«[...] N- Il mio giudizio dipende dalla risposta che mi darete.
J. J. Rousseau, "Julie, o la nuova Eloisa". (**) |
«(...) Il 18 agosto 1998 iniziavo una serie di nove concerti di musica da Camera d'epoca barocca nei penitenziari del nordovest della Francia, insieme alla mia allieva di violoncello Julie Mondor: Caen, San Brieuc, Le Mans, Rennes per il carcere femminile e poi per quello maschile, Angers, Lorient, Laval, Coutances. E' inutile dire che sono stati un successo oltre ciò che potevo immaginare, altrimenti non vorrei essere qui a parlarne.
Ciò che segue è la memoria dei giorni precedenti a quell'evento, e di quelli successivi. L'unico ordinamento che vi si trova è quello cronologico: uno dopo l'altro, i giorni portavano intuizioni e rivelazioni, e queste si svelavano suonando, raccontando o scrivendo, sicché ogni volta musica e parole dialogavano con un nuovo presente, e si muovevano programmando nuovi percorsi.
Questo scritto è, in qualche modo, simile a un diario di viaggio, ma è anche una sorta di partitura musicale: quella che io ho usato per convincere dei detenuti che ciò che stavo suonando era una cosa bella e utile da ricevere.(...)». Così iniziava il mio diario, con le memorie di un'esperienza forte e indimenticabile. Questa che segue è la "lettera" alla mia allieva Julie, che mi ha seguito con l'affetto e la devozione di un antico discepolo. E' una lettera scritta per me stesso, per capire cosa stava succedendo in me, confrontandomi con la giustizia del mondo.»
I*II*III*IV*V*VI .
Parigi, 12 agosto, mattino, pomeriggio, sera, notte.
«...No, Julie, ne sono certo e convinto: non sarò di fronte a dei carcerati per intrattenerli, o divertirli, o peggio ancora, per offrirgli ciò che già gli veniva offerto in libertà...»
Io porto la mia "rappresentazione" come quella d'un attore tragico: la commedia non gli si addice.
Ma è veramente l'unica cosa che si addice al violoncello?
Julie ha idee molto chiare, anche se è disponibile a cambiarle. Lei ha già fatto un'esperienza di concerto in una prigione, e durante l'incontro con Sabine sembrava confermare ogni cosa che ascoltava con i ricordi di quella sua esperienza.
Il troppo serio, mi si dice, o addirittura il tragico, è da evitare se non si è sicuri di avere tempo a sufficienza per instaurare un rapporto di fiducia e reciproca comprensione; allora poi bisogna saperlo gestire bene, perché altrimenti, col loro bisogno di essere ascoltati, creduti, assolti almeno nell'animo, «loro finiscono col "mangiarti"»: parola di Sabine, che ha dovuto cambiare indirizzo, e non solo numero di telefono, per sfuggire alle pressioni di ex carcerati che cercavano ancora in lei comprensione, dialogo, forse persino amore.
Sì, c'è bisogno, in qualche modo, di potersi proteggere.
Julie insiste nel suggerirmi di raccontare storie divertenti di vita da violoncellista.
Trova ottima e azzeccata, ad esempio, quella con cui io ricordo un corso estivo durante il quale, studente e ventenne, mi ero trovato a suonare un duetto con una specie di violoncellista-ninfomane che aveva sconvolto la nostra pacifica attività di studio.
«Noi studiavamo su violoncelli "barocchi", ossia più o meno trasformati in cose che dovevano somigliare a quelle dipinte nei quadri del Sei-Settecento, senza speciale interesse per il fatto che suonassero decisamente poco e male, perché ci bastava il fatto che non avessero il puntale, e che fossero palesemente "diversi", e quindi lontani; in una parola: "barocchi".
Lei — una provocante bellezza mediterranea — suonava un violoncello modernissimo e luccicante come una bella macchina sportiva. E lo teneva fra le gambe in modo tale che tutti noi avremmo voluto essere quel suo strumento.
Tutti noi sapevamo che lei non portava il reggiseno, e neanche le mutande. Per di più aveva sempre caldo. E se la qualità delle nostre esecuzioni musicali da un lato degenerava, dall'altro cresceva in eccitazione e passione.
Anche il nostro maestro era preso nel turbine, sicché tutti ci sentivamo autorizzati ad occuparci solo della sana competizione che si stava sviluppando fra noi. Io ero certamente l'allievo migliore e più dotato; ma lo ero veramente in tutto?
Confesso di aver dormito molto male, quelle notti, considerando il problema delle mie insicurezze. Ero troppo magro? Il maledetto brufolo che covava sotto la pelle del naso sarebbe fiorito proprio quella notte? Ce l'avevo lungo abbastanza?
Una mattina più calda del solito la lezione durò pochissimo per qualche ragione che non ricordo più. Lei venne a chiedermi se mi sarebbe piaciuto leggere il "doppio concerto di Vivaldi" a due violoncelli soli. Non mi ero lavato: questo è l'unico ricordo che ho della scossa emotiva di quel momento; e tutti gli altri studenti mi guardavano con invidia pungente.
Andammo in una stanza dell'ultimo piano, polverosa, squallida, dove c'erano solo due sedie, due leggii, due spartiti e due vecchi tavolini di scuola messi in un angolo. Lei lo conosceva bene quell'ambiente, c'era stata prima; io no, e scrutavo ogni angolo che apparisse non troppo scomodo. E allora con un gesto straordinario, degno di una grande attrice, lei sollevò il suo violoncello fin quasi ai miei occhi, e cominciò a far scivolar fuori lentamente, sinuosamente, un lunghissimo, interminabile puntale.
Io —che il puntale non l'avevo più— guardavo stordito quel crescere e quel gonfiarsi, quell'avvicinarsi ipnotico della punta alla mia bocca aperta, mentre lei fissava il mio naso, fingendo indifferenza...»
Oh, via, Julie! Non vorrai che io racconti storie simili!
Non vedi che già lo stile fa difetto? Non senti che è pieno di parole da psicanalisti che già non si usano più neanche in Conservatorio? E come si dovrebbe raccontare in stile Rap? Quali parole accentuo col tono incazzato? O dovrei farla a Rock-and-roll? Come la racconto a un arabo? Gli spiego prima cos'è un puntale di violoncello oppure cos'è un doppio concerto di Vivaldi?
Ti piace il finale? Va bene, continuiamo.
«Prima che potessi riprendere fiato, lei aveva già aggiustato l'accordatura e attaccato l'inizio orchestrale: non mi restava tempo per nient'altro che gettarmi sulle note, di corsa, senza neppure accordarmi, neppure fare in tempo a sedermi decentemente. Nella foga dell'inseguirla non sapevo più dov'ero arrivato e cosa stavo suonando dallo spartito che avevo davanti agli occhi. Mentre ancora annaspavo fra i rimbombi di quello stanzino semivuoto, quando cominciavo appena a rendermi conto che lei suonava così forte da coprire tutti i miei tentativi di darle corda col quel mio delicato "violoncello alla barocca", di colpo smise di agitare l'arco sulle corde e, a rimbalzi impacciati, anch'io smisi la mia corsa. Smise, gradualmente, anche il rimbombo nelle orecchie, fino al silenzio.
In quel rilassarsi di tutta la stanza -un magico vuoto acustico- lei stava con gli occhi chiusi rivolti al soffitto, aveva dilatato le narici, e i capezzoli erano sporgenti e tesi, per trattenere un respiro che sembrava essersi interrotto per l'eternità. Ma subito rilasciò il petto tutto in un fiato esclamando: "Che bello suonare Vivaldi! Fa un suono enorme!"...»
Oh Julie! E con che parole dovrei raccontarlo a uno che ha passato la sua vita a farsi spaccare le orecchie nelle discoteche o dagli auricolari del suo walkman? Pensi che coi verbi al presente funzionerebbe meglio? Non le senti le loro voci che ti chiedono «Et alors? Raccontaci un po' di quando te la sei fottuta. Vai con i particolari, su! Te l'ha preso in bocca quella puttana? Di', aveva la figa bagnata? Raccontacela un po': era soffice? come le ostriche? gliel'hai leccata?» Non aspettano mica la risposta: non hai neanche il tempo di dargliela che stanno già alla prossima domanda...
Ascolta, Julie: è questo il "linguaggio sociale" delle carceri, dove la pornografia è l'ossessione comune, una sorta di imposizione, di obbligazione rituale del gruppo su ogni singolo individuo. In qualche modo serve anche a ridurre il pericolo della sopraffazione sessuale sui più deboli. Ma per noi che andremo a visitarli cercando di trovare un terreno comune sul quale comunicare con efficacia, tutto ciò sarebbe solo contaminazione. Le parole riescono a tollerarla, la musica no.
Noi abbiamo altro da dire, altro da raccontare. Il nostro problema di comunicazione non si deve risolvere adattando o cambiando il nostro linguaggio, ma cercando semmai delle convergenze possibili, purché non siano distruttive della sua integrità.
Credimi: noi dobbiamo riuscire a far in modo che di tutto questo tesoro preziosissimo che abbiamo studiato sui nostri violoncelli non rimanga solo una nostalgia del passato, ossia nient'altro che un modo per sfuggire a una modernità che non riusciamo ad accogliere.
Vedi, applicandoci alla cultura della "musica contemporanea" ci illudiamo di integrarci al nostro tempo, ma riusciamo solo a divederci, a separarci in settori pressoché incomunicanti: le difficoltà di comunicazione sono già troppe fra noi musicisti per poter sperare di avere presto un "linguaggio universale", disponibile a qualsiasi pubblico; così il mondo continua a scegliere altre musiche nonostante quella contemporanea, e i messaggi si perdono in frammentazioni, o si banalizzano e basta; il risultato è che non ci unisce, ma ci divide, non crea spazi di comunicazione universale, ma luoghi angusti, stanze dell'intelligenza destinate a un uso strettamente elitario, o condannate a una destrutturazione continua per sopravvivere.
Attenzione: questi non sono i miei giudizi in linea generale sul mondo della ricerca e della sperimentazione: nell'ambito delle proposte musicali "colte" del nostro tempo e della civiltà occidentale, queste mie riflessioni riguardano solo la "pratica" di quelle proposte, compresa pure, però, la loro "poetica".
Se volessi suonare composizioni di musica contemporanea nelle carceri, (per una maggioranza di pubblico incolto, o incolto ed extraeuropeo), è più che evidente che sarei costretto a comunicare solo al di là della composizione, delle strutture del suo linguaggio, e ad affidarmi esclusivamente a un "linguaggio del corpo", a una comunicazione diretta e immediata di espressioni sonore; ma allora, in quel caso, vorrei essere libero dalla partitura, dagli "ordini" di una composizione, persino da un eventuale suo "testo" narrativo, o drammatico: dovrei solamente improvvisare, sulla base, semmai, di un'estetica di un'idea moderna del suono musicale, quando la "musica contemporanea" non mi offre neppure in un ordinamento metodologico che io creda utile o efficace. Dovrei affidarmi all'istinto, all'esperienza musicale la più vasta possibile e, in una qualche maniera, il più possibile "onnivora"; dovrei essere solo io ad eleggere in ogni singolo momento l'estetica più alta per una comunicazione possibile; io dovrei essere colui che può contenere in sé un tutto: l'esperienza e la memoria storica, la percezione globale della contemporaneità, l'immediato effetto del mio atto nello svolgimento dei fenomeni musicali. Non credo esista un "colui" che possa essere tutto questo, né, in ultima analisi, lo desidero.
Con l'esperienza del recupero della musica antica come musica universale, che si offriva come "nucleo" flessibile, disponibile a qualunque livello d'utilizzo —professionista o dilettante, astratto o narrativo, musica vissuta nell'ascolto di gruppo o nel "farla" in gruppo— abbiamo probabilmente formato le premesse più azzeccate per riuscire in una comunicazione un po' sopra i limiti della crisi della nostra cultura occidentale. Ma se la cultura della "musica antica" era nata con grandi ideali, li ha poi persi per strada quando nella gara del lavoro hanno vinto i professionisti sui dilettanti, quando anche la sua struttura così "democratica" ha causato divisione e non unioni, e infine quando ha avuto la meglio la sua maggior "agibilità" a scopo commerciale: un'immenso repertorio disponibile e realizzabile con poca fatica, perché nato per essere "effimero". Quanto alla "musica classica", quella di Beethoven o delle Stagioni concertistiche di grande tradizione, è ormai troppo "aristocratica" per popolarizzarsi senza danni irreversibili... in realtà, io non so più cosa voglio suonare, neppure nelle sale da concerto. Mi sta crescendo dentro una persistente insofferenza per tutti i Festival, tutti i dischi, le recensioni, le discussioni sulla musica, le opinioncine contro quel direttore o quel pianista, quello lo fa troppo veloce quello troppo lento: tutti sono diventati critici musicali solo perché sono stati riforniti dell'esperienza di qualche centinaio di ciddì e qualche migliaio di settimanali e mensili di musica classica! Ma posso smettere di essere un violoncellista che si produce in concerti e dischi, solo perché una volta al mese mi verrebbe voglia di farlo?
