Elogio della conservazione
claudio ronco
«...Mi dici cose sulle quali
non posso che essere d'accordo, eppure sento aleggiare un' ossessione
per il passato che le oscura. Ti vedo su di uno sfondo buio,
avvolto in una calda debole luce... come se provenisse da un
caminetto lontano. ..... Per liberare virtualità nuove
credo si debba rischiare, abbandonare lo zoccolo duro del già
detto per aprire altri spazi in cui il nostro essere-tempo si
manifesti, là dove anche l'errore è una figura
della verità...»
Da una e-mail/lettera
di Sandra Caroldi, pittrice riminese, a C.Ronco; aprile '99.
"Basterebbe un solo scambio di battute e tutto sarebbe a rigore
esaurito; eppure no, la ripetizione incessante e senza sorprese affascina,
esalta, commuove, acquieta più di qualunque animata narrazione.
L'assenza totale di pathos fa vibrare più della lirica, la monotonia
di fatto sembra una bufera."
Elémire Zolla
Cara Sandra,
Il tuo e-mail meritava di rispondere subito, ma c'è il Sabato
di mezzo, e di Sabato si loda il Creatore, si accendono le candele,
si riceve il riposo, e si raccontano
storie ai bambini. Così ho pensato di farti leggere qualcosa
di già scritto.
Poco tempo fa ho ricevuto il testo di un professore di matematica per
le scuole superiori, Luigi Meneguzzi, di Treviso. Riporta una storia
tradizionale chassidica:
« [...] Quando doveva assolvere un qualche compito
difficile o la comunità ebraica era esposta alla minaccia
di una calamità, il Ba'al Shem Tov -il Maestro "del
Nome buono", fondatore del movimento mistico popolare ebraico
chiamato Chassidismo- si recava in un posto nella foresta, accendeva
un fuoco, e raccolto in meditazione diceva alcune preghiere. Ogni
cosa si realizzava secondo il suo proposito: il miracolo si compiva,
la sciagura era revocata. Ma nel passaggio attraverso le generazioni,
ogni successore del Ba'al Shem cessava di ricordare come o dove
compiere uno dei gesti necessari affinché il prodigio si
realizzasse: prima come accendere il fuoco, poi le preghiere, ed
infine il posto nella foresta. Eppure, come la prima, ogni volta
tutto si compiva secondo l'auspicio degli eredi del Ba'al Shem,
al punto che l'ultimo di questi, Rabbi Yisra'el di Rischin, poteva
dire: «tutto quel che so fare è raccontare questa storia,
e questo dovrebbe bastare».
E il solo racconto aveva la stessa efficacia delle azioni cadute
nell'oblio."
La consapevolezza di costituire un anello nella sequenza delle azioni
riparatrici è sufficiente agli epigoni per portare a termine
un'ulteriore opera salvifica e così assicurare la trasmissione
della tradizione rinnovandola. Una sola ottintesa condizione sembra
necessaria: il racconto deve essere tramandato a voce. L'indebolimento
delle azioni da compiere è contrastato e controbilanciato
dalla forza della parola viva, detta, ascoltata e ricordata, anche
se non tutto viene trattenuto dalla mente e dalla memoria.
Ma noi, ora, ci troviamo di fronte a un testo. Il racconto è
stato scritto, si è fissato in caratteri che gli occhi possono
leggere ma le orecchie non più ascoltare. La storia ha raggiunto
la sua definitiva conclusione perché sembra che nulla si
possa più aggiungere o togliere agli immobili caratteri della
scrittura. [...]»
Meneguzzi prosegue poi analizzando
lungamente diverse versioni e traduzioni di quel racconto, fatte da
Scholem, Agnon e Ouaknin, e conclude meditando così:
«[...] Il già detto
dalla tradizione può essere liberato dalla schiavitù
della ripetizione; ricercato, può tornare ad essere ridetto.
Nondimeno, proprio nei confronti della capacità di trasmettere
a voce delle storie, constatiamo una frattura tra il nostro recente
passato e i passati delle generazioni a noi più lontane: l'oralità
che fluiva nell'ambito della famiglia e della piccola comunità
e narrava le vicende familiari, di vicinato e di quartiere delle generazioni
appena alla nostra precedenti è in procinto di scomparire.
