«Grazie, sto bene così.
Vada avanti, la prego.»
«Sì, certo. Ora, il gentiluomo parlò forse per quasi un'ora di quel
violoncello straordinario e assolutamente unico al mondo, dicendo
cose d'importanza e profondità capitali, e infine cadde svenuto,
senza essersi mai accorto che il suo amico non aveva fatto altro
che dormire beato il sonno dei giusti.
Il giorno dopo, James tornò a trovare il suo vecchio mecenate, e
lo trovò decisamente migliorato: la crisi più forte era passata
e ora c'erano buone speranze di guarigione. Portava con sé un ottimo
medico che si occupò di evitare i salassi e le purghe, migliorando
il suo stato in pochi giorni grazie a metodi più moderni.
Quando il gentiluomo riprese accettabilmente le forze e poté parlare,
chiese a James se aveva già provato a suonare il dono che gli aveva
portato, e James, per non imbarazzare l'amico forse morente e forse
delirante, rispose di sì, e che era meraviglioso. Poi, durante un
momento di sonno del malato, aprì la cassa che gli aveva visto indicare,
e vi trovò il violoncello.
Si mise subito a suonarlo, deliziando oltre ogni attesa l'amico,
che credette di essere ormai giunto al Paradiso.
Il suono era quanto di più bello avessero mai sentito o immaginato:
tutta la dolcezza e l'innocenza degli angeli vi era infusa, e niente
al mondo poteva essere più leggero, eppure così intenso.
Ma la malattia non era delle più semplici da guarire, e il povero
gentiluomo fu costretto nel letto fino ai primi giorni del nuovo
anno. Tuttavia, quelli furono forse fra i giorni più belli della
sua vita, perché era nata in lui una speranza, una fiducia innata,
che il suono di quel miracoloso violoncello potesse guarire il mondo.
E lui aveva l'orgoglio di esserne stato l'artefice.
James andava a trovarlo ogni giorno, per diverse ore, al mattino
e alla sera, e sempre si sedeva a suonare al capezzale del suo letto.
Non parlavano quasi mai, in quei giorni, perché era troppo prezioso
ogni istante in cui si potesse intendere il timbro medicamentoso,
il suono taumaturgico di quel violoncello!
Il cinque di gennaio del 1746, James chiese all'amico di portare
con sé lo strumento: voleva il permesso di usarlo in un concerto
proprio per il giorno dopo: il giorno dell'Epifania. Il gentiluomo
sorrise compiaciuto a tanta dolce umiltà, e si espresse in modo
che il povero James non capì e interpretò quale serio sintomo di
ricaduta nella malattia. Gli disse solo, infatti, più o meno così:
"perché mai dovrei concedere proprio a te, fratello mio, il permesso
di far vibrare e muovere nel mondo ciò che ormai è tuo, e tuo per
sempre, anche se solo per mia volontà scaturì dalla mia anima?",
facendo evidentemente riferimento a ciò che credeva di avergli detto
in quella fatidica notte.
Il violoncellista ringraziò, prese lo strumento e partì per casa
sua.
Il giorno dopo, simile a un bozzo di baco da seta, tanto era fasciato
di coperte di lana, il gentiluomo si recò al piccolo teatro di Haymarket,
una stretta sala a palchetti tutta in legno, per assistere al concerto
dell'amico.
James si produceva in uno di quei concerti molto popolari a quel
tempo, soprattutto in Inghilterra, dove l'agonismo è una cosa che
si trasmette col latte materno e si imprime nel sangue: una gara
fra due violoncellisti, Jacopo Cervetto e Andrea Caporale. Il teatro
era straripante di folla; tutti urlavano, ridevano, si scambiavano
le ultime facezie su quello o su quell'altro virtuoso italiano.
Tutto ciò era nuovo, inatteso e incredibile per il povero gentiluomo
della provincia toscana, abituato al silenzio dei suoi studi e dei
suoi pensieri tragici e oscuri. Sedette fra quella gente, di cui
non capiva quasi niente della lingua, e si apprestò a godere di
quell'unica lingua universale che era la musica.
I due violoncellisti salirono sul palco l'uno a fianco dell'altro,
piegandosi in un profondo inchino. Quanto era grande James! Caporale
gli arrivava sì e no a metà del torso, e le sue spalle sottili da
tisico lo facevano sembrare una piccola marionetta sgraziata, con
la lunga redingote che si apriva a campana verso il basso. Jacob,
che trasportava il suo nuovo violoncello con la fierezza di un alabardiere,
gli sembrava perfetto nelle proporzioni, simile a un dio greco della
guerra. Era felice di vedere che le grandi misure che aveva chieste
al liutaio per quel violoncello - ben 79 centimetri di lunghezza
per la cassa! - vestivano e si proporzionavano adeguatamente alla
figura imponente e slanciata dell'amico.
