LE JUGEMENT DES JUGÉS
Il giudizio dei giudicati

Concerts pour les pénitentiers
Concerti per le carceri

 

claudio ronco


Prolusione


«Ex Archetypo enim ad Angelicum orbem sive ad sphæras, & inde ad terrenæ habitationis orbem, unitas illa omnia consonantissima reddens, descendit; ut quicquid in unoquoque est, itidem in reliquis suavissima proportione vocibus vitæ energia canoris respondeat. DEUS enim est, in quo vivimus, movemur & sumus, illo spiritu mediante, qui intus alit, menteque, quæ molem agitat rerum fabricatarum, vera illa a Platonicis intenta mundi anima, quæ mundi membra vivificando harmoniaque
colligando concordia, mundani decachordi concentus reddit consonantissimos.»
Athanasius Kircher, "Musurgia universalis"
II libro, Roma, 1650

 

«Et questo spirito agitante & nutritivo [il Prothomaestro creatore, dispositore, governatore], che vive per entro tutta la mole della Natura, fu da' Platonici Anima del Mondo nominato, percioché vivificando le membre di questo immenso corpo, & con armonico groppo insiememente legandole, il concento dello stromento mondano rende consonante.»
Gio. Battista Marino, «Dicierie Sacre», Venezia 1643, pagg. 108/109

 

«Écrire un livre n'est pas la redite d'un ensemble de thèses définitives que nous aurions en notre possession, mais le souci de trouver et de formuler ce qu'on ne sait pas ou ce qu'on sait mal.»
(«Scrivere un libro non è redarre un insieme di tesi definitive che noi abbiamo in nostro possesso, ma il tentativo di trovare e di formulare ciò che non sappiamo, o che sappiamo male.»)
Rabbi Marc-Alain Ouaknin,
«Concerto pour quatre consonnes sans voyelles»;
Jérusalem, 1991



IL 18 agosto 1998 iniziavo una serie di nove concerti di musica da Camera d'epoca barocca nei penitenziari del nordovest della Francia, insieme alla mia allieva di violoncello Julie Mondor: Caen, San Brieuc, Le Mans, Rennes per il carcere femminile e poi per quello maschile, Angers, Lorient, Laval, Coutances. E' inutile dire che sono stati un successo oltre ciò che potevo immaginare, altrimenti non vorrei essere qui a parlarne.
Ciò che segue è la memoria dei giorni precedenti a quell'evento, e di quelli successivi. L'unico ordinamento che vi si trova è quello cronologico: uno dopo l'altro, i giorni portavano intuizioni e rivelazioni, e queste si svelavano suonando, raccontando o scrivendo, sicché ogni volta musica e parole dialogavano con un nuovo presente, e si muovevano programmando nuovi percorsi.
Questo scritto è, in qualche modo, simile a un diario di viaggio, ma è anche una sorta di partitura musicale: quella che io ho usato per convincere dei detenuti che ciò che stavo suonando era una cosa bella e utile da ricevere.
Non è però una "partitura musicale" qualsiasi: questa è precisamente una partitura di musica barocca, perché non contiene nulla che sia definitivo, inequivocabile, neppure "finito". È un work in progress, ma nello stesso tempo è un oggetto cristallizzato. Si trasforma e si modella secondo le mutazioni avvenute nel tempo, ma ha bisogno di un nucleo, di un centro perfettamente stabile che renda l'oggetto della comunicazione un utensile perfettamente universale: come la partitura di una Cantata barocca per voce e Basso Continuo (**)
In un lied per voce e pianoforte, dove tutto l'accompagnamento è stato dettagliatamente indicato nella scrittura, si ha una composizione che l'artista può interpretare con infinite diverse sfumature di significato, ma che senza una trascrizione non può destinarsi ad altro che a un luogo dove ci si reca ad ascoltare una voce accompagnata da un pianoforte.
Al contrario, una composizione per voce e Basso Continuo potrà essere usata nell'intimità di una camera, accompagnandosi da soli con la delicatezza di un liuto, così come in una Cattedrale, cantando sopra alle "voci" di un grande Organo; non sarà necessario cambiare nulla di ciò che è scritto: cambieranno solo il nostro sistema di lettura, la destinazione dell'atto, del gesto musicale, e il nostro "strumento" espressivo, intendendo per "strumento" la complessità e molteplicità di significati dei nostri "utensili": conoscenza del linguaggio, della tecnica, della retorica dell'estetica di cui faremo uso. Persino il testo poetico può essere sia sacro che profano: basta leggere "Maria" anziché "Clori", "Amore" anziché "amore", "Dio" anziché "dio"; Metastasio insegna e autorizza.
Infatti, la differenza sostanziale che esiste fra la partitura barocca e una moderna "partitura aleatoria" che sia destinata alla musica contemporanea occidentale, consiste nel considerare che nella musica d'oggi ci si può riferire a qualsiasi estetica conosciuta (se non ne esiste una suggerita o imposta dal compositore), mentre in quella del Barocco sia l'improvvisazione che l'esecuzione di uno "scritto aleatorio", qual è il realizzare su strumenti d'armonia il Basso Continuo, erano -e non possono che continuare ad essere- inequivocabilmente allacciate a una tradizione estetica univoca.
Quella del Barocco è dunque una «tradizione orale»; né più né meno come la poetica dell'interpretazione musicale romantica, o qual è, nella cultura e religione ebraica, il Talmud rispetto alla «tradizione scritta» della Torah, la "Legge" .
Il Rabbino e filosofo Marc-Alain Ouaknin spiega con molta efficacia che «Le Talmud propose non pas une interprétation absolue, universelle de la réalité et des événements qui s'y produisent, mais l'ensemble des points de vue, des perspectives possibles à partir desquels l'analyse du sens du monde est entreprise. Le Talmud offre, à chaque fois, ce que l'on pourrait nommer une logique des interprétations ou une logique du champ interprétatif.» (**)
(«Il Talmud non propone una interpretazione assoluta, universale della realtà e degli avvenimenti che vi si producono, ma l'insieme dei punti di vista, delle prospettive possibili a partire dalle quali è intrapresa l'analisi del senso del mondo. Il Talmud offre, ogni volta, ciò che potremmo chiamare una logica delle interpretazioni, o una logica del campo interpretativo.
»)
Dunque il Talmud -o una partitura musicale barocca- è una cosa ben diversa da un «Vangelo» (dal greco Eu-: bene, ángelos: messaggero), o, ancor più, da qualsiasi testo che voglia presentarsi come concluso, finito in se stesso; il Talmud è piuttosto un pensiero in continua evoluzione, continuamente contenente una direzione diversa, eppure diretta a uno stesso luogo: il non-luogo e non-tempo, dove abita l'idea del Dio ineffabile e onnipresente: quello della Torah.
Sebbene il Talmud possa apparire come un "metodo" per apprendere un sistema di movimento del pensiero -come potrebbe essere un buon trattato giuridico-, esso è pertanto una "metodologia" che, spiega ancora Ouaknin, «met en place une structure du penser qui fait obstacle à toute interprétation idéologique, moniste et dogmatique»(mette a punto una struttura del pensiero che si pone ad ostacolo a qualsiasi interpretazione ideologica, monista e dogmatica.» Ibid.)
Il "trattato di musica" dell'epoca barocca non ci insegna a imparare a memoria delle poesie: ci insegna, piuttosto, a memorizzare le tecniche di una poetica. E nella cultura musicale qualsiasi idea dell'estetica che pretenda di farsi intendere come ideologia acquista presto la pretesa di essere universale o assoluta, finendo o per capitolare di fronte a una nuova tendenza della moda, oppure col ridurre la sua stessa idea di estetica a fenomeno storico di costume. Difetto e pregio al tempo stesso, l'essere della musica ai confini estremi del razionale e dell'irrazionale, dell'astratto e del concreto, le rende possibili le stesse indagini della filosofia o della religione, le stesse conquiste e gli stessi errori.
Quando nell'esperienza della musica si "esce" dalla sua più semplice e naturale funzione di "intrattenimento" di un pubblico, tutto il complesso dell'essere musicista -il sacrificio dell'esercizio quotidiano sugli strumenti, della conquista di un virtuosismo sempre in necessità di essere riconfermato, rinnovato, riconquistato-, tutto l'insieme della professione comincia a premere con forza sul musicista, domandando delle ragioni più dense, più consistenti della sua esistenza, ovvero della sua conservazione e preservazione.
Prima o poi, l'essere sempre in scena si percepisce come un "compiere il rito", e di conseguenza ci si chiede se quella ritualità vale veramente la pena di essere eseguita. Così si finisce per osservare che "l'Arte della Musica" non è tanto nel comunicare uno stato emotivo attraverso un'estetica più o meno connessa alla Storia, ma è piuttosto nel credere che possa indagare nelle «prospettive possibili» del mondo.
Se allora la musica diventasse come un "libro" in cui si può leggere all'infinito, un libro ineffabile, ecco che la tecnica per renderla manifesta nei suoni sarebbe ricerca infinita di trasformazioni dentro a quel "testo oltre la scrittura", nell'inarrestabile dinamismo delle "lettere" diventate "segni".
Ora, il viaggio di un musicista con i suoi strumenti appresso è sempre quello di un filosofo, anche se suonando o cantando tende a non ricordarsene.
Certo, non di uno storico della filosofia, o di chiunque parli o insegni della filosofia di altri. Dice bene, infatti, il giovane filosofo veneziano Andrea Tagliapietra: «Il filosofo che non mette la sua filosofia alla prova della vita è come un musicista stonato, che si rifiuti di accordare il proprio strumento.»(**).
Dunque, col violoncello ben accordato, io mi sono mosso attraverso dei "luoghi" estremi della società, proprio per mettere quel mio strumento alla prova della vita. L'ho voluto far giudicare ai giudicati, perché, generalmente, gli specialisti del mio settore professionale giudicano soddisfacente solo ciò che riesce a soddisfare colui che si è specializzato, e quel mondo è troppo piccolo e insignificante per inglobarsi tutti i secoli di esperienza che porta su di sé uno strumento della famiglia del violino, o musica come quella composta da uomini-Titani quali Bach o Beethoven.
E la mia intelligenza è troppo piccola per essere in grado di contenerla, quell'esperienza; quindi ancor più povera di sistemi per descriverla, per chiuderla dentro a definizioni che possano essere qualcosa di diverso da una prigione del senso. Ecco perché mi sono messo in testa di rappresentare il violoncello: perché, annullando me stesso dietro alla maschera del mio strumento, io stesso divento "strumento di musica", e ciò che esprimo da quel momento in poi dipende solo più dal mio coraggio di portare tutto me stesso oltre quelle parole -o quelle note musicali- che possono solo descrivere.
Mi faccio ancora aiutare da Tagliapietra: «Le parole "rappresentare" e "rappresentazione" contengono, in modo manifesto e quasi fin troppo evidente, l'appello alla "presenza". Una presenza, quindi, che, poiché dalla parola è chiamata e richiesta, non è affatto presente, ma anzi è nostalgicamente evocata, secondo un principio di indeterminata riproducibilità basato sulla ripetizione della copia.».(Ibid.)
A quell' "assenza" della cosa -poiché rappresentata- risponde il suo mito, e in corrispondenza di un rito che lo celebra esso acquista un potere formidabile: quello che il teatro conosce e sperimenta, purché gli siano rimasti attori e pubblico capaci di consacrare il tempo e il luogo della rappresentazione.
È questo, solo questo il movente del mio viaggio con un violoncello in spalla, peregrinando in cerca di un pubblico e di un teatro dove essere attore. Devo poter vedere anch'io da quel teatro; devo potermi veder eseguire il mio compito sacro, nell'atto di ripetere il rito del far "risonare madonna Musica", così come ce l'hanno affidata i Maestri che amiamo chiamare "grandi".
Essere un pellegrino nella Storia e nella Cultura, percorrerla in lungo e in largo per trovarvi cibo che assicuri la sopravvivenza di ciò che siamo, non è compito per chi ama le vanità: egli consuma senza produrre nulla. E l'uomo non è in grado di creare, se non in metafora. Dunque partire per dare un concerto -alienante quotidianità per la maggioranza dei concertisti- è sempre partire per andare incontro a una possibilità: quella di indagare sulle potenzialità più segrete, più "arcane" del mondo, affinché esso si muova non solo nei limiti desolanti della vanità degli uomini, o della loro debolezza, ma secondo gli infiniti, ineffabili intrecci delle sue armonie.
Il Rabbino Ouaknin ci ricorda ancora che «Les enfants d'Israël ne sont pas sauvés par ce qu'ils ont fait mais par ce qu'ils vont, dans le futur, pouvoir faire. Éducation qu'on pourrait dire projective ou prospective; il ne s'agit pas d'enfermer l'enfant ou l'adulte dans la définition de ses actes passés. Il faut chercher, s'interroger sur les capacités, le pouvoir être et non l'avoir été. Retrouver en l'homme, dit
Rabbi Nahman, (**) le «point positif» qui, à lui seul, tire l'homme en avant vers le futur positivé.
Il faut rechercher à tout prix le «point positif» qu'il y a en chaque homme. En ce «point» réside la source de la joie et de la musique, dit Rabbi Nahman