Sostituito dalla narrazione visiva e per immagini, il racconto orale
sopravvive a stento. E' una sfida da affrontare senza rifugiarsi nel
rimpianto. [...]»
Apprezzando lo spirito (e la precisione)
di quel lavoro, io ho voluto scrivergli una lettera piena di cose "già
scritte", perché scritta nei ritagli del mio tempo. Eccola:
«Gentile Luigi Meneguzzi,
apprezzo molto il suo scritto «sul rapporto tra memoria e
oblio» che Maila [P.S.: una comune amica trevigiana]
mi ha inviato ieri. Scrivo per ringraziare, e potrei pure farlo direttamente,
dopo aver chiesto a Maila il suo indirizzo, ma trovo più bello
far circolare questo pezzo di carta da fax e di pensiero "termosensibile".
C'è calore, infatti, dopo aver acceso "un fuoco nella
foresta" o dove lo si è raccontato: un fuoco sotto controllo,
o un focolare, è da sempre il "luogo dei racconti e delle
storie": i termosifoni non vanno bene.
Ed è proprio nel fuoco che nel 1808 Rabbi Nahman di Braslav
(1772-1811; fondatore del ramo pietista dello Chassidismo, detto dei
"Braslaver"), discepolo del Ba'al Shem-Tov, consegnò
il suo libro al pubblico, rendendolo così un libro "che
esiste" a causa della sua "non-esistenza".
Rabbi Nahman fu poi "raccontato" per iscritto dal suo segretario,
Rabbi Nathan da Némirov, e così via, fino a Marc-Alain
Ouaknin, nei nostri giorni (Le livre brûlé, Lieu
Commun, 1986); tuttavia, con quel gesto teatrale, Nahman è
riuscito in quell'impresa che Lévinas ha definito «sauver
un texte de son malheur de livre».
Raccontare, dunque, una storia presso il fuoco, muovendo le parole
tra le lingue delle fiamme, sollevando faville luminose e leggere,
e incantando i bambini. Infatti «è proibito essere
vecchi!» insegnava giocosamente Nahman, e invitava a suonare
e cantare, a «far sorgere la melodia». E tutti
pare volessero ascoltare ancora e ancora le sue storie, proprio come
fanno i bambini che -come ci invita ad osservare Gianni Rodari- «quanto
a storie, sono abbastanza a lungo conservatori. Le vogliono riascoltare
con le stesse parole della prima volta, per il piacere di riconoscerle,
di impararle da cima a fondo nella giusta sequenza, di riprovare le
emozioni del primo incontro, nello stesso ordine: sorpresa, paura,
gratificazione.» (Grammatica della fantasia, Einaudi
1973, cap. 16).
Che fare se è solo più la TV a raccontare e ripetere
le storie "per immagini" ai bambini? Forse il problema non
è quello che scaturisce dalla scomparsa d'una «capacità
di trasmettere a voce delle storie», sì che «sostituito
dalla narrazione visiva e per immagini, il racconto orale sopravvive
a stento», ma quello di un'intelligenza sempre più
chiusa all'ascolto dell'altro, per la quale la memoria è solo
più funzionale all'accumulo e all'archiviazione di conoscenze
e informazioni.
Rilke ci avvertiva: «ricordare non basta: bisogna saper dimenticare»,
in questo rischiando di coinvolgere la memoria dello storico, e Carmelo
Bene ci insegna che «la lettura va frequentata come oblio,
come non ricordo della pagina scritta, affinché sorta
la differenza dal testo», in questo mimando la lezione dell'interprete
di musica classica.
Il Ba'al Shem Tov, invece, diceva di sé e delle storie che
sapeva raccontare: «Io porto in me il sangue e lo spirito
di coloro che la crearono; e per il sangue e lo spirito essa si è
fatta in me nuova. Sono anch'io nella catena dei narratori, anello
fra gli altri anelli, e ridico ancora la vecchia storia; se essa suona
come fosse nuova, il nuovo dormiva in lei fin da quando fu detta per
la prima volta.» (M. Buber, La leggenda del Baal-Shem,
trad. D. Lattes e M. Beilinson, Roma, s.d.).
