Fuoco nero su fuoco bianco.
Quando gli ebrei che commerciavano in Venezia si accorsero che era troppo costoso dover uscire ogni sera da una città dalle mura di acqua, ebbero quell'isola che si chiamò il Ghetto; era il 29 marzo del 1516. Casa stabile e prigione al tempo stesso, cambiò molte cose nei pensieri e nei desideri di gente che sopravviveva per un compito divino: "conservare", osservandolo, il libro.
In ebraico, "ghet" è la parola per "divorzio - separazione - carta di ripudio", "li-shmor", invece, è il verbo per "conservare" e "osservare"; indistintamente: i pomodori da conserva o le aringhe sotto sale, così come le tradizioni o i profondi messaggi della natura, attraverso l'osservazione scientifica, o anche solo l'occhio incantato dell'uomo innammorato della vita, o del poeta.
«Shmor», forse, ha in comune col latino "servus" l'etimo «swer», che nelle lingue primitive era il guardiano del gregge: colui che "osserva, guarda il gregge". Così "svaer", in lingue germaniche o scandinave, è "pesante, oppressivo", anche se da "servus" deriva la parola "conservare", e pure, naturalmente, "Conservatorio", dove si studia e conserva la tradizione musicale, forse alleggerendosi un po' l'animo da questa esplosione e saturazione di etimi. Ma quanto di tutto ciò è veramente "pesante", "gravoso", e quanto è "leggero"?
Qualche anno dopo esser stati "separati" e "stabilizzati" in un ghetto, gli ebrei di quel tempo pensarono di "pubblicarsi", facendo stampare su carta un maggior numero di multipli della loro conoscenza: il Talmud, ovvero lo "studio", e la tradizione orale, data attraverso Mosè come indissolubile compendio alla Torah: il Libro. Allora come adesso, ogni individuo che muore viene seppellito a contatto della terra, per dissolversi in essa, e i libri usati e ormai consumati - in pelle o in carta, sui quali sia apparso il segno delle lettere divine - vengono sepolti nello stesso luogo, allo stesso fine.
Quando quella gente considerò l'uso della carta anziché la pergamena, e della stampa a impressione anziché la penna tagliata ad arte, si pose per la prima volta il problema di "scolpire" le lettere dell'alfabeto intagliandole nel legno, e di dividere i testi in pagine e volumi. I Rabbini che si occuparono di farlo chiamavano le lettere i "cavalli di fuoco", le parole "carri di fuoco", e il testo era "fuoco nero su fuoco bianco". Il signor Daniel Bomberg, tedesco, non ebreo, veneziano d'adozione, scolpì, divise, organizzò e impresse gli ottanta volumi del Talmud, che poco dopo furono bruciati pubblicamente in piazza San Marco, in un rogo di carta, pelle e carne umana; non primo, né ultimo olocausto ebraico. Sulle pagine di quell'edizione, il testo talmudico e i vari commentari erano disposti in maniera molto originale su ogni pagina: si incrociavano, intersecavano, quasi sovrapponevano in mappe da geografo, tra diverse dimensioni, caratteri, direzioni di scrittura. Apparivano all'occhio complesse ma piacevoli carte cifrate, simili a espansioni inarrestabili di un centro graficamente concepito, eppure invisibile, inafferrabile. Non si poteva far altro che camminare, attraversare, navigare indefinitamente, o infinitamente, nella materia di quel testo: così, in quel modo, quel testo si liberava del suo "peso" di libro, e la leggerezza acquisita era quella della fiamma, non dell'aria, "quella dell'uccello -per dirla con Paul Valery-, e non della piuma".
Ad altro occhio attento, quelle pagine potevano sembrare diverse mappe di Venezie possibili, in alternanze di percorsi d'acqua e di terra, coordinati o definiti dalla natura delle correnti, e non da strategie o ideazioni umane.
La divisione del testo talmudico in quegli ottanta volumi non cambiò più: tutt'ora si ristampa in quella forma, e in quella forma lo si studia, proprio per liberarlo da quella o da qualsiasi altra forma: il Talmud è un libro in cammino, in movimento continuo, per un'umanità in cammino.
Camminare osservando, osservando conservare, conservando ricongiungere, nei vuoti delle dilatazioni della materia in continua espansione, le energie del divino: questo compito si svolge in infiniti diversi modi, sicché il Talmud insegna che il Messia non è in qualche luogo o tempo più o meno vicino o lontano da noi, ma è presente in ogni essere umano, in ogni luogo e in ogni tempo; il Messia è diviso, separato: l'energia dell'espansione primordiale che tende a disperderne i frammenti è quella che lo studio e l'amore convertono all'unione e al "ritorno": il "Tikkun", la ristrutturazione.
Così, in ebraico, un libro non si "legge", ma si "apre" - come nel necessario gesto corporeo prima di leggere -, e il suo contenuto si "apre" nel mondo, si "dona" al mondo.
Fuoco nero su fuoco bianco, esso non brucia, non consuma - come quel roveto di fronte a un preoccupato, balbuziente Mosè, "prima" di condurre il suo popolo attraverso il deserto - e il gesto gentile del disegnare la lettera seminando l'inchiostro sul campo fertile della pergamena, si ripete senza spegnersi nell'imprimersi della lettera sulla superficie soffice della carta, nell'arte accorta e rigorosa del tipografo.
Arte dopo arte, ogni téchne si dispone a "servire" qualcosa; l'ebreo è "servo" del Libro?
Sì, ma solo per liberarlo, farlo scivolare fuori da se stesso, muoverlo nel cielo e nella terra, darlo alla vita, sempre.
Einstein insegnava: «come si può dare la libertà a un uccello, lasciandolo chiuso in una gabbia? E' sufficiente dilatare la sua gabbia all'infinito.»
Einstein era un ebreo? Né più né meno di chiunque svolga il compito della sua vita senza mai chiudersi dentro a un unico senso delle cose.
(L'amore è fatto di dare e ricevere, dunque, con questo email ti ho amata abbastanza per questa mattina; spero che tu ti possa riposare sulle coccole affettuose di queste parole, sentirne la carezza, l'abbraccio, l'avvolgimento anche erotico: tutto questo è necessario, e non dobbiamo privarcene! Basta osservare che non ha un'unica forma, o un'unica direzione.
Un bacio, un sorriso, una carezza sui tuoi occhi, un augurio di serenità dal tuo amico claudio ronco.)
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o vieni nel mio giardino della sera
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