(«I figli d'Israele non sono salvati per ciò che hanno fatto, ma per quello che, nel futuro, potranno fare. Educazione che potremmo dire proiettiva o prospettiva; si tratta di non imprigionare il bambino o l'adulto nella definizione dei suoi atti del passato. Bisogna cercare, interrogarsi sulle capacità, sul poter essere e sul non esser stati. Ritrovare nell'uomo, dice Rabbi Nahman, il punto positivo che, lui solo, spinge l'uomo in avanti, verso il futuro positivizzato.» (Ibid.)
Ecco in cerca di cosa sono partito quando mi sono mosso verso il "teatro" dei penitenziari. E, dopo esser partito, trovavo quel «punto positivo» anche in me, svelandolo nell'arte che pratico e trasmetto, proprio perché quell'arte è un "corpo" in cui esisto e mi muovo: ex-sisto, usando quel prefisso latino "ex = fuori da", per dare a quella parola un senso "spostato", proiettato nell' "essere fuori".
Dopo, la musica diventa premio, sublime, grandiosa remissione dei peccati, gloria, ascesa dello spirito; ma solo dopo essersi recati a visitare quel «punto».
«L'homme dit le monde et se dit avec des mots.» («L'uomo dice il mondo e si dice con delle parole») ci ricorda ancora Ouaknin; «Pour un homme vivant, il faut que les mots eux aussi continuent à vivre, à danser, à chanter...» («Per un uomo vivente, è necessario che anche le parole continuino a vivere, a danzare, a cantare...»)
È proprio dentro a questa idea che ho sognato per sette anni di fare dei concerti per i detenuti, per i colpevoli di crimini, per i violenti, per la gente reietta, crudele, paga e soddisfatta della sua ignoranza; ignoranza, però, di cui non sempre il condannato è l'unico colpevole...
Così, proprio dentro a questa idea del «dire il mondo» -e non «dire del mondo», né ancora, solamente «dire nel mondo»-, per poter giungere a dire «un altro» mondo, c'è anche l'idea di cominciare a viverlo qui, in terra. E dentro all'idea di quel «dire» vuole entrarci anche questo mio scritto, compilato solo con l'esperienza dell'arte musicale, che io credo filosofia e poesia insieme, ma soprattutto amore vivo per l'invisibile.
Parafrasando il pensiero che il Rabbino Ouaknin rivolge allo studio della Qabbalah, posso scrivere che la musica «est cette recherche exigeante, difficile, d'un "langage en mouvement", pour un homme en chemin.»[**] («è quella ricerca esigente, difficile, d'un "linguaggio in movimento", per un uomo in cammino.»).
Quell'«uomo in cammino» è quello che ci hanno sempre insegnato essere veramente l'unico uomo libero, perché è proprio colui che non è possibile arrestare o imprigionare, dato che non c'è prigione che lo possa fermare o contenere. Così voglio che sia, o così deve succedere, per tutte le parole di questa mia "memoria di cammino", proprio come fossero solo le pagine di un diario: anche queste non sanno raccontare nulla di definitivo, perché un diario si scrive per ricordare cosa ci si è chiesti un giorno e cosa si è pensato di poter rispondere in un altro, per dialogare con se stessi, per interrogarsi, per cercarsi.


