claudio ronco home passeggiata in giardino
...In effetti, ciò che rende veramente, profondamente "importante" uno scrittore, è il suo "link" ad altri scrittori; in altre parole, quando leggendo Buber tu stai anche leggendo qualcosa di Rabbi Nachman, e leggendo di Rabbi Nachmann (non sai chi è?) è inevitabile che tu stia di fronte a qualcosa del Ba'al Shem Tov... no, non è necessario che l'uno citi l'altro: non è solo trascinando da un luogo letterario a un altro frammenti di pensiero o virtuosismi espressivi che si trasfondono gli autori; ascoltando Beethoven si ascolta inevitabilmente anche un po' di Bach, e molto Haydn; c'è forse da stupirsi?
O forse, appunto, sarebbe meglio cercar di "leggere" in un "senso" più musicale, così da intendere "più" e "altro" di ciò che è scritto.
Forse per questo il Ba'al Shem Tov raccontava le sue storie mille volte, e a tutti sembravano mille storie sempre nuove e diverse. A spiegare questo fatto, il Ba'al Shem Tov ci provava osservando che, là dove le sue storie parevano sempre nuove, era solo perché il "nuovo" era nascosto in loro fin dalla prima volta che esse vennero "dette". "Dette" e non "scritte"? "Dire" è come "dare"; e scrivere... cos'è?
Mosè portò il suo popolo attraverso i quarant'anni di deserto, per dare a tutti loro una legge da conservare e osservare: la legge di un Dio il cui nome non si può "dire". In ebraico, (dove le 22 lettere dell'alfabeto sono solo consonanti, e non si scrivono le vocali) Mosè si scrive con tre lettere: MEM SHIN HE; con le stesse si scrive HE SHIN MEM: ha-Shem, il Nome; con le stesse si proclama quel nome: SHIN MEM HE: Shema! Ascolta Israele! Shema Israel: Adonai Elohenu, Adonai Echad! Ecco allora un uomo che scrive in se stesso, su se stesso, con se stesso, ed è testimone e martire nella "materia" del mondo, sebbene nel luogo più rarefatto: il deserto.
Testimone e martire: in greco sono la stessa parola...
Mosè viene al mondo in una "Tevà": una "cesta galleggiante sulle acque", si traduce. E' una "Tevà" che Dio fa costruire a Noè per salvarlo dal diluvio universale, indicando con bella precisione tutte le misure e le caratteristiche strutturali che dovrà avere; "Arca", si traduce, perché galleggia sull'acqua, contiene cose "vive" e "arcane"...
E "tevà" si chiama quel leggio, o quel tavolo della Sinagoga sul quale si posa il grande rotolo del Libro, dopo averlo spogliato dei suoi finimenti e sollevato in alto alla vista di tutti i presenti; da quel punto lo si "dice" ad alta voce, cantandolo con voce impostata a tutta l'assemblea.
Eppure, nel tradurre il preciso senso letterale della parola "Tevà", per il Ba'al Shem Tov non c'è che una parola: "Parola". Tevà significa parola, e il Ba'al Shem non perde occasione per ricordarcelo: Mosè, il balbuziente, l'"incirconciso di labbra", viene al mondo in una "parola" galleggiante, come una sostanza sublimata, che emerge, leggerissima, si eleva ad altre trasformazioni. Noè l'imbottisce di forme vitali, lascia che venga sommersa e inizi da sola, per la natura delle sue perfette proporzioni, a galleggiare e sublimare, fino a quel luogo emerso dal quale la leggerissima colomba non ritornerà più. Il Libro estratto dall'armadio Santo, l'Aron ha-Kodesh, aperto come un'alba di luce, si apre a sua volta, nel gesto ampio delle braccia e dei polmoni di colui che lo solleva alla vista dell'assemblea; il Libro cammina, attraversa tutto lo spazio che occuperà il suono della sua declamazione, e giunge a posarsi sulla Tevà, a galleggiarvi sopra, sospeso sull'infinito della sua lettura ciclica, la superfice lievemente inclinata verso l'alto, dove le donne, nel matroneo, ne aprono il riflesso a loro stesse, Libri generanti Libri, espansione infinita della lettura infinita.
E tutto ciò accade ad ogni sabato: dalle prime tre stelle del venerdì sera a quelle della sera successiva. Nella "casa dell'assemblea", la Sinagoga, la Bet ha-Knesset, il Libro si "apre", si libera della sua prigionia nella "parola", che a quel punto è solo più il suo "veicolo".
Così Rabbi Nachman... (Rabbi Nachman di Braslav, 1772-1811: nipote del Ba'al Shem Tov, rabbino chassidico e fondatore del ramo "pietista" che porta il suo nome: i "Braslaver". Nel 1789-1790, effettuò un pellegrinaggio mistico in terra d'Israele. Morì all'età di 38 anni, colpito da tubercolosi. Contrariamente ai suoi pari nel Chassidismo, non ebbe successori, e i suoi adepti si chiamarono "i Chassidim morti". I suoi insegnamenti furono assemblati dal suo segretario, Rabbi Nathan di Némirov, nel trattato "Liquté Moharan" , così come i suoi racconti; [torna pure a capo] ...dicevo: così anche Rabbi Nachman scrisse il suo libro, frutto della sua esperienza, della sua conoscenza, diretto ai suoi discepoli, al mondo intero; Rabbi Nachman, però, il suo libro lo diede al mondo presentandone l'oggetto e la materia, e dandogli fuoco al momento stesso. Coloro che erano presenti al fatto (era il 1808) ricevettero o fumo e cenere, o parole infinitamente leggere...