Scusami... mi sto parlando addosso; me ne rendo conto. Ma non avertene a male: parlano gli anni di delusioni che mi porto dentro, e la rabbia feroce che provo nel vedere quanto poco peso si è ridotta ad avere la musica, proprio nell'epoca storica che ne produce e utilizza di più.
Li facevo tutti i giorni i conti col mio tempo passato a strofinare le corde con l'archetto e il bisogno che il mondo veramente ha di un violoncellista in più o in meno. Poi per mia fortuna ho smesso, e ho deciso che devo rispettare ciò che ho studiato, perché in quello studio c'è l'unico bagaglio di verità che io posseggo: per me stesso e per gli altri.
Julie, forse hai semplicemente ragione tu e basta: forse non c'è da attendersi proprio nulla da occasioni di incontro con i carcerati della durata di quelle che stiamo per intraprendere: nulla più che tentare di non annoiarli.
Forse varrebbe la pena di interrogarsi a fondo solo per degli "stages di musica", o per dei corsi di apprendimento all'ascolto o alla pratica musicale; insomma, come gli stages di pittura di Sabine: occasioni in cui si prevede molto tempo a disposizione e più o meno lunghi percorsi di dialogo, di esperimenti, di riflessioni.
Ma allora, a ben vedere, questa non sarebbe solo una scelta saggia, prudente, razionale, che obiettivamente prende atto della realtà; questa diventerebbe una capitolazione definitiva di tutti i valori che noi continuiamo ad attribuire alla nostra attività: come? io dedico tutta la mia vita ai valori del violoncello e della sua tradizione musicale, e non credo che abbia nulla da comunicare al di là di se stessa?
Se dovessi scoprire che è veramente così, mi dedicherei subito a molte altre attività: non desidero sprecare la mia vita per qualche centinaio di migliaia di persone che si dilettano ad ascoltare Vivaldi anziché Wagner o i Rolling Stones.
Io credo veramente nei valori che gli antichi ci hanno comunicato della musica. Anzi, di più: io credo che siano gli unici valori della musica.
Ora, Julie, io te li ho insegnati, te li insegno ad ogni occasione; tu li hai appresi, tu li ami e quel tuo amore lo chiami "passione per il tuo studio e per il tuo lavoro". Perché dovremmo rinnegarli appena ci si presenta l'occasione di usarli fuori dall'ambito di chi già dice di conoscerli, e quindi riflette annoiatamente —se lo fa— su quei valori, e poi ascolta ciò che già conosce?
Questa che ci troviamo di fronte è l'occasione in cui il nostro studio e la nostra tradizione devono dar prova della loro forza autonoma: i risultati non devono dipendere dalla preparazione culturale di chi ascolta, o dalle nostre più improbabili contaminazioni di stili o di estetiche diverse.
Questa è l'occasione per farci giudicare, Julie: è l'esame della vita.
Forse sono tutte stupidaggini, cose pensate "fuori dal mondo", frustrazioni da musicista che fallisce il suo compito di affascinare un pubblico, a meno che non sia troppo facile... forse io sono diventato un po' come quel patetico Buffalo Bill che girava l'Europa ai primi del secolo facendo spettacolo di quell'inutile follia che era diventata il suo sparare a centinaia di bufali ammazzandoli tutti "uno per ogni cartuccia"...
Non lo so, Julie; io voglio chiederti di seguirmi in un'idea che ho difficoltà io stesso a raffigurarmi. Lasciamo stare i nostri violoncelli, per ora. Lascia che io provi a convincere te e me che potremo riuscire a suonare nella più assoluta purezza di stile, senza contaminare nulla, un concerto di musica da camera barocca a due violoncelli, per un pubblico di "Cannibali", di "Selvaggi", di "incivilizzati".
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Vedi, Julie: la parola "contaminazione" l'hanno adottata con gioia nel mondo della musica commerciale, soprattutto se multietnica; in effetti, "contaminare" è latino, e deriva da tàngere, 'toccare', che con l'aggiunta del prefisso com- indica il 'lasciare un'impronta tattile'. Ottima scelta, per una nuova musica che vuole proclamare la vittoria definitiva, assoluta del "linguaggio del corpo" sul "linguaggio della mente".
Tuttavia, a ben guardare, «contaminazione di stili musicali» non significa nulla più che "musica contaminata", e deriva solo da una esasperazione proprio di quel "linguaggio della mente". In un'etimolorgiastica contemporaneità di linguaggi (spero che ti piaccia questo mostruoso neologismo...) tutto il contorno di quest'idea di musica —intendo ciò che si produce e che si vende— si muove in assoluta indifferenza per ciò che non sia immediatamente "producente effetti sul corpo" senza programma o progetto alcuno. Voglio dire: quando un gruppo pop israeliano suona musica dichiarata "contaminata" da quella araba, quella palestinese, quella cristiano-maronita, cristiano-cattolica ecc. ecc., (usando generalmente con parsimonia quella ebraica perché si considera che rappresenti "il potere al governo"...), sta suonando in effetti —perdonami l'ovvietà— della musica pop, ovvero "musica leggera", "commerciale", destinata a piacere e intrattenere, legarsi a un ricordo personale e rievocarlo, e quindi musica "non narrativa", musica durante la quale si può continuare a pensare o parlarsi per conto proprio, perché l' "essere insieme" del gruppo si risolve ed esaurisce nel riconoscersi tutti ascoltatori della stessa musica, o nel muovere il proprio corpo tutti nello stesso ritmo e secondo l'intensità di suono inviato. Funzioniamo veramente solo come i sensori elettronici che si usano nelle discoteche: ricevono i suoni, li traducono in impulsi elettrici e li inviano alle lampadine della sala, ottenendo i migliori risultati quando sono aggruppate in insiemi simmetrici per posizione e per colore.
No! Non dirmi che la sto semplificando troppo!
So anch'io che nella musica commerciale poi c'è la "qualità" dei timbri, ci sono le "sfumature" delle frasi melodiche, delle combinazioni armoniche: c'è la "composizione" che rende un brano diverso dall'altro, come "variazione" di un tema comune, e quindi espresso solo "dietro" la variante. Certo, lo so: è "musica barocca" della fine millennio!
Ma lo è solo per quell'aspetto della musica barocca che è la "Prattica"; e non quella "Prattica" che era sia contrapposta che coordinata all' "Oratoria", ma quella semplicemente diretta a compiacere l'ascoltatore; insomma: funzionale al miglior risultato commerciale.
Per "nobile" che sia stata, e per "nobilitata" che sia diventata —già a quell'epoca, con un Veracini che ne teorizza un «Trionfo... », o un Farinelli che canta solo per un Re!(**)— il "sistema" che si chiama "Prattica", all'epoca barocca era soggetto al dominio e al controllo di quella "centralità" che era il "Principe", e il Principe era il rappresentante di Dio sulla terra, del Cristo trionfante.
Guarda bene nella Cappella reale di Versailles, se riesci a trovare qualche immagine «pietistica»; non ne troverai: vedrai solo trionfi e gloria. Ma quale aspetto della nostra realtà contemporanea corrisponde ancora a una "centralità"? Vivaddio, i regimi autoritari e assoluti sono stati aboliti dal comune senso della giustizia e libertà! Ma —forse per errore?— abbiamo finito coll'abolirci insieme anche quella "centralità" che era Dio stesso, anche se era solo quel dio ridotto in "immagine mondana", nelle figure della Retorica, o negli edifici del potere. Quella gran statua della "centralità divina", prima scolpita e poi frantumata dalla Storia, non sarà che forse è proprio finita in miliardi di pezzettini sparsi fra miliardi di individui?
Va bene, tu mi guardi col sospetto che io finisca per dirti che i Rolling Stones sono veramente i messaggeri del demonio. Beh, non è detto che non siano proprio loro a crederlo, nonostante il fatto che siano stati santificati dal buon senso comune: «suvvia, sono solo canzonette...».
È vero, non ci sono "idoli": ci sono solo "idolatri". Le statue del dio Baal come quelle della madonnina di Lourdes non sono colpevoli in se stesse; ma questo vuol solo dire che non le metteremo in carcere, anzi in penitenziario.
Io voglio dire che se non c'è un'idea centrale abbastanza fluida, flessibile, ineffabile, da attraversare tutto l'essere e tutti gli esseri, in ogni direzione, avanti e indietro, sopra e sotto, non ci può essere la Società, ovvero la vita degli uomini. Quella "centralità" è per l'uomo la fonte del suo potere sulla natura, la sua capacità di manipolarla, di trasformarla, di "cibarsene" e "riciclarla".
Conosci quella barzelletta ebraica in cui un prete e un rabbino stanno passeggiando insieme quando, trovandosi di fronte a un cimitero, il prete si fa il segno della croce?
Dunque, l'amico rabbino gli chiede: «Dimmi, qual è veramente il significato del segno della croce che vi fate voi cattolici?»; e il prete risponde: «è per ricordare che nostro Signore Gesù Cristo è morto in croce per la remissione dei nostri peccati». Allora il rabbino tace per un po', poi gli dice: «Scusa se te lo chiedo, ma allora che segno vi sareste fatti se l'avessero impalato?»(**)Ricordi quando Sabine ci suggeriva di raccontare barzellette per "rompere il ghiaccio" con i detenuti? Bene, è vero: le barzellette possono essere tutt'altro che "superficiali". Anche se questa del rabbino impertinente non sono mai riuscito a trovare il coraggio di raccontarla a un prete cattolico, essa resta comunque a sua disposizione per interrogarsi meglio sul significato della croce, che finché resta solo il simbolo della crocifissione, anche se non se ne attribuisce più la colpa al popolo ebraico, resta il segno della discordia, della divisione fra gli uomini che amano Gesù e quelli che lo crocifiggono.
Ma l'uomo messo sopra una croce, non potrebbe essere solo il simbolo dell'uomo che domina la terra, l'aria, l'acqua e il fuoco del mondo?
E in quel caso, chi potrebbe sentirsi oppresso da quel simbolo?
Giustamente, solo Dio e la Natura, quando l'uomo, dominando la Materia, la dirige verso il caos e la distruzione.
È per questo che quella "centralità" di cui parlavo, così potente, così difficilmente controllabile, deve essere tenuta sotto il controllo e il dominio dell'intelligenza. Ma lo sappiamo tutti: l'intelligenza, l'uomo non sempre l'utilizza a fin di bene...
Quando "l'intelligenza" si trasmette con dei veicoli come la televisione —con tutta la complessità del suo ciclo produttivo, dall'informazione più responsabile all'intrattenimento più disimpegnato, sempre sotto la pressione della richiesta, imperativa, del mercato e dell'opinione comune— succede un po' come nelle famiglie in cui la baby-sitter è sostituita dal video: i bambini crescono con un genitore che non può che essere mostruoso, perché sarà certamente moralista, ma non etico, in quanto che insegna "sul giusto e sull'ingiusto", comunicando a loro da una dimensione in cui la dialettica è solo dall'altra parte del video —come in un talk-show mediocre, dove ci riduciamo a guardare altri che parlano come potremmo parlare noi— ed essi restano solo ricevitori di input inattivi in qualsiasi "luogo" al di fuori del sistema "comune".
Insomma, funzioniamo come la "stupidità" di un computer attuale, a sistema binario, viaggiando molto veloci, ma sempre: o a destra o a sinistra, o bianco o nero. In effetti: troppa velocità, e troppo poco tempo per "guardar fuori dal finestrino".
E adesso tu mi guardi come se io fossi sul punto di dire che allora il diavolo è la televisione. O piuttosto che la televisione è un "idolo" moderno, e che il mondo, ahimè, sta regredendo all'idolatria.