L'inizio del mio viaggio è stato l'incontro con una pittrice parigina, Sabine Monirys, che aveva realizzato uno stage di pittura, per i detenuti di un Centre de Détention per lunghe pene, nella Francia del nord.



se vuoi, puoi tornare all'inizio.

2. Il ritorno*** 3. L'attesa e l'evento
*** 4. Angers
1. La preparazione.

«On n'écrit jamais seul même si, souvent, on demeure solitaire devant sa table de travail.»
(«Non scriviamo mai da soli anche se, sovente, dimoriamo solitari
davanti al nostro tavolo di lavoro.»)
(M.A. Ouaknin; op. cit.; 'Remerciements')

 

Appunti, dopo l'incontro con Sabine Monirys, pittrice;
Parigi, sera del 10 agosto.

 

«Ricordati che in carcere non ci sono mai "i nostri figli", ma sempre quelli "degli altri", quelli che sono diversi da noi. E questo il carcerato non solamente lo subisce, ma soprattutto lo "sente".
Parla a loro, parla molto. Sono timidi, all'inizio; molti di loro sono analfabeti.
Evita di dire: religione, preghiera; attento nell'usare la parola "libertà".
Soffrono molto, specialmente d'estate. Attento a parlare della notte: le loro notti sono d'inferno; non c'è silenzio nella notte: rumore delle sbarre battute col ferro, dei film pornografici in TV, gente che russa.
C'è sempre un bisogno di cose nuove, differenti, il bisogno di sentirsi incuriositi. Però loro ti mettono sempre alla prova: c'è un codice di comportamento "giusto", non scritto, che si deve indovinare, intuire. Se non ti metti al loro livello, o a un livello che loro possano riconoscere, ti rifiutano, si chiudono in un loro silenzio indifferente, e basta: tu hai finito di comunicare.
Quando entri c'è il "ghiaccio"; prova a rompere il ghiaccio con delle barzellette: se le sai scegliere bene funziona sempre, e le barzellette non sempre sono "stupide".
Il bisogno di sesso è sicuramente il più forte, ma anche di dolci, cose buone e desiderabili da mangiare. Ma stai attento: tu devi renderti molto disponibile, ma se ti dai troppo loro finiscono col "mangiarti"»

Dunque la fame -come figura del desiderio- è sicuramente un argomento di facile comprensione... e comunque mi ha molto impressionato quest'immagine dei detenuti "cannibali".
Sabine è una donna forte, penetrante; mi ha convinto quel suo sguardo appassionato e tragico, che raccontava, con pudore ma con determinazione straordinaria, una vita certamente difficile, vissuta con idealismo, intensità, coraggio incondizionato.
Ma Sabine è una donna. Mi ha parlato della pornografia, ma con lo stesso atteggiamento col quale le era necessario difendersi durante le lunghe ore di contatto fisico ed emotivo con uomini incarcerati. Certamente neanch'io potrò approfittare dell' "argomento pornografico", ma dovrò tener conto del fatto che la pornografia invade l'immaginario di ogni detenuto: da quello colto fino all'analfabeta.

Parigi, stesso giorno; notte fonda. Riflessioni; leggo dal mio diario:

«Barcelona, 30 luglio; 7.30 della sera, davanti alla sala prove del Liceu de Barcelona; ESCUCHAS SUS ALAS.

("Ascolta le sue ali": è scritto sulla porta della antica chiesa oggi sconsacrata e destinata alle prove d'orchestra.)

Una delle migliori produzioni musicali a cui io abbia partecipato in questi ultimi anni: un cast sensibile, preparato, rilassato, amichevole.
Credo davvero che l'atmosfera di questa città riesca ad aiutarci per la riuscita di questo lavoro. L'altro ieri, sulla "rambla", la strada degli avvenimenti e degli incontri, c'era un artista di strada, un giovane argentino emulo di Houdini. Vestito con una calzamaglia nera, il volto impassibile e un po' triste, si faceva legare con una ventina di metri di una grossa corda da barca, e prima di cominciare a slegarsi si produceva in un lungo discorso sulla sua arte, sul fatto che lui ci vive e ci paga l'affitto di casa e che se il pubblico era lì per divertirsi lui era lì per guadagnare qualcosa di più che solo l'applauso; tutto ciò saltellando come poteva con le gambe legate strette, come un ovino destinato al macello, e dietro alla schiena un sacchetto per l'obolo, tenuto con le sole tre dita rimaste libere dalla corda.
È stato uno spettacolo che mi ha divertito e commosso profondamente. Non so se l'ha capito, quando gliel'ho detto, ma la sua stretta di mano di ringraziamento era forte, dolce e sincera. Io ho pensato di essere simile a lui, in qualche modo; ho pensato di essere qualcuno che ama farsi legare per poi sciogliere i nodi con destrezza -o certezza di potersi slegare- , e l'ho pensato perché la commozione che mi ha causato quell'artista di strada derivava dal senso del suo soffrire nel lavoro. Sì, siamo tutti artisti di strada, funamboli che rischiano -o donano- la loro vita per offrire qualche breve momento di divertimento a un pubblico che passava di lì per caso, solo per caso.
Forse è proprio questo il punto: il mio pubblico è solo quello che passa per caso: quello che è venuto apposta non capisce, forse perché normalmente non trova in me quel che è venuto a cercare.
In questo arcicomodo hotel sto studiando benissimo... devo davvero ringraziare il buon fato, ma la cosa che più mi fa pensare in questi giorni è il fatto che forse tutti noi siamo "artisti di strada". C'è una forza strana, particolare, che nasce nel momento in cui si è per strada, qualcosa di ancestrale; è nel sangue, e ti fa guarire da ogni malattia, ti fa riposare bene, ti dà appetito e benessere.
»

Prove di un discorso preliminare. L'Ouverture Tragique.

«Bonsoir, bienvenu; mon nom c'est Claudio, Claudio Ronco. Je suis italien. Je suis un maître de violoncelle.
Qu'est-ce que c'est que ça veut dire?
Tout simplement: j'ai dédiée toute ma vie à ce gros instrument de musique, que nous appelons le "violoncelle". Il est joué depuis plus de quatre siècles: ça fait quatre-cent années...
Julie, mon élève, elle est française. Elle a fait ces études au Conservatoire de Paris, et travaille son violoncelle avec patience et passion depuis vingt ans.
Comment ça passe que des musiciens modernes, comme moi, comme Julie, arrivent à dédier toute sa vie à un violoncelle?
Parce que, je crois, la musique est née dans la solitude.
On n'avait besoin: pour sortir de la douleur de la solitude.
Solitude dans une nuit terrible, quand notre voix n'été plus capable de nous donner aucune satisfaction. On ne pouvait plus de chanter pour nous mêmes; on ne pouvait plus d'écouter notre propre voix.
Et nous avons fabriqué un instrument de musique: pour qu'il chante une mélodie pour nous.
Nous l'avons créé: avec le bois, avec le désir de fabriquer quelque chose d'extrêmement sensible.
Comme notre corp: sensible comme la peau, les nerfs, les os.
Nous avons coupé une canne, pour y faire une flute et y insuffler la vie; nous avons assemblé quatre morceaux de bois, quatre cordes, et un violon était créé: pour faire que sa voix puisse chanter pour nous; une voix tendre comme des caresses, pour nous libérer de la solitude, la peur, l'angoisse qui coupe le souffle, qui comprime le coeur
... »

La misura forse è questa: devo rendere comprensibile al "Cannibale" una parola ogni quattro.
Devo impararle bene a memoria, per dirle tutte di seguito senza doverle pensare troppo; dirle meccanicamente, perché voglio dirle mentre mi avvicino a loro, mentre li guardo negli occhi, gli porto il violoncello fin sotto il naso, li costringo a "sentirmi" e annusarmi, come se fossi "uno nuovo" che hanno messo in cella con loro.
E poi, che Dio mi aiuti a sapere cosa suonare.
Ora è tardi, e io ho solo nelle testa, insistenti, le rime del poeta di parole:

«Di Marsia il sangue, e le lagrime sparte
Da' Semidei, da gli Huomini, e dal cielo
Render la terra molle in quella parte,
E la terra al giovar rivolto il zelo,
Si succia il tutto, e distillando parte
Il bianco, e chiaro humor dal rosso velo,
E ne le vene sue distillato in fiume
Più basso alquanto si fà vedere il lume.»

"Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da Gio. Andrea dell'Anguillara in ottava rima [...]", B. Giunti, Venezia 1584.


...
E buonanotte.


inizio. *** 1.La preparazione *** 2. Il ritorno ***
3. L'attesa e l'evento *** 4. Angers

Il programma.

«Avoir un système, voilà qui est mortel pour l'esprit; n'en avoir pas, voilà aussi qui est mortel, d'ou la nécessité de soutenir en les perdant à la fois
ces deux exigences.»
F. Schlegel

Parigi, 11 agosto, mattino.

Mi vestirò interamente di nero, con una camicia a colletto modello clergyman. Sì: voglio somigliare fino in fondo a un "officiante".
Suonerò musica tragica. E sceglierò musica barocca, solo perché ha maggior flessibilità narrativa, e perché può facilmente esprimere, e persino raccontare una vicenda qualsiasi, e altrettanto efficacemente il suo contrario; può "descriverla" nei fenomeni della natura, così come nell'astrazione più assoluta.
E può farlo in tempi brevi: due o tre minuti per brani vivaci, da quattro a sei per quelli meditativi, a seconda della loro intensità drammatica. Tutto ciò corrisponde, di fatto, ai tempi stabiliti dall'esperienza della musica commerciale degli ultimi cent'anni, e dunque corrisponde anche alla capacità media di concentrazione su un oggetto musicale, per coloro che non siano abituati a manifestazioni musicali più complesse di una canzonetta.
Come il Recitativo d'Opera serve alla narrazione dei fatti e dell'intrigo, ma anche, e soprattutto, serve a rigenerare il desiderio di musica che l'Aria precedente sembrava già aver soddisfatto, ogni brano deve riversarsi senza interruzione nell'affabulazione verbale, dove la voce continui, raccolga l'esperienza puramente musicale, e la riversi in senso e immagini pronte a farsi desiderare espresse nuovamente in puri suoni e gesti astratti.
Per questo non fisserò un programma musicale preciso e dettagliato, ma mi costringerò ad improvvisare di volta in volta una nuova scelta di brani, scegliendole da un cumulo inerte di Sonate, pronte ad essere frammentate, frantumate, trasformate.
La musica del Barocco non solo tollera bene queste frammentazioni, o trasformazioni della sua struttura descrittiva, ma addirittura se ne compiace senza sosta, se ne alimenta accrescendo la sua complessità e molteplicità di significati e valori.
Ciò che io, come erede di tanta ricchezza musicale, devo impormi di rispettare, è soltanto l'agire sempre e solo nell'assoluto rispetto dell'estetica cui appartengono i brani che ho scelto a testimoniarla.

Captatio benevolentiæ.

«I could like, said my mother, to look through the keyhole out of curiosity -Call it by its right name, my dear, quoth my father- And look through the keyhole as long as you will»
(Laurence Sterne: "The Life and Opinions of Tristram Shandy...", vol. VIII, Londra 1761).

 

Se è vero che un pubblico di carcerati è per la maggior parte analfabeta e ignorante, incapace di reggere la concentrazione su un oggetto per più di pochi minuti, è vero pure che il carcerato ha molto più tempo disponibile per un qualsiasi oggetto che venga offerto alla sua attenzione; molto più tempo di quanto non sappia trovare in sé la maggior parte dei frequentatori di Festival o di ascolti discografici.
Quasi nessun libero fruitore di arte sa più come creare uno spazio vuoto nella sua mente, un luogo che sia sufficientemente ampio per farci entrare un evento, così com'era inteso nella cultura antica, o ancora del Romanticismo, o nei riti delle solennità religiose.
In carcere il tempo non credo sia molto diverso da quello del dormiveglia: nella rarefazione dei pensieri, gradualmente, impercettibilmente, prendono posto le immagini del sonno, e il sogno invade, inatteso, la mente e l'anima.
Forse ciò che a me basterà fare sarà proprio di instillare gocce dei miei sogni nei loro sogni.
Ma se suonassi musica conosciuta, o pronunciassi nomi famosi, ad ogni volta costruirei delle stanze nei loro pensieri, dentro a ognuna delle quali dovrei poter penetrare. Al contrario, generare in loro una curiosità, far sì che vogliano spiare dal buco della serratura, li guiderà nelle stanze della mia musica.
Suonerò solo composizioni di autori sconosciuti al grande pubblico, ma di ognuno racconterò storie, frammenti di vita, o di viaggi, di percorsi, di incontri.


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Ricerca di un sistema per una comunicazione profonda:
il linguaggio del corpo.

Parigi, 11 agosto, primo pomeriggio.

 

I.
S
tringi le loro mani, avvicinati senza mostrare sospetto o paura, accoglili come persone qualsiasi, raccogli il loro desiderio forte, lacerante, di "normalità"; fai come se avessi dimenticato, per un incontro, le loro realtà. Loro sono esseri che devono poter recuperare l'innocenza. Hanno diritto al pentimento e al cambiamento interiore.

II.
C
omincia lasciando che si seggano riunendosi secondo i loro raggruppamenti abituali, lontano dallo spazio che ti hanno destinato, poi avvicinati il più possibile a loro, con un gesto veloce, sicuro: vagli addosso come con un ampio abbraccio, espanditi verso di loro, e con lo stesso modo, inizia a raccontare una storia.

III.
A
ccendili: racconta con passione accesa, in prima persona, storie di uomini, di vite, di desideri; . Storie "vere", narrate perché ci si riconosca nei personaggi, perché si corrispondano le loro reazioni, le loro ragioni. Leggile nei loro volti quelle storie, nei loro sguardi. Fai in modo che i "dettagli" siano stati loro a suggerirli, solo con lo sguardo.

IV.
V
ioloncelli come strumenti della narrazione; oggetti antropomorfi e sensibili, preziosi perché viventi, palpitanti, con le loro voci di uomo e di donna, di adulto e di bambino, di colpa e di innocenza. Faglieli toccare, i violoncelli; portaglieli così vicini che ne possano sentire l'odore.

V.
A
sprezza: rendi la rappresentazione della discesa nell'orrore del crimine; fallo con la voce aspra della membrana di legno strappata alla sua staticità dalla violenza dell'arco, dal braccio teso che descrive col gesto lo spazio breve del respiro. Nei suoni gravi il suono dell'adulto, del suo senso di colpa. Nell'acuto la voce infantile dell'innocenza.

VI.
S
uoni gravi come la discesa nel profondo dell'intimo, nel segreto, nel ricordo doloroso e terribile. Voci sole che si sdoppiano, si allontanano e si riuniscono. Il peso del corpo, del sangue, della carne: faglielo percepire mentre gli risuonano le ossa e le cartilagini. Manda i suoni alle loro viscere, fai vibrare il loro stomaco.

VII.
L
eggerezza nelle risonanze di edifici armonici, nella consistenza vibrante, trasparente delle triadi maggiori e minori, nell'instabilità delle dissonanze, nell'appagamento delle loro risoluzioni. Fagli vibrare il collo e la gola, poi scivola via veloce negli armonici acuti, esegui i trilli, lasciali in sospeso, riprendili con bravura e scioltezza di rondine.

VIII.
E
ccita le frasi musicali come fossero immagini di vita, visioni su sfondi su cui traspaiano impressioni e ricordi. Gli accompagnamenti rimandino a uno spazio temporale, o lo annullino: l'insieme sia una musica drammatica, nella dinamica fra concitazione e abbandono, grida e sussurri, lacerazioni e carezze.

IX.
G
ioia: invitali ad immaginare i movimenti lenti e ritmici della culla. È una gondola sospinta serenamente sulla calma lagunare notturna: movimento di mano materna che ci carezza, ci dondola sospesi nel suo palmo; mano che comanda il ritmo segreto del nostro piacere più intenso, del senso di benessere più profondamente inscritto nel nostro corpo.