Forse ciò a cui è necessario ricondurre la letteratura,
la filosofia e la poesia, è soltanto la Musica, oltre le sue
"note" e le sue "strutture" che -come immagini-
rimandano solo a un mondo, a un luogo, a una storia...
Soltanto l'inafferrabile Musica... se soltanto riusciremo ancora ad
esser capaci di ascoltare, ascoltarla, e trasmetterne l'ascolto.
Con ammirazione e gratitudine
per il suo scritto,
Claudio Ronco.»
Come compositore
di musica, io non posso costringere altri allo studio e all'esecuzione
dei miei errori: sarebbe un delitto di gravità estrema, e un disprezzo
per l'Arte dalle conseguenze irrimediabili. L'arte, infatti, vive là
dove il mondo non l'uccide con la sua inerzia. Così è per
l'ebreo e la Torah, che è un libro vivente, in quanto si
muove, si trasforma, si rende ineffabile. Per questo l'ebreo non mangia
carni e latticini insieme: perché è un precetto religioso,
e perché si esercita a non confondere il lecito (il latte) con
l'illecito (il sangue che proviene dall'uccisione di un animale).
Ora, al capitolo IV di Genesi noi leggiamo un passo di difficile comprensione,
che tradotto "alla lettera" suona così: «Caino
disse ad Abele: e sollevò la mano e l'uccise». Questo
vuoto del discorso di Caino a suo fratello è il luogo in cui i
Maestri ci insegnano che l'omicidio e la colpa sono generate da un dialogo
mancato, da un fallimento della comunicazione verbale.
Più avanti, Isacco giunge in prossimità del pozzo dov'è
Rebecca, la sua futura moglie. Lei lo vede arrivare, e chiede al servo
Eliezer: «Chi è quell'uomo che ci viene incontro per la
campagna?». E il servo risponde: «È il mio padrone».
Allora Rebecca prende il velo e si copre.
Su questo, Elena Loewenthal scrive: «Qui inizia una lunga, dolce
storia d'amore. E il gesto di questa fanciulla, poco più che bambina,
partita senza esitazioni per un luogo straniero e verso un uomo di cui
nulla sa, è talmente bello che persino al Midrash [commentari
rabbinici] non resta che tacere. Nulla si aggiunge a quella mano che
si muove verso il viso con una leggerezza e una gravità, con una
grazia che non hanno paragoni. [...]». Così concude osservando
che: «Al progresso ci si prepara anche con la lezione dell'ebraismo,
con quel suo talento a connettere il nuovo al vecchio, ad insinuare l'inedito
nella trama del già detto. Già, proprio nel suo incessante
e mai stanco ripetersi, l'ebraismo non ha mai, e di questo sono fermamente
convinta, non ha mai conosciuto il luogo comune, l'espressione scontata
e conformistica. Da sempre esso ci dice che in ogni rito, in ogni gesto,
in ogni parola che ricorre per l'ennesima volta, si annida certamente
un significato nuovo che qualcuno un giorno scoprirà, con il tocco
fugace e disinvolto di chi preme il dito su di un interruttore.»
(E. Loewenthal, Il velo di Rebecca, ovvero l'Elogio della conservazione,
in "Materia giudaica", AISG n. 2, Bologna 1996).
Ecco due luoghi in cui un'aporia, o un'assenza del discorso, hanno due
sensi opposti, e profondi, e dove la "leggerezza" dell'assenza
presenta i tratti contrapposti del bene e del male, della luce e della
tenebra.
In un'altra lettera
a qualcuno, mi era capitato di scrivere: «Equiparare il bene
al male è cosa che pertiene o al satanista o allo stolto; oppure
ancora a una società fondata sul "consumo", dove diventa
necessario poter connettere e attraversare virtualmente tutte le sue direzioni,
al fine di generare le sinergie necessarie alle dinamiche del mercato.