E io ti dico di sì: moltiplica le immagini e rende la realtà soggetta alla visibilità retinica delle cose. Quindi la televisione è l'occhio del demonio. Le cose che vengono "dette" si riducono a "immagini", perché così possono viaggiare a maggior velocità: ma possono muoversi solo su un piano orizzontale, e non intersecarsi all'infinito. Quindi la televisione è l'intelligenza del demonio. Ma tu sai cosa è la parola demonio? Deriva dal greco: daimónios, 'appartenente a divinità'. Etimolorgiasticamente.
Andiamo a mangiare, Julie; io ho fame, e tra un po' tu comincerai a non sopportarmi più.
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Bene, Julie, tu mi fai notare che il jazz è un gran bel "luogo" musicale del nostro tempo: un luogo dove davvero ci si incontra tra infinite diversità, per "esercitarsi" alla democrazia, a una dialettica di rispetto dell'altro.
Mi dici questo perché ci siamo sinceramente divertiti a improvvisare jazz e blues, poco fa, al ristorante. Allora, andiamo per ordine: entriamo in un locale bar-ristorante per mangiare; c'è un pianoforte da un lato; noi abbiamo i nostri violoncelli nelle loro vistose custodie; il locale è mezzo pieno, e un tipo simpatico ci sorride, poi si alza e va al pianoforte; comincia a suonare un piacevole "giro" di blues, e un altro tipo simpatico, un meticcio con i capelli modello reggae, tira fuori un'armonica a bocca e gli va dietro. Il sound è cool, il feeling è okay: sembra una pubblicità per la Coca-Cola...
Okay, okay, sono stato un po' "acidino". Prometto che non lo sarò più, ma concedimi di dire che quella era una scena che avevo già visto milioni di volte in video.
Dunque, quando è già un bel po' di tempo che suonano e cominciano ad essere a corto di idee —perché non sono dei "professionisti", ma dilettanti con solo "poche ore di volo" sulle spalle—, io mi alzo, estraggo il violoncello e mi siedo lì, in mezzo a loro, mentre tu gentilmente ti precipiti a spostare tavolini per far posto al "giro" del mio archetto.
Loro sono contenti ma imbarazzati: «no, no,» dice quello del pianoforte, «non posso suonare con un professionista!». Io lo metto a suo agio ridendoci un po' su, ma medito pure sul fatto che si è accorto che sono un professionista solo perché ho estratto dalla custodia il violoncello anziché un piccolo contrabbasso.
Poi ci mettiamo a improvvisare: tu e loro vi siete divertiti un mondo, c'era un sacco di simpatia nell'atmosfera del locale, tutti stavano bene e alla fine ci hanno appoggiato sul tavolo un'ottima birra offerta dal barista. Poi loro mi domandano incuriositi cosa è esattamente un "violoncello" e che cosa ci si può fare, così finiscono col chiedermi di fargli sentire qualcosa di "classico".
Io gli eseguo lì per lì una riduzione estemporanea della «Grande Polonaise brillante de Concert» di David Popper, combinata con la «Grande Fantaisie brillante: Souvenir de Spa» di Adrien François Servais. Ovvero gli sciorino sotto il naso tutte le centomila note che stanno infilate in quelle due composizioni di due dei più straordinari virtuosi dell'epoca d'oro della tecnologia violoncellistica, riuscendo a suonarle tutte —e tu sai bene che non ne mancava proprio nessuna— e ad infilarle tutte-in-fila-per-uno dentro a circa dieci minuti di "evento musicale".
Tutto vi sembrava bello e piacevole, perché sembrava facile, naturale, simpatico. Io mi sono subito guadagnato altre due birre: evviva il Virtuoso!
E tu mi dici: «Vedi? È la conferma che questo modo di "catturare" l'attenzione di chi non conosce ancora la nostra musica, è un sistema che dimostra di funzionare benissimo.»
Ora tu mi vuoi far osservare che io, in quella situazione, ho mostrato di essere in grado di comunicare "positivamente" con gente di cultura diversa dalla mia, usando il mio violoncello in modo tale che la sua integrità non è stata in alcun modo messa in pericolo. Suonare con loro ci ha messi in una condizione ottimale per un qualsiasi dialogo, la simpatia che ne è nata potrebbe pure far sì che domani si comprino un mio disco o un disco di Rostropovitch e che gli piaccia continuare ad ascoltare musica classica. E allora?
Se lo ascoltano cinquecento volte in cuffia mentre passeggiano in centro città, finiscono col trovare favoloso anche il Canto Gregoriano. Non hai fatto caso che per tutto il '96, '97, '98 è stato nelle hit-parade dei compact-disc più venduti?
Alle volte mi chiedo se non ci sia qualcuno di questi produttori discografici che fa delle scommesse al bar coi colleghi: «Cosa? fai ancora un disco di Techno-Dance con quel gruppo lì? Ma non ne vendi neanche cinquemila copie!»
«A sì? tu credi? È solo che io sono capace a vendere e tu non hai ancora capito un cazzo di come si fa.»
«E già! allora spiegamelo tu!»
«Come era andato quel tuo tentativo di vendere i quartetti di Mozart fatti col tuo bel complessino di giovani promesse?»
«Bah... lascia perdere... con la classica non ci casco più. La usino pure per fare bancarotta gli altri, io ho già dato.»
«Okay, vuoi scommettere che io ti faccio un bel duecentomila copie con il classico?»
«E cosa ti vendi? Pavarotti? ...di', non ce l'hai mica sotto contratto?»
«No no, niente Pavarotti o von Karajan. Io ti vendo un bel duecentomila... anzi: trecentomila compact di canti gregoriani... »
«...mmh... no... non scommetto. Tu hai sotto sotto qualche sorpresa che non mi fido... no no, ti conosco, farabutto! Ah ah ah! Beviamoci su! Alla salute dei monaci cistercensi!»
«Alla salute! ...sì sì, vedrai, vedrai!»
E sì, Julie: il problema è che non serve a niente convincerli che la musica classica sia "bella" o addirittura "più bella". Il problema è che con la musica non sanno farci altro al di fuori del "consumarla". Una volta consumata, una cosa non c'è più.
Il "loro" problema finisce coll'essere terribilmente semplice: trovare sempre qualcosa di disponibile per la consumazione. A queste condizioni, Bach o Mozart equivalgono a una qualsiasi star del rock: non serve a niente quello "spessore culturale" che solo troppo pochi di noi ricordano, o ricordano ai loro allievi. Ti rendi conto di quali limiti assurdi ha il comune "senso della bellezza" oggi? Non hai studiato pure tu cos'era "l'idea di bellezza" nell'antichità?
Bene, Julie, ti devo confessare un segreto: tu e loro vi divertivate un mondo a improvvisare in blues, ma io no: io stavo soffrendo le mie "stimmate".
Cosa voglio dire?
Ma non ti sei accorta che suonavo in blues improvvisando con i singhiozzi di Tirsi e Clori, con le angosce di Barrière e di Lanzetti, che raccontavo ancora le loro favole tristi e lontane? Non ti sei accorta che piangevo senza lacrime?
Sì, mi dici, ed era proprio tutto questo che ti sembrava commovente," bellissimo".
Ma il mio dolore era vero; e pesante, troppo pesante...
E voi? Voi con cosa mi avete ripagato?
Tre birre e tanta simpatica allegria. Io sono un "uomo che muore", Julie, un uomo che sente ogni giorno di essere in cammino verso la morte. Credi che io ti stia dicendo che sono malato? Che ho, o che credo di avere, una "malattia incurabile"?
No, niente affatto. Il mio corpo per ora sta bene, grazie a Dio. Anzi, benone: ho fame, voglia di vivere, di respirare, di godermi tutti i piaceri concessi dal vivere sano e con saggezza. Ho moglie e due figli meravigliosi. Mi auguro di poter vivere centovent'anni.
Ma io "muoio" quando suono il violoncello: è solo lui che vive per me.
Dici che allora sono malato sul serio, ma nella testa, perché un conto è la metafora, e un altro è l'ossessione fanatica che ti fa vivere nella realtà tutte le fantasie?
Aspetta, aspetta: non è proprio così che si racconta il mito del blues man? Non è così che lo si immagina, a tarda sera, seduto a un tavolo con la bottiglia di Bourbon, la cinquantesima sigaretta fra le dita macchiate di nicotina, gli occhi velati e la pelle ingiallita dal fegato che gli sta scoppiando, la voce roca che ti dice «Hi, man. Io me ne sto partendo da questa fottuta vita. Bèviti un goccio pure tu con me!». Non è così che ce lo vendono al cinema?
E il mito alla Jim Morrison? Non sei stata alla sua tomba parigina, al cimitero di Père Lachaise, vicino a quella di Chopin, di Rossini, di Cherubini, di Bellini? Non hai visto la telecamera che hanno dovuto installare per tener sotto controllo tutti i giovani "disperati e maledetti come Jim" che ciondolano lì intorno con la bottiglia in mano, la testa abbassata e l'aria "dell'uomo che muore"?
Io ci sono andato ieri: volevo sputarci sopra, dicendogli «dovevano seppellirti nel mezzo di un incrocio stradale, in mezzo al frastuono dei camion e delle macchine che tu coprivi con la tua chitarra elettrica; non qui, in questa isola di pace. Anch'io a quindici anni ti ho recitato il cantico di Allen Ginsberg: «Ho visto le menti migliori della mia generazione...»(**). Anch'io ho pianto stringendo la mano del mio amico con le vene straziate dall'ago. Tu sei indegno di essere ricordato in questo luogo sacro che mette l'uno fianco all'altro ebrei, cristiani, mussulmani, armeni o apostoli dell'arte. Dovevano seppellirti a pezzettini, sparso nelle periferie più squallide delle città, là dove ti hanno fatto dei monumenti di sangue infetto, di siringhe incrociate, di cantici appassionati di morte incosciente, di vita sprecata... »
Non ho potuto sputare: c'era la telecamera, c'era troppa gente. E allora ho cantato, con la mia voce più potente: «Ridi, Pagliaccio... », ma sono certo che nessuno ha capito che quel pagliaccio sono io, il violoncellista tragico che diverte il suo pubblico suonandogli musica "bellissima", che innalza lo spirito, che redime dai peccati! Un patetico pagliaccio tragico, né più né meno come quel Jim Morrison. Ma almeno lui era integrato alla tragedia del suo tempo: io, invece, sono emarginato in un limbo nebbioso, periferico, e perdo la mia vita a ripetere note su note che basterebbe ormai lasciare incise su dischi da archivio.
Poi però mi sono seduto a riposare all'ombra delle tombe di Kreutzer e Pleyel, vicino a Gaveau, a Lasueur, a Gretry. Ho chiacchierato un po' con questi colleghi di nostalgia, e infine sono tornato a casa a studiare.
E ad esercitarmi, perché altrimenti né Barrière, né Lanzetti, né Popper o Servais possono saltar fuori dalle mie dita solo per grazia divina. È così che dopo il blues ho potuto "affascinarli" col violoncello. Ma attenzione: li ho affascinati col "virtuosismo" del violoncello, non con la severità, col rigore del mio studio!
Ancora di più: io li ho affascinati con la "vicinanza" del mio violoncello, che da un lato era psicologica, perché avevo suonato con loro, scherzato, riso, dato pacche sui palmi delle mani, ma dall'altro era proprio "fisica", perché suonavo a pochi centimetri dal loro sguardo! Dunque, in realtà, io non li ho raggiunti con la "musica classica", ma con il "linguaggio del corpo", quello che comunica più velocemente di qualsiasi cultura o abitudine linguistica, dialettica, semiotica.
L'ho fatto a partire dalla fatica, dal sacrificio, dalla mia solitudine nel preservare quotidianamente una tecnica musicale obsoleta, che nessuno richiede né agli esami scolastici né all'esame del concerto!
Ma suvvìa! Io suono virtuosismi fuori moda con grosse, spesse corde di budello che non sono neppure più vendute fra gli specialisti degli strumenti d'epoca! Corde che per essere fabbricate costringono l'artigiano appassionato e idealista ad andarsi a prendere i budelli al macello e svuotarli del contenuto, perché il budello "pronto all'uso" di preparazione industriale non funziona!