X.
A
more: solo nel corpo è possibile un contatto vero, fisico, con l'ineffabile, con l'eterno; è la visione dell'infinito moltiplicarsi dello spazio, percepita nel punto centrale -il più vicino, il più disponibile- della nostra coscienza. Ma vestiti d'un abito severo, del costume di un officiante.

 

 


Questa volta potrei intitolare il nostro concerto:
«LE VOYAGE D'ORPHÉE ET POLICHINELLE».


Il Largo, o "Siciliano", della V Sonata di Vivaldi:
sarà la gondola-culla, nel suo dondolare dolce sulla laguna notturna, sul movimento sognante, benefico del suo Basso continuo.
Andante Cantabile della Sonata XII op. I di Lanzetti:
mi permetterà di "descrivere", attraverso una sequenza di immagini, una scena pittorica, e di introdurre l'idea che una frase musicale contenga sempre il segreto di un messaggio criptico, o di una visione.
L'amore e la morte, l'incontro o la vicinanza di questi due estremi, sarà il tema iniziale.

descriz. pittorica: due amanti-lei è coricata sull'erba, all'ombra di un grande albero; lui sta per stendersi su di lei; lei gli tende la mano- sullo sfondo una valle con un fiume- scena di caccia-due suonatori di corno a un lato; cacciatori a cavallo nell'altro; muta di cani all'inseguimento-fuga e morte del cervo- gli amanti sembrano voler ignorare quella morte.

Barrière lo descrive nell'inizio della sua:
Sonata in Si bemolle, del libro II.
Pulcinella, poi, deve farsi beffe della morte, deve dimostrare la sua immortalità, la sua capacità di risorgere; anche al funerale si può ridere: basta guardarlo, come diceva il nostro amato Totò, «da un'angolazione diversa da quella del defunto».


Finale della Sonata I,op.V, di Lanzetti:
il funerale di Pulcinella terminerà in uno sberleffo alla morte stessa, al supremo potere sull'uomo.
Pulcinella vive e sopravvive sempre perché è maschera, e maschera è pure il mio violoncello, il mio strumento, la mia capacità di usarlo per esprimermi, la ragione stessa della sua tradizione e del segreto della sua conservazione e preservazione.


Attento però: «'Na maschera nun po' fà 'n'ata maschera», diceva Cajafa proprio di Totò.
Le composizioni dovranno rappresentare il "personaggio" del loro autore: se Lanzetti potrà essere Pulcinella (perché Pulcinella è personaggio popolare e nobile al tempo stesso), Barrière non sarà però Orfeo, per la semplice ragione che un mito così complesso e astratto non è di veloce comunicazione, come lo sono, invece, la fame e la povertà di Pulcinella.
Dunque anche Barrière vestirà la maschera di Pulcinella, poiché sarà proprio questo il suo desiderio: e sarà questo che lo porterà a Napoli per studiare il violoncello.
Due giovani musicisti: ovvero due uomini comuni, in cerca di una posizione sociale, di gloria e denaro, di benessere, sicurezze, approvazione. Il fallimento dei loro semplici sogni, paradossalmente, sarà la ragione della loro grandezza. Il sacrificio dello studio sarà la figura retorica della loro condizione di prigionia.

 


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Argumentum ad hominem.
Château de Pouy sur Vannes, 15 agosto, notte.


Nella Napoli del 1710, il Conservatorio è un luogo chiuso e terribile nel quale i bambini maschi sono costretti ad entrare per scelta e decisione dei genitori. Dal momento del loro ingresso saranno abbandonati dalla famiglia, che li visiterà solo più una volta l'anno.
Chi è fortunato studia il violino o l'oboe, chi lo è meno il violoncello e il contrabbasso, chi non lo è affatto studia canto, destinato -se promettente e disciplinato nello studio- ad essere castrato, privato perennemente della sua natura maschile, ai primi segni della pubertà.
Anche per Barrière la scelta della musica è stata imposta da un padre autoritario: per lui il figlio deve auspicare al successo sociale e alla ricchezza, e la musica, in certi luoghi e tempi, offre questa opportunità; non importa se è una cosa lontana, dura e difficile da realizzare.
Racconterò dei fallimenti, degli strani, simmetrici destini di questi due strumentisti-strumenti che viaggiano incrociandosi, ma senza incontrarsi mai su questa terra.
Cercherò di far capire che essi parlano attraverso quei messaggi scritti su pentagramma, quasi messaggi cifrati in un codice difficile e faticoso da svelare: la fatica del mio studio, dell'esercizio delle mie mani, del sacrificio della mia vita.
Li farò incontrare in un punto immaginario del tempo: in un sogno veneziano, in un tempo storico, eppure come sospeso. Lì la barcarola sarà il premio, il nettare di gioia e tenerezza del seno materno, l'allattamento-allettamento sublime, l'incontro con l'eterno, l'infinito, la coincidenza degli opposti.
Là potrò continuare solo cantando con la mia voce....

Se quel violoncello ha "cantato" finora, qui la voce trova il momento giusto per diventare musica: il "corpo" del violoncello non è più Cupido, l'incantatore -crudele, o dolce che sia stato-, ma il violoncellista stesso, che dimostra ora la sua dolorosa metamorfosi in strumento.
Canterò con voce grave, piena di dolore e rabbia, desiderio e sensualità disperata. Il linguaggio, la "parola" che ora irromperà, di colpo, nell'esperienza musicale, sarà aperto all'infinito significare grazie a una lingua lontana, una lingua che "somiglia ma non è", quindi significa oltre il suo testo.
Canterò in Yiddish, perché è la lingua che viene dalla prigionia del ghetto, della separazione; è la lingua dell' "incomprensione", perché è una lingua "straniera" anche per me.
«Voce che grida nel deserto», voce profetica e voce che non riesce a farsi ascoltare. Evocazione difficile: deve essere preparata da una "intenzione" di universalità, una professione di rispetto per le differenze di cultura e religione. Devo riuscire a non irritare il mussulmano mentre spiego al detenuto di colore che il Ghetto-blaster non c'entra niente con il mondo ebraico, se non per corrispondenza di 'emarginazione", e che "ebreo" non è uno degli insulti che si urlano allo stadio.
Dovrò costringermi ad esaltare anche in eccesso l'aspetto non-religioso di ciò che verrà enunciato, per poi essere pronunciato, nel canto: «Zogh ze, Rebbeniu!»

«Rabbino, rispondimi! Quando verrà il Messia?»: (credo sia questa la giusta traduzione...) domanda urlata, come nell'immaginario incontro col giudice che ci ha condannati. Non mi ricordo come prosegue la canzone yiddish tradizionale, ma in ogni caso canterò solo l'invocazione dell'incipit, e tutto il resto sarà affabulazione... farò rispondere: «Il Messia è già presente nella vita di tutti i giusti», come risposta dell'autorità, che subito apparirà lontana, diversa, inafferrabile. La musica risponderà sospesa alla sua ambiguità; la parola -già scomposta, frammentata, dissolta nella lingua sconosciuta- perderà gradualmente la sua forza, e l'esperienza musicale si manifesterà in tutta la sua energia.
Dopo sarà solo più il graduale ritorno alla normalità, il loro (nostro?...) ritorno alla cella, verso la paura dei momenti di solitudine e introspezione.
Sì, anche questi "concerti" dovranno continuare nel "giorno dopo", o, forse soprattutto, nella "notte dopo". Un altro maestro-guida dovrà accompagnare questo "rientro".
C'è bisogno che entri con forza in scena l'idea di comprensione, pietà, libertà.


È un rischio grande, che però bisogna accettare: Liberté, égalité. fraternité, proclama banalizzato dalle monetine dal mezzo Franco ai cinque, dalla rabbia dell'incarcerazione sotto quel marchio: massima sfida ai limiti della retorica del teatro-verità. Io rischio che quelle monetine me le tirino sulla testa, o me le facciano ingoiare tutte e millesettecentottantanove.