Non si tratta infatti di una società che distribuisce e rende disponibili
paradossi più o meno eccentrici, con lo scopo di rinnovare, rivoluzionandola
in continuo, un'evoluzione; (questa è, più o meno, la società
dei filosofi nostri contemporanei, in cui necessita un'educazione linguistica
specifica e specializzata allo scopo di attuare e attualizzare l'esercizio
dialettico destinato all'indagine filosofica, sicché tale necessità
diventa prigione e confine per la maggior parte dei suoi prodotti) ma
solo di un "motore" che pompa un flusso di "desiderio e
necessità" in calibrata alternanza, così da coprire
velocemente le distanze sulla superficie del mondo, e dominarlo dal basso
(cioè con il "peso" dei suoi argomenti), costringendolo
nei confini del "presente". Per questo il Talmud dice all'ebreo:
«i figli d'Israele non saranno salvati per ciò che hanno
fatto, ma per quello che potranno, in un futuro, realizzare»; ovvero
si predispone un sistema "proiettivo" in contrapposizione a
uno "riflessivo".
Ecco dunque che se la società dei consumi è il luogo dove
diventa necessario alla sopravvivenza del sistema il bisogno del "nuovo"
come "creazione" sorta dal vuoto rimasto nello spazio in cui
il "vecchio" è stato "consumato", una simile
società non può che avere una natura "pesante",
cioè legata alle cose e agli oggetti, nei limiti del tempo e dello
spazio, e non "leggera", ovvero capace di attraversare qualsiasi
barriera fisica o metafisica, per il solo fenomeno della sua capacità
di movimento al di sopra della rete d'accenti e gravità definite
da un qualsiasi semplice sistema binario (...bene e male, bisogno e appagamento
del bisogno, vecchio e nuovo, passato e futuro...).»
Nei
cinque anni che ho passato fra New Delhi e Calcutta, io ho capito che
non si sarebbe mai potuto portar loro né il messaggio d'un Picasso,
né ancor meno di un Andy Warhol: essi suonavano come vecchiume
morto e decomposto, di fronte al ripetersi dei loro rituali, e avevano
l'aspetto per me grottesco di un meraviglioso uomo Zulù vestito
da Armani. Benché avvenisse ormai da decenni la sistematica contaminazione
di modi e linguaggi occidentali in quella minoranza di terzo mondo che
si era conquistata (sanguinosamente, ingiustamente) il privilegio di una
ricchezza economica, né l'energia "rivoluzionaria" del
rock o del blues, né l'elettrizzante dinamismo dei programmi televisivi
potevano "ibridarsi" ai loro costumi: essi erano solo l'inganno
del potere occidentale e delle sue ragioni di mercato.
Nel mettere in atto una "gestualità" comunicativa, la
sola cosa che contava era la mia voce, che, con pazienza nel correggersi,
ad ogni passo apprendeva poco a poco la loro lingua e le loro storie meravigliose.
Un giorno trovai un vecchio violoncello, in un convento di missionari
anglicani: lo presi, lo accordai, e suonai tutto ciò che mi era
restato nella memoria di quel che avevo studiato di Bach. La commozione
mi strappava le lacrime, ma non riuscivo a rivedere i miei luoghi, a far
sì che evocasse i miei ricordi d'infanzia o le mie vecchie emozioni:
tutto era nuovo e infinitamente forte. Alcuni servitori indiani si sedettero
ai miei piedi ad ascoltare, e muovevano la testa in segno di approvazione.
Quando smisi, mi dissero che avevo una grande anima, e che la dea Saraswati
appariva alle mie spalle, su un carro dorato, le sei braccia a irradiare
la luce. Il missionario parlò allora di Gesù, ma io e loro
eravamo intenti ad ascoltare una nuova storia.
Adesso raccontami la tua storia, Sandra, ma non raccontarmi di gite turistiche,
perché io non ho i soldi per farne.
Ti saluto e ti ringrazio per
l'ascolto.
Tuo Claudio.
il giardino
di giorno
il giardino nella sera
LABYRINTHOS
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