E al macello va in bicicletta, perché non ha guadagnato abbastanza soldi per comprarsi la macchina!(**!**)
Ma perché facciamo questo? Perché non suoniamo "come fanno tutti", violoncellisti "moderni" o "filologicamente barocchi"?
E perché l'insegno pure a te, che mi ascolti e mi segui diligentemente, e che subisci senza lamentarti la tortura di quelle corde ingrate, traditrici, che quando potresti dare il meglio di te, dopo settimane di esercizio, proprio nel culmine della concentrazione, nel momento più importante, appassionato, ti fregano facendoti scivolare miseramente, o cominciano a fischiare sotto il tuo arco appena un po' troppo euforico, o stonano mettendo il dito proprio là, dove l'avevi sempre premuto, beandoti della perfetta intonazione di quella nota?
Ti insegno tutto questo perché solo così, con questo cocciuto pretendere da noi stessi una purezza assoluta nel rispettare "la lettera nel testo" —quel "testo" che crediamo ci abbiano consegnato per proteggerlo e conservarlo, per farlo sopravvivere attraverso i tempi della follia, con l'unico premio della speranza nell'attesa—, solo a queste condizioni, sottomettendosi a questa stretta disciplina, il nostro suonare è "Eroico".
E lo è davvero nel senso più nobile, più antico: quello di Ercole come quello di Beethoven, del giovane David o di Paganini.
È soltanto l'"atto eroico" che veramente conquista, e conquista molto più in profondità di quanto non possa qualsiasi semplice "linguaggio del corpo".
Ti voglio raccontare una cosa: quando mia moglie mi ha dato il nostro primo figlio, Jacob, io volevo essere un padre modello. Lo portavo sempre con me, dentro a un "marsupio" che mi permetteva di tenermelo sulla pancia, mimando i nove mesi di trasporto che avevo invidiato alle donne.
Mia moglie mi ripeteva spesso, con affettuosità, che tutto ciò era molto carino, però io non invidiavo nulla più che quel trasportarsi dentro il mistero di una vita nuova, e non il dolore fisico, atroce, che la donna prova a far uscire quella vita.
Io sorridevo a queste osservazioni, e non ci pensavo su, credendo che a un uomo non servisse molto colpevolizzarsi per il fatto di non poter, biblicamente, "partorire con dolore".
Così mi preoccupavo piuttosto di far crescere mio figlio nel modo più ricco di stimoli e di curiosità, passando il più possibile del mio tempo con lui, facendogli vedere mille cose, parlandogli moltissimo e suonandogli musica di Bach in continuazione.
Le passeggiate con Jacob nel "marsupio", anziché in quelle confortevoli carrozzine a lettino in cui prendevano aria quasi tutti i bambini, erano proprio incluse in quel "progetto stimoli", perché ero convinto che —anche se certo non poteva capire ciò che gli passava davanti agli occhi, né più né meno di quanto non potesse capire le nostre parole quando gli parlavamo— in una qualche misura la vista e l'udito sarebbero stati stimolati a una sempre maggiore curiosità.
Le nostre passeggiate finivano spesso nella piacevole ombra degli alberi del Campo del Ghetto nuovo, a due passi da casa nostra, (Jacob è nato a Venezia, in maggio, e quei suoi primi mesi di vita erano nel caldo estivo), dove mi sedevo fra le mamme intente a chiacchierare e i bambini più grandi a giocare; e da lì guardavo le Sinagoghe, dove sognavo un giorno di recitare le benedizioni tenendo mio figlio sotto il manto da preghiera, grande e caldo, come una tenda nel deserto.
Un mattino ero là, seduto con le spalle rivolte al "monumento alle vittime dell'Olocausto" di Arbit Blatas. Una giovane coppia di turisti americani si mise a fotografarlo, e poi, visto che ero lì di fronte a loro e siccome gli sembravo simpatico col mio bambino sulla pancia, mi fotografarono e poi cominciarono a farmi delle domande.
«Come si chiama il tuo bambino?»
«Jacob. L'abbiamo chiamato così perché... »
«Oh, magnifico! È circonciso?»
« ...No, beh... non ancora; perché, sapete, è un problema difficile scegliere in due: mia moglie non crede che sia necessario... »
«Ah, non è ebrea. Quanti ebrei ci sono qui a Venezia?»
«Circa cinquecento, ma... »
«E quanti vanno al Servizio in Sinagoga?»
«Beh, pochi, in generale, ma dipende...»
«Sono Ashkenasim o Sefarditi?»
«Il Servizio è di rito Sefardita, ma nel '500... »
«È dietro a quel monumento il cimitero?»
«No, lì c'è un magazzino. Il cimitero è al Lido; si prende il vaporetto da... »
«E quante Sinagoghe ci sono qui?»
«Cinque»
«Sono molto antiche?»
«Cinquecento anni.»
«Oh, my god! E qui in ghetto abitano ancora ebrei?»
«Solo tre o quattro famiglie.»
«E c'è una scuola ebraica?»
«Solo scuola materna.»
«Si può mangiare kosher?»
«Solo nella casa di riposo per anziani... »
«E tu che lavoro fai?»
«Musicista classico: solista di violoncello»
«Oh, great! Cosa ne pensi di Rostropovitch? Grazie infinite! Siamo stati proprio fortunati a conoscerti: sei una persona davvero molto colta. Abbiamo imparato un mucchio di cose interessanti! Shalòm! Scusa, dov'è Rialto?»
Scusa, riprendo fiato...
Quella coppia di turisti non aveva ancora raggiunto il ponte per uscire dal Campo che io avevo già perso ogni fiducia nelle mie convinzioni. Quello era il futuro, Julie! Non erano solo due turisti: era la rivelazione, l'apocalisse del futuro che attendeva il mio Jacob!
Credo di esser rimasto là per ore a meditare sul senso di tutto quello che stavo facendo: portare Jacob in marsupio, ora, mi sembrava una follia, come fargli conoscere tutto il mondo dal finestrino di un treno, viaggiando tutta la vita alla velocità necessaria per imparare quante case ci sono a Venezia e quante invece a Milano. Mi chiedevo quante note di un Preludio di Bach sarei riuscito a suonare prima di essere interrotto da un applauso entusiastico e riconoscente. Mi chiedevo perché avrei dovuto ancora suonarlo per Jacob.
E quelli erano i mesi in cui Italo Calvino, a pochi giorni dalla morte, scriveva della "rapidità"«...sogno immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nelle dimensioni d'un epigramma. Nei tempi sempre più congestionati che ci attendono, il bisogno di letteratura dovrà puntare sulla massima concentrazione della poesia e del pensiero.»(**)
Se l'avessi mai letto in quel momento, avrei subito cercato il suo numero di telefono, per chiamarlo, e il più rapidamente possibile cercare di dissuaderlo dal suo sogno.
Ma io ero scappato dalla vita congestionata di una metropoli come Torino, per venire a costruirmi una famiglia a Venezia, proprio perché lì avrei avuto il tempo per guardarmi intorno, fermarmi a chiacchierare con qualcuno in qualsiasi punto della città, perché il "senso della bellezza" del mio udito non fosse offeso ogni volta che scendevo in strada. Io dunque avevo già cominciato in me la ricerca di una sorta di cambiamento "in opposizione", una lotta contro quella realtà che tanto tranquillamente si accettava come "modernità", e quindi, senza dubbi, senza paura, in sé sicuramente "positiva".
Ora mi era chiaro che quella "positività" dell'essere "modernizzati", non era altro che la scelta più facile, la più "rapida", senza traumi o crisi, per vivere insieme agli altri: socialmente; tollerare senza difficoltà la televisione del vicino perché trasmette lo stesso programma della mia, sopportare l'invidia per il vicino più ricco perché il sistema concede anche a noi la speranza di raggiungerlo.
Era l'estate dell'85; anche in Israele, sempre nel pericolo della guerra, della violenza mortale, sempre con gli incubi atroci di Auschwitz da tradurre in "Memoria Universale", anche in quel paese "moderno", "nuovo", d'idealisti e combattenti, ormai fra la gente c'era solo più l'urgenza pressante di un "bisogno di normalità", di un "essere come tutti gli altri popoli", purché popoli civili, democratici e ricchi.
E allora cominciai a guardare Jacob che dormiva tranquillo sulle mie gambe, e pensai che avevamo desiderato chiamarlo "Israël", ma poi c'era venuto il timore che fosse un nome troppo pesante da portare, a scuola, nel lavoro, nella vita. Così era diventato "Jacob", proprio al contrario di quel che era successo nel suo nome: «Il tuo nome non sarà più Jacob, ma Israël, perché tu hai combattuto con Dio e con l'uomo». Genesi, capitolo 32, versetto 29.
È così che io ho imparato a cercare sempre le strade più difficili: per sfuggire a quel "desiderio di essere normali" che è sempre lì, pronto a cercare di fermarti, di convincerti che a quel punto ormai va già tutto bene, che coi compromessi si ottiene di più che con la cocciutaggine di voler continuare a muoversi contro corrente. Ho imparato che ci vogliono mille tattiche, mille strategie, mille astuzie per combattere gli inganni della "normalità", e ogni vittoria si paga col ritrovarsi daccapo nella lotta.
Ma a nessuno è concesso dimenticare che l'esistenza —anche, o soprattutto, quella biologica— è un combattimento contro tutto ciò che tende ad arrestare il suo processo trasformativo, o, in altre parole, che conduce a "definirsi"; è un combattimento vitale, contro ciò che si oppone all'essere "in divenire".
Beviamoci un'altra birra, adesso.
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Tornando alle mie "stimmate", non voglio che tu finisca col credere che sia una buona cosa "santificare" l'atto attraverso la sofferenza.
Non credo a nessuna sacralità insita in particolare nel dolore; ho orrore del "martirio", soprattutto per quel fanatismo sanguinoso e inarrestabile a cui si è sempre indissolubilmente legato nel corso della Storia. Accetto, tuttavia, che la sofferenza sia un "tempo" particolarmente concentrato, denso di attenzione ai bisogni più profondi dell'esistenza. Ma non un "tempo" favorevole alla vita, alla dinamica degli atti vitali, all'amore o alla condivisione dei sentimenti.
Soffrire è una condizione che ci rende disponibili tanto al bene quanto al male; tanto può muoverci verso l'altro con compassione e amore, quanto può renderci schivi a qualsiasi rapporto di simpatia o di affetto, spegnendo il sentimento d'amore convertito in odio bruciante e opprimente.
Quindi il dolore non è in assoluto un veicolo di buona volontà, ma è soltanto una condizione più intensa di bisogno, al quale le risposte possono arrivare da qualsiasi parte, morfina compresa.
Il problema etico più grave, infatti, si presenta al momento della guarigione, non della malattia e della sofferenza. La riconoscenza, il sentimento di "simpatia" verso l'origine della cessazione del male, è il momento in cui si emanano e dirigono gli atti e le energie più intensamente vitali, e queste possono raggiungere il medico oppure la "medicina", il medicinale o la "statuetta miracolosa del santo", le azioni caritatevoli e altruistiche o i pensieri rivolti per via mistica. O persino disperdersi nel nulla, in una indifferenza congegnale all'euforia dell'aver ritrovato il benessere e all'aver bisogno di dimenticare il male.
Il dolore non è etico e non è eroico almeno tanto quanto non è desiderabile.
E soprattutto: la sofferenza è uno stato di debolezza, e non di forza. Dunque perché dovrei accettare che sia presente su di me durante il mio atto musicale?
Infatti non è così: io non l'accetto affatto, e cerco, piuttosto, di combatterla, di sradicarla. Purtroppo, quell'oppressione colpisce raggiungendomi da luoghi diversi e imprevedibili, sicché non sempre riesco a schivarla, o a mettermi nello stato di dominarla.
Io, nel "dare" musica dal mio violoncello, sono in una posizione di debolezza, di fragilità estrema: ho accettato di annullarmi nel mio strumento per "vestirmene" e "vivere dentro" di lui; la mia condizione è un po' come quella del bruco, che attraversa passaggi di estrema vulnerabilità nel suo cammino verso la metamorfosi in farfalla.
Io dico "muoio" quando comincia l'esecuzione musicale, ma non è lì alcuna sofferenza: anzi, potrei quasi credere che questo "morire" sia quasi un premio, come un esercitarsi ad accogliere la propria inevitabile morte biologica; come una "prova generale", più volte ripetuta, di quell'estremo momento finale dell'esistenza nella nostra temporanea forma.