La Rivoluzione francese: la rivoluzione! I diritti dell'uomo: basta con le prigioni senza finestre, senza luce, solo pane e acqua. Il diritto alla presunzione d'innocenza, alla dignità di uomini civilizzati, all'igiene, alla salute, alla speranza e fiducia nel futuro. Ecco: la differenza fra propaganda e ideale, fra autorità repressiva e amore.
Il 1789 diventerà, nell'affabulazione, l'anno di composizione del Minuetto con Variazioni di Giovan Battista Cirri, altro sconosciuto. Anche lui aveva subito il sacrificio della sua infanzia nei Conservatori-prigione, ma in seguito aveva ricevuto il premio di quarant'anni di ben pagato servizio alla Corte reale inglese. Si era inchinato per tutta la vita di fronte all'arroganza della nobiltà privilegiata dal caso della nascita, e aveva infine accumulato quel piccolo gruzzoletto col quale si era fatto costruire una casetta per quella vecchiaia -rara fortuna in quell'epoca- che il destino gli aveva concesso di vivere.
...Mi crederanno?...

 

Prove di affabulazione.
Château de Pouy sur Vannes, 16 agosto; mattino.

«...L'aveva costruita presso i suoi luoghi natali, e certo era una casa dall'odore dolce del latte e dei seni di sua madre. Lui, in quel luogo, cercava il riposo, ma l'urgenza di scrivere, di ricordare, l'aveva preso e gli aveva negato il sonno.
Nota dopo nota, scrivendo con passione, vedeva comporsi la rappresentazione sonora del suo Paradiso, di quel luogo di assoluto piacere che lungo tutta la vita aveva cercato di sognare, aggiungendo o togliendo dettagli nuovi ogni notte, rubando ore al sonno per variare un poco questo o quel particolare piacevole.
Ora, quel Paradiso riusciva a vederlo con il senso del suono musicale, del senso che più aveva domato ed esercitato qui, sulla terra. Così era proprio qui, sulla terra, che gli sembrava già di visitarlo; o forse era il Paradiso a visitare lui, in premio di tutto il tempo che gli aveva dedicato sognandolo attentamente. Ecco allora che componeva tutte le melodie e i ritmi particolari di un certo giardino che aveva immaginato, o della speciale frescura dell'ombra di un certo albero, via via sempre più addentrandosi nel dettaglio del fiore, o della foglia, del colore, o dei profumi, provando e riprovando a variarli, combinarli in diversi modi, carezzandoli o lasciandosi carezzare, fino ai luoghi più segreti e più intensi del piacere.
E in ogni nota che scriveva c'era un poco di Lanzetti, e un poco di Barrière, perché loro, prima di lui, avevano indagato, scavato nella voce degli angeli e dei demoni; anch'essi avevano trovato, in quel grosso e difficile strumento che li rendeva fratelli, il sogno della bellezza, della libertà e della pace.
Lui, Giovambattista, aveva ricevuto molto, e ora voleva dare; per questo scriveva con cura di impreziosire ogni più piccola cosa: per far sì che si conservasse nel tempo, perché, dopo la sua morte, chi avesse letto quelle composizioni potesse desiderare ancora d'ascoltarle, di continuare a suonare il violoncello di Lanzetti, Barrière,
Giovambattista Cirri da Forlì, Maestro e Virtuoso di una grande e secolare tradizione.
E fu mentre scriveva che giunse la notizia: tutti quegli inchini pomposi, quei palazzi di sogno, sospesi al di sopra del mondo e della sua fatica, irraggiungibili dalla povertà, dalle sue tragedie, sarebbero stati aboliti: stava nascendo un mondo nuovo, rivoluzionato, libero, meraviglioso. Era il 1789. E Giovambattista sorrise, con la saggezza calma della sua vecchiaia.
Tornò allora al suo tavolino, e cominciò a comporre un Minuetto in cui non c'erano più né damerini imbellettati, né parrucche e profumi di pomate, né inchini cicisbei, ma dove, come nel ritmo sereno dell'incamminarsi tranquilli per una benefica passeggiata, come in una dolcissima, eppure solenne ascensione a un luogo di pace, finalmente tanti e diversi Pulcinella s'incrociavano salutandosi con sorrisi e sguardi silenziosi, e danzando la loro leggerezza, o la loro malinconia, o la follia benevola dei loro lazzi, salutavano la loro nuova speranza

C'è stato sempre un tempo in cui le parole avevano il sapore della verità. È quello il tempo che solo la musica conosce, cui solo la musica può ricondurre.
Solo pervaso di questo sapore potrò uscire di scena, o entrarvi: in nessun altro modo.


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Parigi 17 agosto, notte fonda.

Ho camminato su e giù per Pigalle per più di quattro ore. L'ho fatto perché un giorno, in quella zona, un uomo mi ha fermato per chiedermi qualche franco, e l'ha fatto dicendomi che era appena uscito di prigione, quindi non aveva né lavoro né soldi; ora avevo una buona ragione per ritrovarlo, parlare con lui, chiedergli consiglio, fargli giudicare il mio progetto. Non so se ho trovato lo stesso uomo, ma comunque ne ho trovati tre, e tutt'e tre avevano voglia di parlare, ancor più che di bere. O forse avevano solo voglia di essere ascoltati. Solo uno mi ha detto il suo nome: Marcel.
Io mi sono accorto di aver cercato quasi solo conferme a risposte che mi ero già dato da solo, e probabilmente non avevo neppure voglia di riceverne.

si entra nel porno-shop----indago sul linguaggio---
mi consegna il suo messaggio: «tu parla, canta, dì pure tutto quello che ti pare; tanto quello che conta è soltanto una cosa: sei sincero, oppure non lo sei. Non pensare che si possa fingere: in prison c'è una sola cosa sicura: chi finge non la dà a bere a nessuno. Ti si guarda negli occhi e ti si capisce: sei buono, o sei cattivo; te lo si può mettere in culo oppure no; ti piacciono le carezze oppure ti piace baciare; tutto si capisce solo dallo sguardo: non c'è bisogno di spiegare, di parlare, di dire un sacco di cose. ------la musica? Suonagli qualche cosa di triste; è bello, fa sognare.»--- l'altro non è d'accordo, ed è impegnato ad agitarsi al ritmo della musica d'ambiente, facendo smorfie alle prostitute del tavolo vicino. Commentano fra loro: «ma sei tutto scemo? (mais... t'es còn, toi?) se si mette a cantare roba triste lo mandano a cagare! non eri già abbastanza triste, tu, là dentro?» «sì, ma mi piaceva ascoltare canzoni tristi»- «perché sei stronzo. Dai, bevi e fatti più in qua. Dai, fighetta, toccaglielo un po' anche a lui, che gli piace il canto triste...»- «Scusalo, sai. È una cazzata quella che ha detto. Quando era dentro gli veniva sempre da piangere, e quando coso... come si chiamava... quello armeno... sì, Aznavour cantava per radio... ah, lui era sempre lì con l'orecchio appiccicato per sentirsela tutta. E quelle erano canzoni tristi, stronzo!»- «'frega'n cazzo. Senti che sound che c'è qui. Ehi, chansonnier! non mi dirai mica che ti dà noia star qui con questa musica, eh? Sentì senti, dài dai, òh-oh-ooh... questa è roba che ci dà dentro! Ma quando ci canti la bella canzone triste, poi te lo ciuccia più di gusto? O ti fai tre ore di preliminari a chiacchiere?»------ si esce---problemi d'uscita perché il padrone del locale vuole il pagamento di una bottiglia di champagne offerta e rifiutata almeno venti volte-----passeggiata lunga col Marcel----saluti ancora più lunghi, e auguri-----uno strano, profondo senso di amicizia---- Lezione finale di Marcel: «stai attento ai neri: sono peggio dei magrebini. È gente schifosa quella: tutti amici fra loro. Ti cagano in faccia, quei pezzi di merda. Si credono i padroni, qui. Io, gli ultimi tempi, ero alla "fouille", si fidavano di me, le guardie. Io gli controllavo le tasche e le mutande quando uscivano dal servizio in cucina: chi ti beccavamo sempre con qualcosa in tasca? erano sempre neri. Da' retta a me: non li avvicinare quelli. Appena ti distrai un secondo, zàc, e c'hai un coltello nelle chiappe: nessuno ha visto niente, nessuno si è accorto di niente. E tu è meglio che te ne stai zitto. A quelli non ci piace la musica, c'hanno la loro roba dei selvaggi: hu-hu bongo-bongo hu-hu; vai tranquillo: ci perdi solo tempo. Lasciali perdere.

