascendere
una scala è così rinascere ogni volta a un più
alto livello di conoscenza e a un più elevato stato ontologico.
La scala è, come nel caso di Giacobbe, un ponte verticale
innalzato dalla terra verso la sommità del cielo. [...]
Il ponte è anchesso legato alla simbologia del passaggio.
La forma originaria della simbologia del ponte può essere considerata
una fune, una trave, oppure una lama sottile tesa tra le due rive
che rappresentano due stati dellessere... Dalla simbologia del
ponte nasce la funzione del pontifex (da pons e facio),
il Mediatore tra il mondo sensibile e il sovrasensibile, il sommo
sacerdote che officiava il culto. Il passaggio figurato del ponte
era il passaggio dalla morte alla vita, dalla terra al cielo. Questi
mondi, separati dalla Manifestazione universale rappresentata dal
fiume-canale, sono congiunti dal ponte. Il ponte equivale quindi simbolicamente
allAsse del mondo che congiunge la terra al cielo. [...]
(Giuseppe
Sinopoli, Parsifal a Venezia, Marsilio 1993; pp. 56-57, 61.)
"Giobbe[...]
è assalito da una turba di chiacchieroni che lo stanano dalla
sua solitudine durante tutta la durata dell'eclissi divina. [...]
Ah, se fossero venuti soltanto per consolarlo, se il versetto 13 del
capitolo II del libro di Giobbe si fosse prolungato fino all'inizio
del capitolo XXXVIII, se apprendessimo adesso che i suoi amici «sedettero
accanto a lui in terra, senza che nessuno gli rivolgesse parola perché
vedevano che molto grande era il suo dolore», se questo silenzio
degli uomini fosse stato la sola replica alle grida di Giobbe [...]
allora, potremmo trovare naturale e persino benvenuta questa presenza
silenziosa degli uomini accanto all'uomo abbandonato dalla parola
di Dio. [...] Ma gli amici di Giobbe rompono questo silenzio della
simpatia [...] e appena sentono urlare Giobbe per la prima volta,
intonano il contrappunto della parola, e impegnano con Giobbe un dialogo
sfibrante. [...] Quei quattro uomini si danno il cambio, si alternano,
per tessere di volta in volta reti loquaci in cui desiderano sorprendere
Giobbe come in una trappola. Il loro obiettivo è di ottenere
la confessione. Occorre a tutti i costi che nel processo, Giobbe sia
costretto a dichiararsi colpevole. [...] Gli amici di Giobbe sono
profondamente convinti che al silenzio di Dio non ci sia nessun'altra
motivazione che la colpevolezza dell'uomo. Dio tace perché
l'uomo è colpevole. E se, nonostante lo spiegamento di una
retorica varia e persuasiva, gli amici non riescono a far sì
che Giobbe condivida la loro convinzione, se non ottengono la sua
confessione, perlomeno vengono lasciati liberi di parlare abbastanza
a lungo perché qualcosa del loro veleno si insinui nello spirito
del lettore."
(André
Neher, L'esilio della parola,
dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Marietti, 1983,
pag.44-45)