Il premio è proprio nel constatare che non c'è dolore, che è un'eutanasia, una "bella morte"; e nulla mi vieta di credere che qui sia svelato il segreto occulto della nascita della musica nel mondo: imparare a morire bene.
In particolare, quel "morire" in musica è in un certo qual modo "leggero", perché libera dal "peso" del corpo.
Tu sai bene cosa succede a qualsiasi musicista in concerto, o a un attore in teatro: si può essere distrutti da un raffreddore potente, ma, se si ha il coraggio di salire sul palcoscenico, immediatamente tutti i sintomi scompaiono, per poi tornare, magari raddoppiati, solo dopo l'uscita di scena. Bene, questo è, in una certa misura, una manifestazione, o una conseguenza, di quel "lasciare il proprio corpo" per diventare il "corpo del personaggio", o, appunto, di quella "metamorfosi" di cui ti ho parlato. E il "personaggio", per "pesante" che sia, è sempre più leggero, più "aereo" del proprio corpo.
Si dice che Paganini fosse quasi "affascinato" dalla propria resistenza al dolore, al limite di un masochismo patologico. Esiste una testimonianza (**) in cui si racconta del giorno in cui si era fatto cavare quasi tutti i denti, perché da troppo tempo gli causavano dolori continui; Paganini, con la bocca sdentata grondante sangue e schiacciata in un sorriso diabolico, girava per casa suonando sul suo violino passaggi d'insuperabile virtuosismo e d'incredibile difficoltà. Ecco, per me Paganini, in quel momento, stava godendo appunto di quel "premio" di cui ti ho detto, e, in più, stava approfittando di un "tempo" ideale —quel momento di sofferenza particolarmente acuta— per "focalizzare" in una "prova generale" tutte le sue capacità di violinista virtuoso, quindi obbligato ad essere "normalmente" superiore allo stato di "normalità": "Virtuoso" ed "Eroe", perché modello, esempio di "Virtù".
Ma se avessimo proposto a Paganini di rimettersi tutti i denti per cavarseli nuovamente, sono certo che ci avrebbe risposto con qualche gustosa scelta linguistica dal lessico genovese, e fra le meno adatte alle orecchie dei bambini... perché Paganini era un virtuoso debole di salute, e non un masochista. E poi, com'è noto, «Paganini non ripete»...
È proprio quello il segreto nascosto "dentro" alla facilità e "leggerezza" dell'esecuzione virtuosistica: libertà dall'impiccio corporale; impiccio che si riconosce, che ci si palesa appena abbiamo mosso il primo passo nel mondo dell'arte. E di qualsiasi arte: l'arte del violino, o quella del teatro, della pittura, della scultura, della letteratura, della poesia. Persino nel diventare sacerdote d'una qualsiasi religione: anche i preti si "liberano" del peso corporale con l' "esercizio" della fede o degli obblighi del sacerdozio, e con il sacrificio, il distacco dalla "normalità", la disciplina e la dedicazione quotidiana alla "regola".
Ora, noi violoncellisti, violisti o violinisti, nell'esercitarci in prospettiva della conquista del nostro virtuosismo, per tradizione o per scuola cerchiamo la «cavata» del suono: è un termine efficacissimo per esprimere la perfezione tecnica dell'arco, quando riesce a produrre un suono che "corre", che raggiunge tutto il pubblico, affascinandolo, convincendolo, attraendolo verso il nostro suonare. Dalla «cavata» noi otteniamo tutta la bellezza del suono, l'espressione dei sentimenti, l'"intelligibilità" della frase musicale; in breve: la «cavata» è l'anima stessa, la "centralità" dell'arte dello strumento ad arco, così come ce l'hanno tramandata i grandi virtuosi, e come ce l'hanno descritta e testimoniata i critici o i cronisti loro contemporanei.
Dunque il suono, nella nostra tradizione, è una cosa che si deve «cavar fuori» dallo strumento. E questa è un'immagine da meditare a fondo.
Cavar fuori il suono: come l'attore che cava fuori dal testo teatrale il personaggio, come lo scultore che cava fuori dal marmo la sua opera.
Questa, inoltre, non è che la condizione di chi esegue un'opera, poiché il crearla è ancora un passo più in là: è il cavar fuori dal sé l'opera, trovandola dentro al proprio essere, e cavandola fuori essa nasce alla vita: come in un parto, l'opera nasce sottraendola a sé, con dolore, diminuendosi, perdendo sangue e forze. E, subito dopo, questa sua naturale situazione si deve convertire in un altro atto d'amore immenso: l'allattamento, il cavar fuori il latte, donare questo succo di se stessi, questo estratto sublime, per nutrire corpo e anima dell'opera.
Io affermo che in musica l'opera esiste solo finché viene eseguita, e l'esecuzione è un atto che fa sì che la musica venga ogni volta cavata fuori dalla partitura, dallo strumento, dal proprio corpo, dalla propria intelligenza e dalla propria anima, intendendo per "anima" quell'ineffabile cosa che va oltre l'intelligenza e l'emozione, ovvero esprime oltre il "linguaggio della mente" e quello "del corpo".
Noi diamo così tanta importanza allo scritto, alla partitura, ai nomi dei compositori e delle composizioni, alle nostre orecchie che "registrano e riproducono" il più delle volte stupidamente ciò che abbiamo sentito eseguire, che abbiamo finito per non notare più tutto questo.
E tutto questo è il miracolo centrale della musica: esce da noi un nuovo corpo, questo corpo è un'essenza, quest'essenza è leggera, a causa della sua leggerezza può visitare luoghi che si negano al peso della materia o dell' "immagine" delle cose materiali.
Quindi con la musica è possibile recarsi a visitare le "estremità" di luoghi che l'intelligenza razionale non riesce a riconoscere e ad appropriarsi che in forma di descrizioni o nozioni che "rappresentano cose visibili", o "visibilizzate" alla mente intelligente. Ciò che è solamente "visibile", o "visibilizzato", rischia di essere confinato nei limiti ovvi della "rappresentazione", e cioè l' "immagine", o, nel migliore dei casi, la "figura retorica". È proprio su questi fenomeni che incombe il comandamento biblico: «non ti farai immagine alcuna».
In musica, quelle indagini possono arrivare fino al "contatto", ed è un contatto "possibile" perché è intraducibile nel mondo, se non come una sorta di ineffabile, immenso "silenzio".
Ciò di cui sto parlando è qualcosa di terribile, a volte, altre di sublime.
Nella Bibbia ebraica c'è una traccia di quel "silenzio", ed è nella Teofania, in Esodo 20,18: il Signore si manifesta nel suono, per "dire" i dieci comandamenti al popolo guidato da Mosè, ma quella voce, anziché elevarli al cielo, li schiaccia nella terra: quel suono è terrificante. Tutto il popolo trema d'orrore, di fronte a «tuono, lampi, strepitio del corno shofar, montagna fumante». Solo Mosè ha ascoltato?
No, poiché il versetto dice all'inizio «E tutto il popolo vide le voci».
La letteratura rabbinica ha dedicato pagine straordinarie a questo paradosso sensoriale, per indicare là, in quel "vedere la voce", il punto di fondamento della rivelazione di una cosa essenziale: l'elezione del popolo ebraico. Quel popolo ha avuto un "contatto" con l'Uno, e quel contatto non poteva che avvenire nel luogo più prossimo alla musica: vedere il suono.
Ciò che ne consegue non può dunque essere né "descritto" né "definito"; non può articolarsi nel tempo e nello spazio delle cose; può solo essere un richiamo, un risucchio fuori dalle cose: un qualcosa che ci estrae da una realtà definita e definitiva, e ci proietta nel movimento, nella trasformazione. Ma che non può tradursi altrimenti che con un immenso "silenzio": quello dell'impronunziabile nome di quattro consonanti "mute" dell'alfabeto ebraico: Jod, He, Vav, He, il Nome ineffabile del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.
Esiste una descrizione di questo "silenzio"?
Credo ben più di una, fra le pagine della grande letteratura. Ma io voglio portare a memoria le pagine in cui Elie Wiesel descrive l'angoscia dei testimoni al processo di Norimberga, il processo in cui il nuovo mondo civile cercava di tradurre in parole e concetti l'orrore vissuto nella carne e nell'anima dai sopravvissuti all' "Olocausto", alla Shoah.
Uomini e donne che erano stati denudati, straziati, "disanimati" dalle leggi di un governo la cui etica era deviata, impazzita; con quel dolore atroce su tutto il loro essere, quella ferita che avevano appena cominciato a nascondere nell'intimo, a celare dietro un terapeutico pudore; con quel recente sollievo che li faceva sperare in un ritorno possibile alla vita, alla "normalità" di un lavoro, una casa, una famiglia; quella gente doveva raccontare, descrivere ciò che era successo, perché la giustizia degli uomini potesse "fare il suo corso", perché "i popoli potessero capire".
Là, ogni parola doveva confrontarsi con la responsabilità terribile di "rappresentare" veramente, inequivocabilmente la realtà: «I sopravvissuti, reticenti, davano risposte approssimative, aggiravano l'argomento,», scrive Wiesel, «oppure rimanevano in silenzio.»
Per pudore, dice, di cose spesso troppo dure per esporle alla luce, per toglierle dall'intimo segreto con cui si aveva l'impressione di potersi proteggere; ma anche per timore: «soprattutto per timore. Timore di suscitare l'incredulità, di sentirsi dire: avete l'immaginazione malata, quello che descrivete non può essere accaduto. Oppure: tentate di intenerire la nostra pietà, di mercanteggiare le vostre sofferenze. O peggio: timore di venir meno a una missione, di tradire l'esperienza unica imprigionandola dentro parole logore, nefaste. Timore di dire quello che non deve essere detto, di voler comunicare con la parola ciò che sfugge alla parola, di cadere nella trappola della bugia facile.
Ciascuno di loro doveva, ad un certo momento, subire la tentazione di stringere le labbra e adottare un mutismo assoluto. E trasmettere la visione dell'olocausto alla maniera di certi mistici, sottraendola al linguaggio.
Se tutti avessero taciuto, l'assommarsi dei loro silenzi sarebbe stato insopportabile: il mondo sarebbe diventato sordo.» (**)
Fermiamoci per un poco, Julie. Usciamo a guardare il tramonto; il tempo sembra bello.
I*II*III*IV*V*VI
Mi dici che hai pianto, guardando il tramonto stasera, con le parole di Wiesel che ti battevano nel cuore.
Piccola Julie, piangere è un angelo che estrae da te il dolore, e ti dona lacrime fatte perle preziose: non devi mai gettarle o disperderle.
Vedi, anch'io ho cercato di non disperdere quelle lacrime che m'invadevano suonando oggi in quel bar: l'ho fatto parlando a te. Anche se quelle mie lacrime erano proprio quelle che versavo perché disperdevo tutto il mio suono in quella vanità sciocca a cui lo stavamo donando, consacrando, estraendo da noi.
Ti voglio raccontare una storia (se non vuoi leggerla, puoi uscire da qui, tornando a quel "contadino" da cui sei venuto): quando avevo circa tredici anni, durante le vacanze in campagna mi ero messo in testa di comporre una Sinfonia. Ci lavoravo tutti i giorni, seduto a un tavolino nel cortile di casa: ore e ore a combinare insieme note con note che spostavo, toglievo, rimettevo dove le avevo tolte.
I contadini che abitavano lì vicino, gente semplice e buona, sedevano sempre con noi la sera nel cortile, riunendosi, come dicevano: «ant'la curt dal Prufesùr Giüsepìn»(**). Il "Professor Giuseppino" era mio padre, che era un maestro di scuola elementare, e che aveva passato l'infanzia lì con loro per poi diventare "Professore" a Torino. Tutto di noi gente di città e di cultura finiva con l'incuriosirli, e si chiacchierava e si rideva per ore, piacevolmente.
Un giorno mi chiesero cosa stavo scrivendo, e io risposi.
«Una sinfonia? Ma ci vogliono un bel po' di note per fare una sinfonia; non è come una canzone!»
Dissi che me n'ero accorto benissimo, e che proprio per quello ci impiegavo tanto tempo.
«Ma se anche tu adesso scrivi una sinfonia, quante musiche rimarranno ancora possibili da scrivere?»