Ciao. Grazie. Sei un tipo gentile. Proprio giusto. Dort bien.»


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2. Il ritorno

«Le monde de la musique est proche de celui de la repentance.»
Rabbi Moshé de Kobryn

ppunti dopo l'ultimo concerto. 30 agosto, Parigi; tarda sera.

Torno ora al mio computer con tutte le mie annotazioni; in tutti questi giorni erano presenti solo nella mia memoria. Ho guidato tutto il pomeriggio, quasi senza fermate. Mi rendo conto solo ora di quanto sono stanco.
Esco con plusieurs regrets da questa esperienza coinvolgente fino alla follia, e già mi manca, così come mi è mancata follemente in quell'unico giorno d'interruzione, di "vacanza" non voluta, non chiesta, non desiderata.
LE JUGEMENT DES JUGÉS: così voglio chiamare i prossimi concerts pour les pénitentiaires.
...Pénis-pénitence-pénitentiaire
: è nel dizionario francese, così: una parola dopo l'altra...
Croci sempre capovolte, voci perdute: rétrouver sa voix - idée de Didier, perché lavora nella maison d'arrêt, e si scusa continuamente per il suo tono di voce basso e sommesso, abitudine che ha preso negli spazi troppo ristretti delle celle.
Sesso obbligato, per avere un corpo. Mani che sanno, odorano di masturbazioni disperate, dolorose.
Bisogno intenso di innocenza. Non vogliono un passato da rimediare, non un futuro incerto: essere, e subito, in eterno, migliori.
La parola libertà l'ho pronunciata mille fois: con rabbia, e poi con gloria e dolcezza estrema.
Come un cerchio chiuso, un vertiginoso girare su me stesso,
PÉNITENTIAIRE PÉNETRER PÉNINSULE PÉNIS PÉNITENCE PÉNITENCIAIRE PÉNITENTIAIRE. È un Rondò diabolico... insopportabile... ma lo sento, lo ascolto interrompersi su: PAN.
Pan il dio, Pan il
tutto, Pan il doppio, Pan il doppio di tutto. Il suo è un tempio rotondo: sul tetto un altare barocco, e polvere scura, grassa, che nessun vento può soffiar via; e poi, lì intorno, PANIS: pani secchi, fallici, gettati ovunque; odore forte, animale; preservativi usati e raccolti, con ordine e precisione, in tondi barattoli di latta; luce che scende da tonde cupole di chiese senza dio; luce senza corpo, senza direzione; spazi troppo brevi, sempre rimbombi di voci, di grida. Dio, come sono stanco!
Continuo a ricordarmi di un solo momento di rilassamento, di humour, per un detenuto "colto" che mi regala queste parole: «merda, mi toccava finire in prigione per ascoltare della musica così bella!» . Il resto è stato l'intensità lacerante delle strette di mano, degli sguardi, delle lacrime, dei gesti imbarazzati di commossa gratitudine, o di grandissima, violenta emozione.
Al di là di tutto questo, il mio è stato anche il linguaggio del sudore che scende dalla fronte, della fatica, del sacrificio; e adesso sono prosciugato, secco, morto, kaputt...
Sì, il violoncello comunica di più perché è un "altro" corpo, sensuale, persino erotico; tragico, ma anche leggero: come
"l'uccello che s'invola libero nei cieli". Tutti e sette. O forse nove, come questi concerti...

 

Il sogno ricorrente.

«Farai nell'Arca dei ponti inferiori, medi e superiori.»
Esodo 6:16

«Venezia, 7 settembre; mattino.
Chère Julie,
...D'aprés une semaine de Venise j'ai encore des rêves dans lesquels je suis devant à les portes des cellules, j'attends les détenus, j'ouvre les fénêtres dans des chambres sans aire, je les attends sans fin. Il y a toujour des pains secs abandonnés partout, et une terrible soif ne peut pas être satisfaite car il n'y a pas des robinets ou des bouteilles bouvables: toute eau est pourrie, les bouteilles remplies des insectes, et mégot, et cendres des sigarettes. Toujour, à un certain moment, de l'hauteur d'une structure absurde placée au centre d'un tunnel plein des portes couleur gris, un prêtre commence une Messe sinistre et diabolique; il a l'aire laid de cet aumônier de Rennes, connu le dernière jour. Les prisonniers n'arrivent jamais; l'attente est fatiguante, d'immense tristesse. Je suis toujour seul: tu es partie pour faire un voyage toute seule à la campagne, parce que tu es fatigué et t'as besoin de rester tranquille; je l'apprend par des messages écrites parmis les partitions. Mais mes partitions ne sont pas complétes: seulement une page sans l'autre, et des feuilles blancs, ou encore des fragments des parties d'orchestre. Parfois j'ai la voiture, et je rentre dans la prison comme dans un grand garage souterrain; dans la voiture j'écoute une musique fragmentée, très triste, et sur le siège d'arrière il y a un chien mort. Tout est désolé, le ciel est gris au délà de la fenêtre, et les guardiens sont des hommes sans visage qui s'enfuient tout le temp, avec une vitesse impressionante. Je cherche toujour l'orgue de mon prémièr rêve, a Coutances, aprés l'horreur de la Maison d'arrêt d'Angers, et j'arrive à le trouver dans les lieux plus absurdes, même dans mon violoncelle: parmi la touche et la table je trouve des petit tiroirs jamais remarqués, qui s'ouvrent et montrent des petits claviers. Je joue toujour une fugue dans laquelle les voix se multiplient sans cesse, et j'ai l'impression de voir les anges qui tournent autour de moi. Les prisonniers n'arrivent pas, mais je commence à voir des âmes, ou mieux des fantômes, qui arrivent de partout et dansent dans un silence atroce autour de moi. Je chante, alors, et les larmes guérissent la soif. Toujour, je chante à plein voix la prière: "Chémà Israël, Adonài elohénu...", 'écoute, Israël'; et le nom "Israël" résonne dans les couloirs, forme des harmonies d'une infinite pitié. Les portes et le ciel, finalement, s'ouvrent...»


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Suonare il violoncello, per trovarci una ragione.

 

Appunti scritti a mano durante i viaggi.

 

"En chaque homme, tu trouveras un point positif,
même chez ceux qui t'apparaîtront comme les pires mécréants.
Inlassablement, généreusement, cherche, récolte, écoute...
Ce sont des notes de musique.
Danse.
Frappe les mains.
Fais surgir la mélodie!
Ecris le chant joieux de la guérison, le chant précieux de la délivrance.
Ainsi tu te souviendras de ton futur..."
Rabbi Nahman de Braslav.
(**)


L'atto eroico.

Caen, 18 agosto, sera tardi.
Ho suonato nel nostro primo concerto----tre giovani, con quello di colore al fondo------enorme sala polivalente: cappella/palestra/sala attività culturali; tutta di legno con gli affreschi fatti da un detenuto--grottesche celle d'isolamento per seguire la messa--tre donne in servizio per le attività culturali----25 presenti-36 iscritti--- mi spiegano:«se le guardie non hanno voglia di fare il giro di raccolta, li lasciano chiusi in cella. Poi ti dicono: "sono passato, non aveva ancora neanche addosso le scarpe: io non posso mica aspettare i suoi comodi: passo, li chiamo, ho dieci secondi a disposizione: se c'è c'è, se no se ne sta in cella", e così cosa vuoi rispondere?...» ----rimbombi di martellate ovunque, come follemente amplificati da invisibili impianti da musica rock.... sono solo operai per i lavori in corso: rinnovano alcune celle--- paura, sgomento, disperato senso di terrore: così raggiungo la piccola sala del concerto.

