«Li-shmor, Conservare, osservare».
parola, musica,
numero.
Li-shmor, in ebraico, è il verbo che si
usa per dire sia "conservare" che "osservare".
L'etimo forse è lo stesso di "servo", ovvero "swer", nelle lingue primitive, che indicava
il guardiano del gregge, e da cui deriva, in ultima analisi,
anche la parola "Conservatorio",
ovvero l'unico luogo in cui ancora si studia e si esegue la musica
di autori come David Popper.
Perché dunque un violoncello solo vuole occupare la scena
di un teatro indagando ancora -o indugiando- nella musica di
Bach, solo per frammentarla e metterla a confronto con quella
di un virtuoso di fine Ottocento ormai dimenticato da tutti i
programmi concertistici, e fa ciò, infine, appellandosi
a un titolo che riferisce il tutto alla cultura ebraica?
Ci sono sempre stati tempi in cui la musica rappresentava il
momento privilegiato di comunicazione con l'invisibile, l'impalpabile,
l'ineffabile; là dove la parola iniziava a manifestare
il suo fallimento, era certamente la musica a realizzare una
comunicazione capace di spostarsi "oltre" l'esperienza
emotiva articolata nello spazio e nel tempo dell'uomo, per penetrare
così nell'idea del "tempo" di Dio, senza un
prima e senza un dopo, senza inizio e senza fine. Erano tempi,
quelli, in cui la comunità umana si riuniva ritualmente
nel canto e nella danza, e in queste arti ogni movimento del
corpo o del suono musicale si rovesciava in movimento dell'anima,
libera dal peso della materia fisica, fluttuante oltre lo scorrere
del tempo.
In quello spazio e in quel tempo -dove il ritmo è pulsazione
dell'anima, il suono armonico ne è il corpo, la melodia
l'identità e volontà- la musica rappresentava ciò che gli antichi chiamavano "Anima Mundi".
Ogni mondo che si è formato nel corso della storia dell'uomo
è cresciuto nella contemplazione delle armonie che andava
individuando fin dalla sua nascita, e ha definito e maturato
la sua identità appropriandosi e organizzando in linguaggio
le combinazioni di segni e di suoni che rimandano a quella memoria.
Poi, proprio come accade ad ogni essere vivente, anche i mondi
invecchiano, e poco a poco i rituali con cui i segreti e i codici
dell'anima possono essere conservati finiscono col frammentarsi,
senza più riuscire a corrispondere ai ritmi della quotidianità.
Solo i saggi si sforzano di conservare e osservare quelle strutture armoniche, di applicarle con
metodo; ma quando i loro sforzi sono vanificati da una società
ormai troppo divisa, o fratturata, ciò che inevitabilmente
accade sembra essere la fine di un mondo, la morte di una cultura,
un vuoto, un buco nero. È accaduto agli egizi, ai greci,
ai romani, e ciò che è risorto dalle loro ceneri
non ricomincia solo dalle parole o dalle idee sopravvissute o
restaurate: là dove si è prodotto un vuoto, ciò
che resta della vita può essere solo quel che è
più vicino all'ineffabile, e forse a Dio. Ed è
forse qualcosa di molto vicino alla musica, perché scaturisce
da quelle invisibili e perfette corrispondenze che chiamiamo
"Armonia".
Immaginare dunque Dio che guarda e legge nella "composizione"
di se stesso per generare i mondi, è qualcosa che in diversi
modi appartiene a tutte le culture antiche: esse capivano bene
come qualsiasi creazione dell'intelligenza o della fantasia dell'uomo
altro non è se non variazione e contemplazione del Creatore
attraverso la percezione sublime del suo creato. È in
questo modo -nel riconoscere la bellezza di quelle opere- che
l'uomo impara, per riflesso, a riconoscere Dio.
Così è soprattutto per la tradizione mistica ebraica,
che guarda alla Bibbia, la Torah,
non solo come a una narrazione etica -per fascinosa o criptica,
finita o infinita essa possa apparire- ma come alla "partitura"
in cui Dio ha "guardato" per creare i mondi naturali
e soprannaturali, e dunque come alla "cifra" dell'universo
stesso, dove le lettere dell'alfabeto si combinano fra loro in
parole, nello stesso modo in cui gli atomi si combinano in molecole
e le molecole in cellule, e così via, nella nostra terra,
dove nulla si crea e nulla si distrugge.
In un tempo in cui il mondo antico pareva finire per sempre,
nell'Occidente ricco e dominante sul resto del mondo, intorno
alla seconda metà del secolo scorso, un musicista di grande
talento, David Popper, virtuoso di violoncello, aveva preferito
la fama e il successo internazionali all'umiltà del ghetto
ebraico in cui era nato, figlio di uno dei cantori delle sinagoghe
di Praga. David abbandonò le tradizioni della sua famiglia,
e forse dimenticò davvero la sua identità ebraica,
almeno fin verso la fine del suo secolo, quando cominciò
a scatenarsi l'ondata di odio e violenza che ha devastato la
nostra "moderna e civile" Europa. Morì nel 1913,
vent'anni prima dell'inizio della Shoah,
e fra il 1902 e il 1905 compose i 40 Studi op.73 per violoncello
solo. Com'era inevitabile in un'epoca di transizione e decadenza
qual era l'inizio del nostro secolo, anche quelle composizioni
dovevano misurarsi e rapportarsi a un modello classico, ovvero
un "centro" dal quale derivare il loro significato;
per i violoncellisti dell'Ottocento, quel centro era rappresentato
dal gruppo delle sei Suites di J. S. Bach per violoncello
solo, composte intorno al 1720. L'opera di Popper guarda dentro
e oltre il testo bachiano, e nel far ciò guarda anche
dentro e oltre il suo tempo, diventando una meditazione
intensa e profonda sul senso e sulla memoria della nostra cultura
musicale.
Popper ha guardato nella musica di Bach
come avrebbe potuto guardare nella Torah:
in cerca di una bellezza ineffabile che attraesse l'anima nelle
direzioni del divino. Oltre la parola, i nomi, i valori dei numeri
e delle loro permutazioni possibili, il rituale della musica
è soprattutto il rituale della memoria più profonda:
quella che indaga sul segreto dell'origine della vita, osservando e conservando, nel meraviglioso paradosso del rinnovare
se stessi nell'atto di ripetere -virtuosamente o virtuosisticamente
contemplando- le variazioni d'aspetto dell'immutabile.
Claudio Ronco, Venezia,
marzo 1999.
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