V
O R T I C I
C
O N D I V I S I B I L I
CRONO-RONCO, CLAUDIO-CLAUDERE...
sto forse anagrammando me stesso?
E contemplando lo specchio d'acqua,
e gli anelli delle onde
che mi par di vedere espandersi da un centro,
sto invece cadendo
C l
A u D
i O
nel risucchio di un vortice?...
Ciò
che io "vedo" o "guardo-osservo" è necessario
sia o divenga CON-DIVISIBILE. Dunque deve posare i piedi
in terra, e tenere la testa nel cielo, come "Il gallo dello
Zohar", così come lo descrive Leopardi...
«
[...] Roland Barthes scriveva: «Il musicista è sempre
folle,» intendendo per "follia" una qualità
inafferrabile, o, per così dire, "inarrestabile o indomabile"
dell'esperienza musicale «al contrario dello scrittore,
che non può mai esserlo, perché è condannato al
senso.» Ma quello che Barthes sapeva bene è che quella
condanna al senso si aggira, si inganna, si cavalca come un cavallo
alato, sfuggendola mentre la si usa. Né più né
meno di quel che fa il poeta con la parola e col senso della
parola: è esattamente questo, in musica, che rende l'interprete
accorto. Ma nella "scelta" della parola, poeta e compositore
hanno la stessa responsabilità, ed è una responsabilità
immensa: quella parola è "creata" alla vita, quindi
si immette nel mondo un essere vivente che può essere positivo
o negativo, che può dirigere il mondo a una trasformazione, così
come a una distruzione. Quel "scegliere" la parola è
piuttosto un "eleggere" una parola.
Il compositore di musica e il poeta di parole, infatti, prima o poi
giungono e conducono a un punto nel quale si presenta una dualità:
quasi una "sinestesia" appena un poco più in
là dell'oggetto della parola o dell'insieme di note: è
l'incontrarsi della parola con le lettere che la formano, nell'istante
prima dell'averla formata, o delle note con i suoni di una melodia,
in una condizione ancora neppure embrionale o primitiva, ma assolutamente
astratta. Quell' "istante prima" è solo un'immagine,
poiché quel fenomeno avviene in un altro tempo, un aiôn,
come dicevano i greci, una "durata", in senso astratto:
dunque una sorta di "buco di eternità" nel tempo, nel
momento della percezione dell'oggetto. Ecco che di colpo l'oggetto è
percepito, in un unico punto, nel suo presente, nel suo passato e nel
suo futuro.
Questo è il fenomeno: noi "vediamo" le note e la melodia
prima di essere l'una o l'altra cosa, ancora indefinite, fluttuanti
alla nostra osservazione; noi vediamo la lettera e la parola prima
che si articolino nel senso, nel movimento, nel khrónos,
nel tempo lineare, dal prima al dopo. Là, in quella percezione,
quel prima è anche un dopo e un durante.
Ma attenzione: non è "il tutto in quell'unico punto";
non è "l'aleph" come lo racconta magistralmente
Borges, in cui tutto ciò che è "materia in movimento"
nel passato e nel futuro è compressa, è insieme
in un punto, eppure è "visibile" simultaneamente (forse
solo per prendere atto del non sapere perché guardare);
è piuttosto "l'intelligenza"
dell'attimo prima e dell'attimo dopo, della prima ora del giorno e dell'ultima
della notte contenute nello stesso luogo; è quella del «Gallo
silvestre» di Leopardi, che «sta in sulla terra coi
piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo», ed è
il «gallo del cielo» dello Zohar: egli canta
l'ora della "crisi", del passaggio fra il giorno e la notte,
fra la vita e la morte, in quel punto in cui esse non sono ancora distinte,
separate. In quel punto non c'è solo l'incontro di unione
e divisione: c'è piuttosto il paradosso dell'ineffabile
coincidenza dell'atto di unire e dell'atto di dividere.
Il gallo celeste dello Zohar si leva e canta a mezzanotte, quando
Dio si reca a passeggiare con i giusti in Paradiso. Quella è
l'ora «in cui l'uomo ebbe terrore». La musica sembra
irradiare proprio da lì, da quel canto e poi da quel terrore,
per portarci la consolazione del suo più segreto richiamo: il
segreto della sua origine.
In un certo modo, lettere e note preparate e pronte per la composizione
di un testo o una musica, ci appaiono come "materia prima";
ma è ancora Barthes che ci segnala: «per gli Alchimisti
[...] la materia prima è quanto esiste prima della divisione
del senso: enorme paradosso perché, nell'ordine umano, all'uomo
non è dato nulla che non sia immediatamente accompagnato da un
senso, quello dato da altri uomini, e così di seguito, risalendo,
all'infinito.» E infatti note musicali e lettere dell'alfabeto,
in quel punto estremo di cui ti ho parlato, sono oltre l'ordine
umano: appartengono a Dio, sono i suoi attrezzi, i suoi utensili per
"creare" il mondo.
Questo è ciò a cui ci avviciniamo "scegliendo"
le parole di una composizione poetica o la sequenza di note di una composizione
musicale, destinandole a divenire manifestazioni di "Poesia "
o di "Musica", intese solo più come "entità"
assolute e astratte: oltre gli oggetti estratti dai corpi.
Quegli oggetti non possono far altro, appunto, che "rappresentarle",
poiché la presenza di quelle entità è in nessun
altro luogo se non in ciò che a me piace chiamare "le
sublimi lontananze dell'altrove". E tutto questo, ti dicevo,
si contempla nelle armonie che formano le lettere originali della Torah.
Così è l'alfabeto ebraico: «Ventidue lettere
fondamentali: Egli le ha scolpite, le ha forgiate, le ha pesate, le
ha alternate, le ha purificate e con esse ha formato l'anima dell'intera
creazione e l'anima di tutto ciò che è destinato ad essere
creato.» E ancora, dallo stesso "Libro della Creazione":
«E ha creato il suo mondo con tre forme di espressione: con
il numero, con la lettera e con la parola.» È solo
una traduzione approssimativa, di un testo che sfugge a qualsiasi univocità,
soprattutto in ebraico, ma io ti invito ad accettarlo così,
per poter immaginare che le note musicali siano proprio quel "numero":
prima del segno della lettera, e prima del suono della parola.
Ecco cosa intendevano gli antichi parlando di "Armonia delle
Sfere"; ecco cosa intendeva il poeta Giovan Battista Marino
scrivendo «non solo intellettuale armonia formano quelle sostanze
spirituali, ma anche sovente volte con musico suono sensibilmente si
lasciano intendere». Ecco cosa ho inteso io, quando ti ho
detto che il poeta o il compositore prima o poi ci conducono in un punto
nel quale avviene una sorta di sinestesia.
[...]»
Claudio
Ronco, da Lettera a Julie, 1998.
|