Chiesi di spiegarmi cosa intendeva dire, e mi rispose subito: «Le note sono soltanto sette. Tu le giri e le rigiri, le sposti e le risposti a trovare posizioni nuove, ma loro rimangono sempre solo sette. E prima o poi per forza finirà che tutte le musiche saranno state scritte. E allora cosa si farà? Bisognerebbe stare attenti a non finir di scrivere tutta la musica troppo presto... sarebbe un peccato!»
Com'è ovvio, io allora non capii nulla più di una considerazione infantile su un oggetto che sapevo di conoscere molto meglio di loro. Più tardi negli anni il ricordo di quella sera —che non mi lasciava mai, che tornava sempre in mente con la resistenza, l'indistruttibilità delle idee più semplici— pian piano cominciò a diventare l'idea penetrante di una "ecologia" della musica. Nella saturazione definitiva a cui è giunto oggi il "mercato", mi sembra di vedere quei contadini guardarmi e scuotere la testa con disapprovazione: «Hai visto? Avresti dovuto risparmiare con attenzione quelle note. Avresti dovuto seminarle meglio, al tempo giusto, dopo aver ben preparato il terreno. Così avresti raccolto bene abbastanza —a Dio piacendo— per poter continuare ancora per un po' di secoli a scrivere musica, e noi avremmo fatto in tempo ad imparare a leggerla. Non l'hai voluto fare? L'ingordigia di metter su tutta una grossa sinfonia, e poi un'altra, e poi un'altra ancora ti ha preso la testa? Ed ora eccoci qua: peggio per tutti noi. Vergogna!»
Diciamo così tante parole, ci scriviamo così tanti testi, che se davvero avessimo sempre fatto bene il nostro compito il mondo sarebbe già cambiato mille volte, mille volte finito e ricominciato migliore. Invece sono sempre solo cambiate le apparenze: si continua a morire nella paura e nel dolore, e si continua a imprigionare nelle carceri tutto quello che riusciamo a vedere e trovare del male, ma è sempre solo la superficie, l'insignificante, lo scarto divenuto inutilizzabile nella continua, perversa genesi del male.
Quei miei anziani amici contadini di note ne conoscevano solo sette, come i giorni della settimana; ma sapevano anche che le tonalità erano dodici, come i mesi dell'anno: gliel'avevano insegnato in Parrocchia, alle lezioni di coro per cantare a Pasqua e Natale. E in chiesa cantavano accompagnati dall'Organo grande, quello che i loro bisnonni avevano pagato col sacrificio di togliersi un po' di pane tutti i giorni per tanti giorni, consolando i bambini, che non capivano il perché, colla descrizione di quella grande scatola che avrebbe portato nella loro chiesa le voci bellissime e argentate di tutti gli angeli del cielo.
Quando appena prima della Pasqua cantavano in Fa minore sugli accordi dell'Organo semichiuso da un tendone spesso e viola, sentivano bene come quella tonalità aveva il gelo e il grigiore della morte, e la pena dei morti-viventi in attesa del nulla. Quando Gesù era risorto e il tendone era tolto dall'Organo per riempirlo di luce, sentivano bene com'era grandioso il Re maggiore della Resurrezione del Re dei Re, che veniva ad annunciare che la morte era solo un passaggio: una modulazione.
Tutto questo, io a tredici anni non lo sapevo, ma anche mio padre, il "Prufesùr Giüsepìn", anche lui se n'era dimenticato, perché tanto noi avevamo l'abbonamento alla Stagione Concertistica di Torino, e all'Opera, e una bella collezione di dischi di grandi interpreti, e un figlio in casa che era una promessa nel mondo della musica, magari di quella dodecafonica.
Ma a che serve più raccontarle, queste storie? Foss'anche raccontarla per televisione, nell'illusione perversa di raggiungere tante menti e tanti cuori quanti non s'è mai potuto prima?
A che serve dimenticarle o ricordarle, visto che quell'Organo che si era guastato per l'abbandono ormai lo ripara lo Stato, la Soprintendenza alle Belle Arti? Visto che ormai quei vecchi sono tutti morti e sostituiti dalla nuova generazione di uomini e contadini tecnologizzati?
Se una cosa qualsiasi non cresce, non si forma, non si estrae dalla propria carne, essa è solo fumo, nebbia, morte, niente.
Lezione di anziano contadino: «Terra eri, terra tornerai; quindi rispettala, questa terra che era te, e che te sarà; coltivala bene, ma estrai il raccolto ancora meglio: quel raccolto sei tu, è la tua esistenza; non disperderla in terra cattiva; converti la terra cattiva in terra buona, col sudore della tua fronte. E ricordati di ringraziare sempre il Signore per tutto quello che ti dà, morte compresa.» Queste erano le parole che ripeteva sempre a noi bambini il vecchio contadino e sagrestano Batistìn, quando noi andavamo a giocare sugli scalini della chiesa, dove lui si sedeva a fumare la sua pipa lasciando qua e là sulle pietre dei segni tondi e neri di cenere impastata a nicotina. «La terra è bassa, ma a furia di abbassarti a prenderti le cose diventi alto. Non rimandare a domani quello che puoi fare oggi. La terra non la puoi ingannare: se credi di poterlo fare lei ingannerà te. Gli alberi sono delle persone sagge che dopo la morte non avevano voglia di stare in Paradiso fra le nuvole, ma preferivano star qui a sentir parlare gli altri sotto la loro ombra.» Queste erano le parole del vecchio falegname Giuanìn a noi bambini che giocavamo vicino al rio che s'insotterrava sparendo in una canaletta di pietra, fra due immensi, splendidi ippocastani, dove lui stava seduto, verso sera, a fumare mozziconi di sigari odorosi di legno antico. «Il fuoco è bello: mia mamma ha passato tutta la vita a guardarlo, io lo guardo sempre, e non ci siamo stufati mai di vederlo. Le ciliege sono come i giorni della vita: non ti bastano mai. Se il latte o un uovo va sparso per terra devi portare quella terra subito nell'orto; se no porta male. Se rompi lo specchio sono sette anni di guai; allora devi subito recitare sette Ave Maria ogni mattino per sette settimane, e ti sarai salvato.» Parole di Ginòta, donna così grassa che stava sempre seduta sotto la quercia grande vicino al pollaio e all'orto della sua casa, e dava ordini a noi bambini per raccogliere le uova o la lattuga, indicando le cose senza neppure muovere la testa o il collo, ma solo con due grandi occhi ridenti e un dito.
Porto tutte queste "parole-figure" indelebili nella mia memoria, ormai da quasi quarant'anni dei miei quarantatré. Ma per farne che? Coltivarci la mia nostalgia?
O forse per accorgermi del fatto che io passavo non più di un mese su dodici in quel paese di campagna, e tutto il resto dell'anno ero immerso nella varietà, nella ricchezza di stimoli, nella "complessità" della mia Torino moderna. Eppure di tutta quella varietà e ricchezza non ho portato nulla con me, se non le mie debolezze. Mondo visto da un finestrino del treno in corsa.
Lezione di Rainer Maria Rilke: «Solo quando i ricordi, in noi, divengono sangue, sguardo e gesto; quando non hanno più nome e non si distinguono più dal nostro essere, solo allora può avvenire che, in un rarissimo istante di grazia, dal loro folto, prorompa e si levi la prima parola di un verso.»(**) Sapeva, però, di dover premettere: «Ricordare non basta, bisogna saper dimenticare.»
Sì, bisognerebbe leggere, e poi saper dimenticare, se non altro per darsi un'opportunità nuova di rileggere. Il problema è che tutta quella gente aveva tempo, e noi non ne abbiamo più: l'abbiamo perso nella nostra "rapidità".
Sette note, sette anni; ecco a cosa mi sento giunto adesso, per redimermi, per farmi perdonare dagli anziani amici contadini della mia infanzia: sette anni come una lunga settimana; a pensare come portare l'arte che ho appreso e perfezionato alla prova della vita, nei luoghi più lontani qui sulla terra: non nei cieli.
Sette note rotte, come uno specchio della vanità che si è frantumato; e sette settimane lunghe come anni, a ripetere i miei esercizi per salvarmi l'anima.
Ed ecco finalmente il giorno in cui arriva l'occasione attesa. E cade proprio su di te, la mia allieva che cerca e si offre il tempo per ascoltare i miei racconti e seguirmi nelle mie infinite passeggiate verbali.
Tu mi chiedi, imbarazzata, al telefono: «ci potrebbero essere dei concerti da fare a due violoncelli, ma non so se...», sicché io ho potuto risponderti: «Sì: nelle carceri sì. Finalmente devo cominciare ad agire! Non ho più scuse per rimandare a domani! Andiamo!»
Ma allora capisci che quello che stiamo per fare non è qualcosa di "occasionale"?
Non è un bel gesto caritatevole, più o meno ripagato dall'impressione di aver compiuto un gesto positivo; non è una buona azione, più o meno integrata nell'economia della nostra attività lavorativa. È l'opportunità che ci è data di leggerci dentro, e di mettere alla prova quel che vi abbiamo letto; buttar via la zavorra degli inganni e delle illusioni e muoverci davvero verso l'alto.
Torniamo al nostro prossimo pubblico di carcerati.
Ma però dopo aver mangiato qualcosa. Tanto, come diceva Totò, «la fame io la conosco a memoria».
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Tu mi hai raccontato nei dettagli l'esperienza che hai fatto nel penitenziario di Beauvais, con un'orchestra di violoncelli che suonava trascrizioni di canzoni dei Beatles e altre cose divertenti. E io ti domando: voi con che cosa ne siete usciti? E loro, con che cosa sono rientrati? Perfino tu non riesci a ricordare veramente né le emozioni che avevi provato, né cosa effettivamente avevate suonato e quanto a lungo. Ciò che ricordi è che il programma eseguito era stato un successo: i detenuti hanno battuto le mani; hanno chiesto una canzone e voi l'avete suonata; un'altra richiesta è stata soddisfatta solo da due di voi che l'hanno eseguita improvvisando perché non era nel repertorio; alla fine se ne sono usciti soddisfatti. L'unica cosa negativa è stata che non era avvenuto alcun dialogo e non avevate parlato con loro.
Tutto ciò ti porta a delle considerazioni: non bisogna essere in troppi perché diventa troppo difficile instaurare un dialogo col pubblico; non ha senso sperare che capiscano Bach senza che comincino coll'ascoltare gli strumenti adatti a suonare Bach, e ad accettarli come belli e piacevoli; per far sì che ascoltino veramente un violoncello devono riconoscerlo attraverso una composizione che sicuramente già conoscono, come una canzone dei Beatles e non certo una di Giovambattista Cirri da Forlì; la canzone dei Beatles è traducibile nel linguaggio del violoncello mentre il Rap è molto più improbabile che ci riesca senza farci fischiare da quelli di colore. Per conseguenza: se noi andiamo in due, gli suoniamo Beatles e poi Vivaldi e Venezia, e nel frammezzo chiacchieriamo con loro di cose divertenti e frivole, poi possiamo pure sperare di suonargli qualcosa di più vicino alle nostre abitudini.
Altrimenti accetti il rischio per amor del tuo complicato maestro, ma temi che avremo di che piangere dentro a quegli ambienti.
Sì, d'accordo, il tuo complicato maestro si scusa per averti ridotta a una così "semplicistica" allieva. Ma è solo per il desiderio di approfittare ogni tanto di quella brevità che io non posso avere.
Le tue argomentazioni sono serie, severe e approfondite, ma soprattutto sono razionali. Quindi non si deteriorano con la sintesi, anzi, ci guadagnano. Solo che io non credo che si possa considerare un luogo "razionale" il penitenziario, e ancor meno che si possa razionalizzare un sistema —per sperimentale che sia— che abbia come obiettivo il riuscire in una comunicazione anche solo un po' sopra "l'ottenere un applauso di soddisfazione o di approvazione".
Sabine Monirys ce l'aveva detto: «soffrono, soffrono moltissimo; specialmente di notte.»
Il punto è allora: ignoriamo quella sofferenza? O la riduciamo a qualcosa che si può dimensionare alla nostra capacità di offrire un rimedio?
O ancora: accettiamo di scavarla fuori, fino in fondo, senza compromessi. E ce la mettiamo fra le mani, quella sofferenza; noi e loro: per guardarla bene, annusarla, toccarla, gustarla e alla fine ascoltarla nei nostri violoncelli.