Quando vi fu il secondo inchino, fra urli, fischi e battimani ancora
più rumorosi, ecco che il gentiluomo già sconvolto dal chiasso e
dalla confusione, vide volare una grossa patata dall'alto della
piccionaia, e quella patata, dopo la lunga ellisse, colpì in pieno
il naso del malcapitato violoncellista ebreo!
James si strofinò appena col palmo della mano là dove aveva incassato
il colpo, poi posò il violoncello e, d'un balzo, scese fra quel
pubblico urlante, facendosi spazio con le sue immense braccia, verso
l'uscita della platea. Il gentiluomo cercava di capire cosa stesse
succedendo: tutto il pubblico gridava, battendo le mani per darsi
il ritmo: "Play up, Nosey, Play up, Nosey!". Capì che quel
"Nosey" era il soprannome che la gente aveva dato al suo
protetto, il nickname che il suo amico doveva portare su
di sé, per quel suo tratto semitico, per quel segno di razza sul
suo volto dolce, buono, gentile!
D'un tratto si accorse che la scena si era spostata in alto, e provò
con fatica a sollevare lo sguardo: vide l'amico tenere con la mano
sinistra l'intera spalla di un uomo, e poi scaraventargli contro
il viso l'altra, aperta ed elastica come tirasse l'arco del suo
violoncello. Tutto il pubblico esplose in un applauso fragoroso,
ad incitare ancora il musicista, a chiedergli, ora, di sferrare
il pugno, di fare il bis!
Ma Jacob, con un sorriso sereno, sostenendo ancora con la sua mano
di gigante la spalla ammollita dell'uomo privo di sensi che aveva
punito, s'inchinava ancora per ringraziarli, mostrando impietosamente
il suo lungo naso rigonfio e sanguinante per la violenza di quel
lancio crudele. Caporale restava in piedi sulla scena, solo, senz'occhi
su di sé: già sconfitto.
Quando Jacob discese, fra le acclamazioni del pubblico, il gentiluomo
vide nei suoi occhi un distacco quasi sublime, o forse una freddezza
agghiacciante.
Cominciò la musica: suonò per primo quel piccolo italiano, e certo
il suono che cavava era dolce e intenso, penetrava a fondo nel cuore,
sembrava premere su porte segrete dell'animo, cantando una melodia
lenta, struggente, piena di sentimento d'amore, di verità; ma nessuno
l'ascoltava, tutti ancora ripetendo gli urli, i fischi, gli incitamenti
a "Nosey".
Jacob attendeva, ascoltando ad occhi chiusi, di quando in quando
asciugandosi il naso ancora colante sangue col suo fazzoletto azzurro.
Venne poi il suo turno, e alzò con bonarietà tranquilla lo sguardo
e il violoncello verso il suo rivale; poi, con gesto quasi indifferente,
cominciò a suonare.
La sala piombò in un silenzio di morte: il suono si espandeva lento,
insinuoso, grave, in tono di solennità. Nessuno aveva più coraggio
di respirare, la voce di quel violoncello aveva rubato tutte le
voci, e le aveva prese con sé. Là c'era un uomo che ora sembrava
solo un annoiato orchestrale nell'esercizio del suo mediocre lavoro,
ma da quel punto dello spazio e del tempo sortiva la malia ineffabile
di un potere terrificante, superiore a qualsiasi immaginazione.
Suonava solo una semplice Giga, dal ritmo estremamente veloce, scorrevole
come l'acqua di un torrentello di montagna; terzina dopo terzina,
la massa del pubblico sembrava liquefarsi, diventare lago pacifico
e sicuro, come quando Jacob l'aveva attraversato a grandi bracciate.
Lentamente, sinuosamente, fra
le terzine si intese il canto, in un calmo incedere di un movimento
in quattro quarti, e quel canto si elevava, in apparente serenità,
insieme allo sguardo del suo artefice. Gli occhi salivano verso
quelli del lanciatore di patate. Là il gentiluomo vide dilatarsi
il viso del suo amico, prima in un lieve sorriso, e poi, sempre
di più in una diabolica risata senza suono, la bocca spalancata
sembrava guidare i suoni più potenti di quella meravigliosa macchina
di legni miracolosi e spirituali, dirigendoli verso una sola vittima:
una vittima sacrificale!
Quell'uomo, il lanciatore di patate, si ammalò poco tempo dopo,
e poco a poco finì sulla strada, in rovina; per anni fu un aneddoto
famoso quello del suo chiedere perdono a Jacob, risolto nei racconti
in varie versioni più o meno comiche. Ma ciò che il gentiluomo vide
quella sera gli bastò per uscirne sconvolto, irrimediabilmente allontanato
dalla fede, dalla speranza, dalla fiducia nell'umanità e in Dio.