«L'uomo "dice" il mondo, e si "dice" con la parola», osserva il Rabbino Marc Alain Ouaknin (del quale puoi leggerti diverse belle cose già tradotte e pubblicate in Italia, oppure leggertelo in francese e procurarti il suo "le livre brûlé", Lieu Commun, 1986). «Egli è, secondo la formula dal Targum: ruach mellalela, ovvero "soffio parlante" -(ruach è "l'alito divino" dal quale l'Adamo fatto di terra prende vita e si anima)-, "uomo di parole"» (Cf. Genesi 2.7, trad. aramaica del Targum Onkelos.)
Leggiamo Borges e Baricco, Rigoni-Stern e Mario Soldati, Calvino e Del Giudice, Pavese e Umberto Eco; rileggiamo Leopardi o rileggiamo Baricco?
Leggere parole leggere, o parole pesanti? D'acqua, d'aria o di pietra? E ai nostri figli, cosa narriamo, vicino al tepore del fuoco, nei rari momenti in cui può avvenire il miracolo prezioso dell'ascolto?
C'è la poesia, e c'è la poetica; c'è un oggetto scritto con la pietra, che rimane fermo, immobile, immutabile, e c'è un alito sottile che scorre narrando, sempre, infinitamente. Non ha nome, né la parola l'attraversa... sfugge a chi lo cerca lontano, non lo vede chi lo cerca vicino a sé. Tutto quel che sappiamo è che nessuno può appropriarsene: come dice il Tao-tö-King: (...quali onnivori lettori dobbiamo diventare!...)«Egli produce senza appropriarsi,
Agisce senza aspettare nulla,
Compiuta l'opera non si lega ad essa.
Poiché non vi si lega, la sua opera resterà.»Un po' come anche se tu fossi qui, tutti quanti accoccolati vicino al nostro fuoco, la sera, sotto le stelle; mentre i bambini ti stuzzicano con le loro sciocchezze o tenerezze, mentre il corpo si distende e gli occhi riposano nella penombra piacevole, vibrata e segnata dalla fiamma del legno; con il tono dolce che culla, dondola, solleva brezza lieve e antichissimi ricordi, ti voglio raccontare ancora una vecchia leggenda di antichi Maestri:
«Quando doveva assolvere un qualche compito difficile o la comunità ebraica era esposta alla minaccia di una calamità, il Ba'al Shem Tov si recava in un certo posto nella foresta, accendeva un fuoco, e raccolto in meditazione diceva alcune preghiere. Ogni cosa si realizzava secondo il suo proposito: il miracolo si compiva, la sciagura era revocata. Ma nel passaggio attraverso le generazioni, ogni successore del Ba'al Shem cessava di ricordare come o dove compiere uno dei gesti necessari affinché il prodigio si realizzasse: prima come accendere il fuoco, poi le preghiere, ed infine il posto nella foresta. Eppure, come la prima, ogni volta tutto si compiva secondo l'auspicio degli eredi del Ba'al Shem, al punto che l'ultimo di questi, Rabbi Yisra'el di Rischin, poteva dire: "tutto quel che so fare è raccontare questa storia, e questo dovrebbe bastare".
E il solo racconto aveva la stessa efficacia delle azioni cadute nell'oblio.»(trascritta da Luigi Meneguzzi, insegnante di matematica a Treviso; ma non ho il suo numero di telefono...)
Leggi quello che vuoi, purché tu lo apra alla vita; sul pensiero d'Israel insegna con chiarezza ed esattezza Gershom Sholem, di cui puoi facilmente procurarti "La Kabbalah e il suo simbolismo" (Piccola Biblioteca Einaudi 383, Torino, 1980); un po' più costoso, ma meraviglioso, "Mistica ebraica" a cura di Giulio Busi (docente di ebraico a Ca' Foscari) ed Elena Loewental, sempre dell'Einaudi; oppure le cento pagine di Giulio Busi sulla Qabbalah, pubblicate recentemente dalla Laterza (non l'ho letto, ma mi fido di Giulio...).
Marc Alain Ouaknin è quasi meglio dal vivo che su carta stampata: guarda un po' se arriva di persona dalle tue parti. Martin Buber ti dirà chi era il Ba'al Shem Tov, il Ba'al Shem Tov ti narrerà le sue storie, al fondo di quelle vedrai sempre il Libro... purché tu lo apra sempre alla vita...
Vivi felice, e quando vuoi, vieni a passeggiare nel mio giardino.
Tuo affezionato claudio ronco.