Io ti prego di seguirmi proprio in quest'ultima maniera, per folle e incosciente ti possa sembrare.
Te ne prego come tuo maestro di violoncello, per tutto quel che ti ho insegnato negli anni a suonare, con la nostra nobiltà di gesto e di fraseggio, cercando in ogni musica il suo dramma e appropriandolo allo stile, conservandoti ogni suono per consegnartelo quando sei diventata capace di riceverlo, facendoti "osservare" quel suono per fartelo trovare, e riconoscerti anche tu fortunata testimone e conservatrice.
Quindi lascia innanzitutto che io ti porti a visitare meglio questo nostro conservare, che è ben più di quella traccia rimasta nel nome della scuola che abbiamo frequentato per averne un diploma.
Seguiamo l'etimologia, che è sempre la migliore guida, perché corrisponde all'intelligenza collettiva e connettiva del mondo, in su e in giù, avanti e indietro. Il Maestro è in Conservatorio: Conservatorio viene da conservare, che è latino, e conservare da servus, schiavo; ma prima ancora era "guardiano del bestiame", la cui radice primitiva era swer, alternante con wer e ser e significava "osservare": "osservare il bestiame". È una faccenda di pastori che continua con quelli della chiesa, quando i "Conservatori" erano orfanotrofi o luoghi in cui si custodivano i fanciulli: il gregge del «Buon Pastore», appunto.
In ebraico, lingua sbrigativa di antichi pastori nomadi, "conservare" e "osservare" si esprimono con lo stesso verbo: li-shmor. E quella parola si può indifferentemente usare per indicare la preservazione di un cibo in scatola, o il custodire un libro, o il conservare una tradizione; si usa per dire "osservo un quadro", o "guardiamo un paesaggio", come per "osservare" il sabato o un precetto; o ancora per "rispettare" una tradizione, o il maestro, o il rapporto tra maestro e allievo.
Li-shmor è un verbo che emana significati irraggiandoli potenzialmente in ogni spazio dell'agire nel mondo fisico e nel metafisico. Questa polivalenza lo rende un verbo molto usato e molto letto, tanto nei testi sacri quanto negli articoli di cronaca giornalistica. Ciò fa sì che ad ogni incontro con li-shmor si debba far appello al contesto per capirne il senso; e questo può portare lontano, quando il significato di quella parola comincia a fluttuare nello spazio dilatato della significanza, tanto quanto, nel bisogno di rapidità e semplificazione, ci si abitui a collocarlo immediatamente in un senso univoco e definito, finendo così col negargli ogni libertà di "spostamento".
Entrando dentro alle lettere di quel verbo variegato, puoi osservare che le sue prime lettere sono quelle della parola ha-shem, "nome", che capovolte danno il nome Moshe, Mosè, il maestro e la guida dell' "osservanza"; poiché a Mosè Dio ha affidato le tavole della Legge, e Mosè le ha conservate per il popolo che ha guidato attraverso il deserto. Ma ciò vuol anche dire, per l'esegesi rabbinica, che Mosè è "il Nome", che racchiude il senso dell' "osservanza", e il mistero della "visione" di Dio, ovvero appunto di quel particolare, paradossale "ascolto" del suono delle «Voci» nella Teofania: la visione del "Nome" di quattro lettere impronunziabili del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe: «Io sono il Signore Jod-He-Vav-He, tuo Dio; quello che ti ha fatto uscire dall'Egitto», dove eri «schiavo»; ovvero "servo", e non più "guardiano che osserva, preserva, rispetta, conserva il gregge", o la "Legge".(**)
Ma siccome non sono qui per darti lezioni di Qabbalah o di Talmud —che, attenta, sono pensate per durare all' "infinito"— tanto ti basti per chiederti quanto di queste vertigini puoi "conservare" nel momento in cui, conoscendo l'ebraico e vivendo in Israele, ti siedi tranquilla col tuo caffé a leggere il tuo quotidiano abituale in un bar di Tel Aviv?
Ecco, in musica ci succede la stessa cosa.
Noi abbiamo delle lettere che formano parole: ossia gli insiemi di note di un nucleo melodico o armonico; parole che formano frasi e frasi che raccontano storie: le composizioni musicali; le ambientazioni, gli stili, i personaggi di un racconto: gli strumenti, gli strumentisti e i concerti; lo scritto edito, pubblicato e interpretato: la partitura, il trattato di musica o l'incisione discografica; la sinergia di tutte le parole, i pensieri, i concetti o i racconti attraverso tutti i libri: la sinergia dell'estetica musicale e dell'arte dell'interpretazione attraverso la Storia della musica.
Tutto ciò potrebbe somigliare al rapporto della musica con qualsiasi letteratura, ma in realtà, in profondità, in verità, la musica corrisponde, o "comunica" veramente solo con un tipo di scrittura: quella della Bibbia ebraica.
Roland Barthes scriveva: «Il musicista è sempre folle,» —intendendo per "follia" una qualità inafferrabile, o, per così dire, "inarrestabile o indomabile" dell'esperienza musicale— «al contrario dello scrittore, che non può mai esserlo, perché è condannato al senso.»(**) Ma quello che Barthes sapeva bene è che tale condanna al senso si aggira, si inganna, si cavalca come un cavallo alato, sfuggendola mentre la si usa. Né più né meno di quel che fa il poeta con la parola e col senso della parola: è esattamente questo, in musica, che rende l'interprete accorto.
Ma nella "scelta" della parola, poeta e compositore hanno la stessa responsabilità, ed è una responsabilità immensa: quella parola è "creata" alla vita, quindi si immette nel mondo un essere vivente che può essere positivo o negativo, che può dirigere il mondo a una trasformazione, così come a una distruzione. Quel "scegliere" la parola è piuttosto un "eleggere" una parola.
Il compositore di musica e il poeta di parole, infatti, prima o poi giungono e conducono a un punto nel quale si presenta una dualità: quasi una "sinestesia" appena un poco più in là dell'oggetto della parola o dell'insieme di note: è l'incontrarsi della parola con le lettere che la formano, nell'istante prima dell'averla formata, o delle note con i suoni di una melodia, in una condizione ancora neppure embrionale o primitiva, ma assolutamente astratta. Quell' "istante prima" è solo un'immagine, poiché quel fenomeno avviene in un altro tempo, un aiôn, come dicevano i greci, una "durata", in senso astratto: dunque una sorta di "buco di eternità" nel tempo, nel momento della percezione dell'oggetto. Ecco che di colpo l'oggetto è percepito, in un unico punto, nel suo presente, nel suo passato e nel suo futuro.
Questo è il fenomeno: noi "vediamo" le note e la melodia prima di essere l'una o l'altra cosa, ancora indefinite, fluttuanti alla nostra osservazione; noi vediamo la lettera e la parola prima che si articolino nel senso, nel movimento, nel khrónos, nel tempo lineare, dal prima al dopo. Là, in quella percezione, quel prima è anche un dopo e un durante.
Ma attenzione: non è "il tutto in quell'unico punto"; non è "l'aleph" come lo racconta magistralmente Borges (**), in cui tutto ciò che è "materia in movimento" nel passato e nel futuro è compressa, è insieme in un punto, eppure è "visibile" simultaneamente (forse solo per prendere atto del non sapere perché guardare); è piuttosto "l'intelligenza" dell'attimo prima e dell'attimo dopo, della prima ora del giorno e dell'ultima della notte contenute nello stesso luogo; è quella del «Gallo silvestre» di Leopardi, che «sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo» (**), ed è il «gallo del cielo» dello Zohar: egli canta l'ora della "crisi", del passaggio fra il giorno e la notte, fra la vita e la morte, in quel punto in cui esse non sono ancora distinte, separate. In quel punto non c'è solo l'incontro di unione e divisione: c'è piuttosto il paradosso dell'ineffabile coincidenza dell'atto di unire e dell'atto di dividere.
Il gallo celeste dello Zohar si leva e canta a mezzanotte, quando Dio si reca a passeggiare con i giusti in Paradiso. Quella è l'ora «in cui l'uomo ebbe terrore». La musica sembra irradiare proprio da lì, da quel canto e poi da quel terrore, per portarci la consolazione del suo più segreto richiamo: il segreto della sua origine.
In un certo modo, lettere e note preparate e pronte per la composizione di un testo o una musica, ci appaiono come "materia prima"; ma è ancora Barthes che ci segnala: «per gli Alchimisti [...] la materia prima è quanto esiste prima della divisione del senso: enorme paradosso perché, nell'ordine umano, all'uomo non è dato nulla che non sia immediatamente accompagnato da un senso, quello dato da altri uomini, e così di seguito, risalendo, all'infinito.»(**) E infatti note musicali e lettere dell'alfabeto, in quel punto estremo di cui ti ho parlato, sono oltre l'ordine umano: appartengono a Dio, sono i suoi attrezzi, i suoi utensili per "creare" il mondo.
Questo è ciò a cui ci avviciniamo "scegliendo" le parole di una composizione poetica o la sequenza di note di una composizione musicale, destinandole a divenire manifestazioni di "Poesia " o di "Musica", intese solo più come "entità" assolute e astratte: oltre gli oggetti estratti dai corpi. Quegli oggetti non possono far altro, appunto, che "rappresentarle", poiché la presenza di quelle entità è in nessun altro luogo se non in ciò che a me piace chiamare "le sublimi lontananze dell'altrove". E tutto questo, ti dicevo, si contempla nelle armonie che formano le lettere originali della Torah.
Così è l'alfabeto ebraico: «Ventidue lettere fondamentali: Egli le ha scolpite, le ha forgiate, le ha pesate, le ha alternate, le ha purificate e con esse ha formato l'anima dell'intera creazione e l'anima di tutto ciò che è destinato ad essere creato.»(**) E ancora, dallo stesso "Libro della Creazione": «E ha creato il suo mondo con tre forme di espressione: con il numero, con la lettera e con la parola.» È solo una traduzione approssimativa, di un testo che sfugge a qualsiasi univocità, soprattutto in ebraico, (***) ma io ti invito ad accettarlo così, per poter immaginare che le note musicali siano proprio quel "numero": prima del segno della lettera, e prima del suono della parola.
Ecco cosa intendevano gli antichi parlando di "Armonia delle Sfere"; ecco cosa intendeva il poeta Giovan Battista Marino scrivendo «non solo intellettuale armonia formano quelle sostanze spirituali, ma anche sovente volte con musico suono sensibilmente si lasciano intendere»(**). Ecco cosa ho inteso io, quando ti ho detto che il poeta o il compositore prima o poi ci conducono in un punto nel quale avviene una sorta di sinestesia.
Mi spiego meglio: una sinestesia è una "percezione simultanea": in greco synaísthesis. Nella congestione di messaggi e parole in movimento del mondo d'oggi, la sinestesia è forse la figura stilistica più usata, la più comune: basta dire:«Il gusto morbido, il biondo aroma del whisky scozzese», ed ecco pronunciate ben due sinestesie. «La voce del violoncello è di baritono»: eccone altre due, di cui una nascosta, perché baritono viene dal greco: barús, pesante, e oxys, acuto, ovvero, nel linguaggio dei cantanti, un Basso "leggero".
Il "luogo" biblico, il tópos, in cui si mostra una sinestesia, è proprio in quel paradosso di Esodo 20, 18 di cui ti ho già tanto parlato prima: «Tutto il popolo vide le voci».
Ed eccoci al punto in cui il caffé sul tavolino del bar di Tel Aviv e il nostro quotidiano in ebraico dovrebbero cominciare a vibrare di significanze, sfuggire ad ogni definizione, fluttuare in una dilatazione vertiginosa del tempo, esploderci nella testa in infinite schegge di senso gioioso.
E invece passa un autobus riempito di gente e di un fanatico uomo-bomba, e ad esplodere è il mondo tutto intorno a noi, e noi espulsi violentemente fuori da noi, diventati sacchetti spaccati di budella, ossa, materia cerebrale, sparsa senza senso e senza peso tutto intorno, dispersa nel vuoto del non aver potuto vivere anche solo quel secondo in più per accorgerci di esistere: ex-sistere: ero fermo, ora sorgo, appaio, esco fuori dal mio interno...