Il suo amico aveva vinto la sua battaglia personale nel mondo, e
aveva scelto di farlo con quello strumento divino, sollevandone
il sacro legno tra le fiamme di quella scena demoniaca!
Perché ciò che Jacob non sapeva, -o meglio: quando gli venne detto,
lui s'era addormentato, e la sua tranquilla anima sognava lontana
proprio nel momento in cui la verità gli veniva rivelata dalla bocca
dell'uomo morente-, ciò che non sapeva, che non poteva sapere, era
che quel violoncello non era fatto di legni scelti dall'uomo, seppur
pregiati e rarissimi, bensì della materia sublime che Dio stesso
aveva selezionato, cresciuto ed eletto: le travi del tetto del Tempio
di Gerusalemme!
Sì, questo era il segreto che il gentiluomo non aveva rivelato
neppure al liutaio, proprio per assicurarsi una prova che quel potere
fosse autentico, affinché si manifestasse da solo, senza
l'affascinazione del racconto, la suggestione di una storia grandiosa;
affinché non si dovesse contaminare con la fantasia, con
la banalità della forza di un'illusione. Aveva conservato
per l'amico quel segreto, ma anche all'amico non avrebbe subito
rivelato quel segreto! Voleva prima attendere, saggiamente, quasi
"scientificamente", per vedere quali cambiamenti si sarebbero
generati nella musica del suo protetto, o nella sua stessa vita,
nelle loro anime! Poi quel maledetto momento. Tutto sembrava finire
troppo presto, troppo in fretta, e fu necessario svelare, prima
che fosse troppo tardi, prima che il mistero potesse inabissarsi
nel buio della morte.
E così quel gentiluomo interpretava, si spiegava l'apparente
indifferenza del violoncellista a ciò che credeva conoscesse,
ammirandola quale virtù d'umiltà, come prova di profonda
saggezza! Ed ora vedeva che nulla, nulla al mondo, neppure l'anima
infusa del Santo dei Santi, del canto ineffabile del Salmista, dell'Eternità
posta in figura d'istrumento di musica, nulla poteva fermare la
forza del male, dell'odio, della banalità dell'odio! Nulla:
foss'anche stato il legno della Santa Croce di Cristo, tagliata
in manico e chiocciola soave, in chiavi preziosissime per tendere
e accordare quelle corde, nulla avrebbe vinto il dio della terra,
della tenebra, dell'inganno.
Non gl'importava più nulla del suo destino, del destino del
mondo; ancor meno di quello di un violoncello che ormai credeva
proprietà del demonio, senza speranza di restituirlo a Dio.
Risolse concitatamente le sue faccende londinesi, e partì
per tornarsene a morire in Italia, senza neppure salutare il compagno
della sua vita.
Mentre il gentiluomo partiva, gli giungeva notizia della morte del
misero Andrea Caporale, caduto prima in un profondo e irrimediabile
stato depressivo, e poi deceduto misteriosamente nella notte, quella
stessa notte. Salì faticosamente sulla sua carrozza, e poi,
mentre dava ordini al cocchiere, lo udirono gridare: "mondo,
sei caduto nelle mani di Satana! Io l'ho aiutato! Vai, cocchiere,
parti veloce più del fulmine! Io gli ho donato l'istrumento
perfetto per il suo gioco vincente, l'artifizio adatto al suo più
perfetto inganno! Frusta i cavalli, cocchiere, falli fuggire, almeno
noi c'illuderemo di andar lontano dal male e dal demonio! Io, io,
maledetto per sempre! Io ho consegnato Iddio all'ebreo: che lo crocifiggesse
ancora, che ne bevesse il sangue, che ne inondasse le sue piscine!
Maledetto me! Maledetto il mondo!", e così s'allontanava,
fra quelle lugubri grida, la sua vettura impazzita.
Viaggiò come fuggiasco inseguito, solo fra brevi soste, consumando
tutti i suoi ultimi danari per cambiar cavalli e vetture sempre
più veloci. Viaggiava piangendo, urlando di rabbia e dolore,
svegliato nel sonno da incubi d'inferno, col fuoco che bruciava
i suoi occhi, s'agitava, gemendo nell'imputridire dei suoi visceri,
malediva suo padre, sua madre, la sua nascita nel destino d'essere
strumento del più subdolo dei demoni: Lucifero! Lucifero
che aveva vinto, con l'astuzia d'offrire il suo inganno ottico all'organo
dell'udito!
Giunse ormai stremato alle coste del sud della Francia, presso Mentone,
senza più sapere dove recarsi, privo ormai di casa, terreni,
proprietà o beni di qualsiasi tipo. Fermo di fronte al mare,
all'immensità del mare, mentre onde tranquille parevano là
per calmargli l'animo, calcolò con freddezza i suoi ultimi
pochi pezzi d'oro, e stabilì di raggiungere con ciò
che gli rimaneva la città di Torino.