Eccoci dispersi nell'ovvio, nel banale: in una sofferenza insopportabile, in un insopportabile senso di impotenza. Perché un essere umano Dio non lo cerca o trova fuori dal sé: può solo farlo scaturire, col tempo e con l'amore, lentamente, impercettibilmente, dalla sua figura, e solo se un altro essere umano l'attende per compiere insieme questa trasformazione.
Quel sangue, quegli umori perduti, sprecati spargendoli sullo sporco della terra inquinata dalla stupidità, ricacciano Dio nell'ovvio, nel banale dell'odio, della violenza, nel luogo delle parole spente, delle armonie sprecate in una radio che risuona in un bar.
Parole di Ginòta: «se il latte o un uovo ti si spargono per terra, porta quella terra nell'orto, se no porta male.» Ossia, in un modo molto bello e profondo, ecologico, "seppellisci" in modo giusto tutte le cose preziose alla vita che hai perso, affinché possano continuare a "portare bene". Non contaminare le cose preziose che ti sono donate da Dio con lo scarto, lo sporco, l'immondizia, o anche solo l'indifferenza.
Eseguendo il suo macabro incarico, dopo gli attentati agli autobus pubblici in Israele la televisione filmava e trasmetteva immagini di decine di ebrei ortodossi, chassidim con barbe e riccioli e occhiali e zuccotto sulla testa, che si muovevano rapidi e severi tenendo in mano sacchetti di plastica del tipo di quelli della spesa al supermercato: raccoglievano tutti i pezzi sparsi delle vittime, per dare santa e benedetta sepoltura anche a un solo frammento di unghia, perché siamo "immagine di Dio sulla terra". In un cimitero ebraico, ricordalo, anche i libri della preghiera e dello studio del Nome di Dio, quando troppo usati e non più ricuperabili, vengono sepolti nella terra a fianco degli esseri che li hanno scritti o copiati fedelmente, e studiati. Per non contaminare nulla di ciò con l'indifferenza.
Questo è ciò che ti chiedo, Julie: non contaminiamo l'arte che abbiamo appreso con tutti i prodotti di un mondo ovvio, banale, solo perché così tutto ci sembra più facile, più rapido, più razionale.
L'inganno, il tradimento del mondo, è appena dietro l'angolo, e i nostri occhi non lo possono vedere.
C'è una storia cinese, alla fine dello scritto sulla "Rapidità" di Italo Calvino. Siccome è sera tardi, ed è il momento giusto per raccontare le favole ai bambini che avrebbero già dovuto andare a letto, io te la leggo: «Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c'era l'abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d'un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d'una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. "Ho bisogno di altri cinque anni" disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.»
Leggiamola bene questa bella favola, ma in tutte le direzioni, così come sa camminare un granchio: alla virtù del pittore ci vollero dieci anni, alla sua mano un solo istante, ma per il re ci vollero dieci anni per vedere quel che aveva chiesto.
Il problema è mettere a fuoco bene le distanze temporali, e scegliere se il punto focale rispetto allo sguardo di noi lettori è "l'istante" o sono "i dieci anni", così da sapere se il re attese dieci anni dopo l'istante, e se l'istante fu la richiesta del re o il gesto che disegnò il granchio. In ogni caso, ciò che dovremmo apprendere è che ci vuole tempo, e non mancanza di tempo; e magari una villa con dodici servitori, per avere ancora più tempo.
Tuttavia, quel che preoccupa me, più di tutte queste osservazioni, è il potere e la ricchezza del re, e per conseguenza il suo giudizio sulla "perfezione" del disegno. Prova a mettere a fianco di questa favola quella dei «Vestiti del Re», e immaginati un re in mutande e corona sulla testa che scambia quattro chiacchiere sul "senso della perfezione della bellezza" con un altro re che gli ha portato ad ammirare lo straordinario disegno di un granchio, fatto in un istante solo dal "suo" genio a corte, e che lui, dopo dieci anni, guardandoselo tutti i giorni in una cornice tutta d'oro e diamanti, con tutto quel che gli era costato, finalmente è riuscito a vedere come "bello e perfetto". La mamma del re passa di lì per caso, vede quel disegno e dice: «ma non è poi tanto bello; tuo fratellino, da piccolo, aveva disegnato un granchio molto più bello di questo! L'ho conservato: ora te lo faccio vedere... » E il re fa tagliare la testa a sua mamma e a suo fratello e al disegno, poi li seppellisce tutti con tutti gli onori tutti insieme.
Sì, perché in quella storia cinese così come ce la consegna Calvino, il "virtuoso" di corte ha un nome, e il re no: quindi il re può attribuirsi il nome del suo cortigiano, per essere, per sopravvivere, magari in "eterno". Ecco, l'inganno è appena lì dietro...
È per questo che ti ho detto che m'importa poco di cosa si offre al mondo, ma mi sento preoccupato soprattutto di come si offre; il che, come vedi, è diverso pure dal "come lo si offre".
È per questo che ti ho portato l'esempio del Canto Gregoriano in milioni di multipli discografici, o ti ho detto che Mozart o Michael Jackson o i Beatles hanno lo stesso valore nel "mercato dell'anima" della musica, e che non basta a Mozart la sua intrinseca "complessità".
«Mostrata al Cannibale la più tragica delle nostre rappresentazioni, egli ne goderà. Confacenza de' moti rispetto al metro.»; più o meno così diceva Giuseppe Tartini (**) a metà Settecento, mentre indagava con tutto se stesso nell'universalità della scienza e della filosofia della musica. Oggi potrebbe pure aggiungere: «Il che è come dire, che mostrata al Cannibale la più perfetta delle nostre Armonie, egli ne aborrirà.»
Suoneremo davanti a "cannibali", dentro ai teatri delle prigioni: non dimenticarlo.
Certo, alcuni di loro saranno dentro solo per un bicchiere di troppo o una piccola truffa, ma un bicchiere di troppo può essere la morte di un innocente investito da un'automobile, o una piccola truffa può distruggere la serenità della vita di una famiglia, finire col distruggere la sua armonia.
Altri hanno ucciso, stuprato, compiuto atti abominevoli, vissuto la loro vita solo per cibare se stessi di tutto ciò che desideravano, vita degli altri compresa. Là dentro ci sono dei colpevoli di crimini, più o meno gravi, ma crimini che impongono un pentimento e un ravvedimento. Noi non andremo là per divertirli e fargli sognare per un'oretta di essere liberi e allegri, soltanto perché loro sono "gente che soffre".
Non è questo che voglio fare, foss'anche solo perché dovrei convincermi che un'ora circa di "musica classica" non possa far niente di più per loro che intrattenerli in modo un po' più "aristocratico" che con dell'hard rock.
D'altro canto, noi abbiamo un'opportunità che ci è favorevole, se non altro, da un punto di vista: i carcerati hanno tempo a disposizione. Noi ci prenderemo il tempo necessario, sceglieremo il rischio più alto, non contamineremo la musica che abbiamo studiato. E soprattutto ci ricorderemo che un violoncellista è un attore, ma un attore tragico, e non sa far bene il comico.
Bene, è ora di andare a dormire, dopo questa lunga giornata. Domani si suonerà di più e parlerò di meno.
«R- Il motivo che vi farebbe sopprimere quest'opera m'incoraggia a pubblicarla.
N- Come! La certezza di non essere letto?
R- Un po' di pazienza e mi capirete. [...]»
J.J. Rousseau, "Julie o la novella Eloisa",
Seconda prefazione.(**)
© Claudio Ronco 1999. Tutti i diritti riservati.
torna a capo di questo testoI*II*III*IV*V*VI
claudio ronco
J. J. Rousseau, Julie o la nuova Eloisa, Seconda prefazione dell'autore; trad. V. Enrico, ed. post. Casini 1988. (**)
F. M.. Veracini (1690-1768), Il Trionfo della Pratica Musicale, Opera III, Firenze ca.1765. Quanto a Carlo Broschi, detto "il Farinelli" (1705-1782), è stato il più famoso Soprano castrato del '700. Dopo un immenso successo, soprattutto nei teatri inglesi, decise a soli trentadue anni di ritirarsi dalla scena pubblica, accettando l'incarico di cantare solo per Filippo V di Borbone, Re di Spagna, che soffriva di ansia depressiva. Per diciotto anni cantò solo e sempre le stesse poche Arie amate dal sovrano (pare fossero solo sei), al mattino o al tramonto, e si occupò del "management" degli spettacoli alla corte di Madrid. Morì nella villa che si era fatto costruire nei pressi di Bologna, dove ricevette nel 1771 la visita di C. Burney, il primo grande storico della musica. (**)
In: M.A. Ouaknin e Dory Rotnemer, La bible de l'humour juif, éd. "J'ai lu", Paris 1995. (**)
È l'inizio di Juke-box all'idrogeno , trad. Fernanda Pivano. (**)
L'artigiano "appassionato e idealista" si chiama Mimmo Peruffo: vive e lavora a Vicenza, dove fabbrica corde per strumenti antichi secondo criteri rigorosamente storici; le sue corde sono in vendita con l'etichetta «Aquila corde armoniche», cui dedica tutto il tempo libero dal suo lavoro di chimico. La macchina ce l'ha, ma l'idealismo e la bicicletta pure. (**)
Italo Calvino, Lezioni americane - sei proposte per il prossimo millennio; ed. Garzanti, Milano, 1988. (**)
In: Edward Neill, Paganini. (**)
Elie Wiesel, Al sorgere delle stelle, p. 160; trad. A. M. Guerrieri, ed. Marietti, 1985. Il titolo originale è Entre deux soleils, (Ed. du Seuil, Paris 1970), e fa riferimento al passaggio dal giorno alla notte, ovvero l'inizio del giorno nuovo nella tradizione di vita ebraica. (**)
«Nel cortile del Professor Giuseppino»; è dialetto piemontese: andavamo in vacanza vicino ad Asti. (**)
R. M. Rilke, Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge (1910); tr. it. I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di F. Jesi, Garzanti, Milano 1974, parte I, p.14. (**)
Le lettere dell'alfabeto ebraico sono solo consonanti senza vocali. 'Il nome', ha-shem, si scrive con tre lettere: He-Shin-Mem; Mosè si scrive: Mem-Shin-He; 'conservare, osservare' si scrive: Shin-Mem-Resh. (**)
R.Barthes, Rasch, 1975, in aa.vv., Langue, discours, société. Pour É. Benveniste, Seuil, Paris. (**)
Jorge Luis Borges, El Aleph, 1949. (**)
Giacomo Leopardi, Operette morali [1824], a cura di A. Prete, Mondadori, Milano 1976, p. 186. Lo Zohar è uno dei testi fondamentali della tradizione mistica ebraica. La citazione che segue è in: Le Zohar, a cura di C. Mopsik e B. Maruani, Lagrasse 1981-1991; vol.I, 88a. (**)
R. Barthes, La saggezza dell'arte, New York 1979; in L'ovvio e l'ottuso, op. cit. (**)
Sefer Yezirah, Il libro della Creazione; Cap. II, p. 48; trad. di Gadiel Toaff; ed. Carucci, Roma 1988. Le citazioni successive sono: ibid., Cap. I, p.3I, ibid., Cap. I, p.33. (**)
Le tre parole sono: be-sepher, w-sephar, we-sippur. Gadiel Toaff (vedi nota prec.) fa notare che «queste parole sono indubbiamente derivate dalla stessa radice "s ph r". Sepher (sepharim) significa in ebraico "libro", "scritto" e perciò il significato generale indicherebbe che Dio ha creato mediante tre libri o scritti. [...]» . Toaff prosegue elencando un certo numero di traduzioni di quelle tre parole, fra cui: «Pistorius, che le traduce "scriptis, numeratis, pronunciatis"; Postellus, che le traduce "numerans, numerus, numerantus"; [...] Cimara, che le traduce "l'ecriture, le nombre, la parole"; Westcott, che le traduce "numbers, letters, sounds; Stering, che le traduce "numbers, letters, words" [...]». (G. Toaff, Sefer Yezirah, op. cit. p.33) (**)
G. B. Marino, Dicierie Sacre, Venezia 1643, p.111. (**)
Giuseppe Tartini (1692-1770), Trattato di Musica secondo la vera Scienza dell'Armonia, Padova 1754. Cap.V, pag.151: «Sono certo, che rappresentato ad un Cannibale un oggetto nel costume il più tragico, non aborrirà, ma goderà dell'oggetto. Confacenza de' moti rispetto al metro.» (**)
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