Ne raggiunse le possenti mura di cinta mentre il sole scendeva dietro
alla maestosità dei monti, in un incanto di rossi che lui
percepiva come sangue colato nei suoi occhi. Abbandonò carrozza
e bagagli al cocchiere sbalordito, dicendogli di tenerseli oppure
gettarli in fiume. Camminò, trascinandosi dolorosamente verso
il Castello, l'antica porta del quadrato romano, e là si
sforzò di ricordare numeri e geometrie, per ritrovare il
palazzo d'un conoscente della sua famiglia, un nobiluomo imparentato
molto da vicino con la stirpe dei Savoia. Riuscì a trovare
il portone con le armi e il blasone che conosceva e ricordava bene,
e chiese di entrare, mostrando l'unica cosa personale, l'unico segno
di riconoscimento della sua identità che aveva portato con
sé: il simbolo di una società cui tutt'e due appartenevano
quali cavalieri.
Il nobiluomo lo accolse calorosamente e gli offrì ospitalità.
Dopo averlo lavato e medicato, si sedette al suo fianco, e ricevette
tutto il racconto. "Quel legno che la mia famiglia aveva conservato
e preservato! Quello di cui io m'ero assunto la responsabilità
ancora adolescente! Quel mio dovere supremo, quello io ho mancato!
Non chiedo il perdono! Correte ai ripari, io non ho più vita
in me! Merito la morte e il disonore: io sono il figlio degenere
dei discendenti di quel legionario di Tito divenuto Generale. Io
porto in me il sangue di colui che salvò i pilastri e le
travi del Tempio di Salomone e di Davide, di colui che nell'anno
settantesimo della nostra Era fu eletto alla cura di portarli a
Roma e di conservarli! Io ho tradito Dio e gli uomini, non abbiate
pietà di me: solo disprezzo; cercate piuttosto, trovate il
modo di strappare al demonio e a Caino il legno immortale che la
mia follia e la mia stupida vanità gli hanno consegnato!
Ritrovate ciò che io ho abbandonato! Restituite a Dio quel
che io gli ho tolto!..."; e su quelle parole spirò.
A Londra, nel frattempo, James si fece una ragione della scomparsa
dell'amico considerando la malattia in stato così avanzato
da fargli perdere il cervello; lo compianse, redasse una lettera
di cordoglio per i parenti, che finì poi nel nulla, e continuò
la sua vita pacifica giunta ormai a un'altra svolta: quella del
violoncello. All'età di sessantaquattro anni e in perfetta
salute, a diciotto anni dal suo arrivo a Londra, a quarantuno dalla
sua fuga dal ghetto, si sentiva pronto a ricevere una nuova vita:
trovò una buona moglie e si unì a lei in matrimonio.
Un anno dopo nasceva il suo primo e unico figlio, cui dette il suo
stesso nome: James, the Younger.
James cresceva alto e possente come il padre, e questi l'educò
all'arte del violoncello, cosicché il giorno 23 del quarto
mese del 1760, giorno del suo tredicesimo compleanno, James accolse
la sua maggior età suonando al "Little Haymarket
Theatre", in un concerto della famosa cantante Gertrud
Schmelling, destinata a diventare poi la celebre Madame Mara, che
allora aveva solo dieci anni. Cinque anni dopo, già padre
e figlio suonavano insieme in concerti importanti, e il giovane
aveva acquistato la dolcezza di suono e l'espressione del suo secondo
maestro, il grande Abel, che servì di modello a tutti gli
artisti inglesi della musica dei suoi tempi.
Il quattordici del sei dell'ottantatré, a centouno
anni, ricco e rispettato, James the Elder si dissolse dolcemente
nel sonno, come aveva fatto per tutta la vita, e lasciò al
figlio un'incredibile fortuna di 20.000 sterline, più varie
proprietà, diritti e privilegi, e una carriera ormai lanciata
in successi internazionali. James seppellì il padre con l'onore
di un anno di concerti memorabili, nei quali appariva insieme ai
più grandi violoncellisti del tempo: Duport, l'insegnante
di Federico di Prussia, l'amico di Beethoven, suonò con lui
in omaggio al padre, nei Professional Concerts delle Hanover
Rooms, sotto la direzione di Lord Abingdon; James tenne il lutto
per un intero anno, terminandolo con l'esecuzione di uno dei Concerti
di Haydn, in quelle stesse sale, nei primi giorni dell'ottantaquattro.»
«Quale dei Concerti di Haydn?»
«Questo non lo so; io non c'ero. Comunque è una curiosa
data, quella che le ho detto per la sua morte, non crede? 11 più
11 più 11: trentatré...»
«Come?»