Non ci si può più ritrarre dietro una tecnica -più o meno "densa" o complessa, più o meno ricca di tradizione- per giungere a una comunicazione assoluta. Il "darsi" attraverso una capacità acquisita con lo studio, l'applicazione, l'esperienza, riesce ad avvicinare lo scopo della comunicazione solo per quei percorsi preliminari che suppongono uno "stupore", una "meraviglia" da parte di un pubblico in grado di riconoscere l'oggetto di cui noi, ad arte, rappresentiamo la differenza o la variazione.
Paul Klee ci indicava nella pittura un'arte «che non mostra le cose, ma che le rende visibili»., e la riflessione di Carmelo Bene, per cui «non si può più dare opera d'arte: non ci resta che essere opera d'arte», mostra infine una nuova concezione dell'artista, come "attore" che, completata la sua crescita spirituale, non si annulla più "dietro" le dramatis personæ, ma al di là anche di personaggio e narrazione, resta solo più il puro, assoluto Attore: ovvero l'artefice dell'actus retoricus.
Ciò che ne deriva è l'apprendimento di una "teoria" in senso greco, ovvero di "osservazione" delle cose, e in questa condizione l'arte ha possibilità d'uso immediate, infinite capacità di intreccio, di penetrazione, e, soprattutto, straordinaria flessibilità.
Agile, nel senso di estremamente veloce, l'artista torna ad essere eroe. L'oggetto dell'arte, come per transustanziazione, diviene l'artista stesso, centro assoluto di ogni gesto comunicativo.


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3. L'attesa e l'evento.

Saint-Brieuc, 19 agosto, notte.
Concerto con la presenza dell'addetto alle attività culturali carcerarie---un solo iscritto---- c'è l'obbligo, per legge, di consegnare alla direzione una richiesta scritta di utilizzo dell'ora d'aria per "attività ludiche o culturali occasionali"----L'addetto non si dispera: ha rinunciato ai tre ultimi giorni delle sue vacanze estive per essere lì con noi oggi; fa lui il giro delle cellecon una sola guardia, e porta 24 detenuti (cinque analfabeti, che non potevano scrivere alcuna richiesta di pìartecipazione....)---ho di fronte a me un prete cattolico: un pedofilo omicida--in fondo alla sala: una specie di gigante con le mani sudate sempre in tasca---un tipo simpatico dentro per furto, per la terza volta, che spiega che la televisione è la rovina della gente incarcerata (ha proposto di far istituire una cella senza tv)---concerto relativamente leggero---attenzione formidabile---

La prigione è potenzialmente un luogo privilegiato per la comunicazione delle arti.
Perché mi accade di osservare, di percepire questo?
Certamente perché la prigione è il luogo dell'attesa, della sospensione dei ritmi abituali della vita sociale. L'ordine quotidiano delle cose, nella vita di ogni individuo moderno e civilizzato, non lascia quasi mai sufficiente spazio alla percezione dell'altro, del suo messaggio. L'uomo è imprigionato in se stesso e nei desideri che il vivere comune gli consegna quotidianamente, ovvero il suo comune desiderio di potere e possesso del suo destino; l'interruzione di tutto ciò, il sottomettersi temporaneamente a un'altra autorità più o meno "visibile", cambia radicalmente la sua condizione. Dunque l'artista non può "penetrare" l'individuo se non attraverso ciò che tale individuo già conosce, e che non sospetta poter essere causa di disagio o di caos nella sua esistenza.
Nella prigione, l'artista trova esseri disponibili, fermi, sospesi su un possibile cambiamento, su una rivoluzione probabile, persino auspicata, spesso, della sua esistenza. In breve, l'artista trova il suo pubblico ideale, poiché esso attende la sua venuta, o il suo evento. Tuttavia, in una prigione bisogna prima di tutto essere in grado di entrare, o meglio di penetrare.

 

PENA - PENITENZIARIO - PENETRAZIONE - PENISOLA - PENE - PENITENZA - PENITENZIARIO - PENA.

 

«...Et alhora Marsia fo vento: et fo data contra lui la sententia. Alhora Apollo havendo cussì vento chiamò Marsia e disse "vien qui". Disse Marsia "che vuoi tu fare?" Disse Apollo "io ti voglio scorticare". Et cominciolo a scorticare. Marsia cominciò a gridare ma non potè tanto gridar che gli giovasse: onde Apollo lo scorticò: e lo sangue andò in terra e tuto si convertì in aqua tanto che gli si vedeano le budelle et si cominciò uno fiume: el qual per lo nome di costui fo chiamato Marsia...»


Ovidio metamorphoseos volgare, Cap. LX, Venezia 1497 e 1501.

Angers, 20 agosto, mattino presto.

La penisola, come protuberanza verso le acque, come figura dello slancio verso l'elemento liquido e il suo mistero -dunque la sua "mistica"- è anche figura della penetrazione dell'elemento ordinato nell'elemento caotico. Apollo che, spellato Marsia, osserva il sangue rigettato dalla terra unirsi alle lacrime delle Muse e degli esseri tellurici, e che si tramuta in fiume per correre a riversarsi in mare, è anche la metafora della Ratio che si misura con l'emozione (umori risucchiati verso il basso, in caduta libera verso la caotica dispersione nell'elemento primario della vita), e dunque con l'irrazionale. Nel sangue di Marsia che penetra nel terreno c'è quindi l'idea della penetrazione fallica, dell'inseminazione, e quel rigetto è il parto della terra e la nascita di una nuova idea dell'arte: quella che non produce oggetti desiderabili (la cornamusa di Pallade Atena, oggetto rigonfio d'aria putrida, carcassa animale in decomposizione, simbolo di vanità mondana e di effimera illusione di bellezza) ma energia assoluta, inarrestabile, eterna, di movimento, di com-mozione. Quel fiume (ovvero il liquido vitale, il sangue dell'eroe misto alle lacrime degli esseri mortali e delle essenze creative della loro intelligenza, le Muse), come una penisola, è commozione che si muove verso il mare, e in questo modo l'elemento acqueo e quello terreste comunicano. La penetrazione è qui un atto d'amore complesso e profondo, che infatti comporta la necessità della metamorfosi, dell'abbandono -doloroso e senza ritorno- di un corpo che ci è stato dato, per divenire a un altro. Ecco allora l'arte come il fiume: sul limite della complessità abissale delle cose, è il luogo dell'immersione nell'infinito cambiamento: l'acqua in cui mi immergo non è mai la stessa; essa solamente appare come simile; «Noi entriamo e noi non entriamo negli stessi fiumi; dunque noi siamo e noi non siamo»: così ci dice Eraclito (**).
Restando nel dominio dell'illusione, la penisola è una "quasi-isola" (in latino pæne, quasi, e insula, isola), o, appunto, l'illusione, l'apparenza di un'isola. Ecco allora che questo luogo acquista d'un colpo tutta la sua ambiguità: esso rappresenta un movimento d'invasione verso qualcosa, o l'invadenza di qualcosa sopra uno spazio che riteniamo appartenere al nostro necessario dominio percettivo? E' dinamico, oppure immobilizzato nei suoi confini?
Esso è, così come non è, in conseguenza dello stato per cui noi siamo, eppure non siamo, la nostra realtà dipendendo infatti dalla coscienza che ci è concessa dai diversi aspetti e condizioni della percezione. Una pena, pertanto, è nel contempo, sia poena -latino per sofferenza, punizione-, che pænitentia, derivato di pænitere, pentirsi. Continuando a variare il suono della vocale e, ci si può addentrare molto (mi si perdoni l'incalzante gioco di parole, ma nessuna parola è innocente), con penitus, "molto addentro", da cui deriva quel penetrare latino, tanto prossimo a penis, che è il pene, o la coda, e che può essere pendulo (pendulus) o penetrativo, passivo o attivo, ritratto o proteso. Cos'è dunque il pene in un penitenziario?
Non è certo solo nell'etimo la comunicazione fra le parole, quando le parole sono in condizione di essere, in assoluto, dei segni.
La pena, la penitenza o la punizione, all'interno di questa "quasi-isola" che è l'istituto penitenziario, la prigione chiamata casa di detenzione o casa d'arresto, colpisce soprattutto nella notte, nella solitudine così come nella promiscuità; il sesso maschile ne è il protagonista, tanto fra gli uomini quanto fra le donne, con surrogati di sesso d'inimmaginabile energia e violenza. In questi luoghi dove la pena insiste sulla privazione del piacere, e quindi soprattutto della soddisfazione sessuale, come somma penitenza, come violenza edificante, santificante sul corpo animale, nella realtà dell'incarceramento, dove tutto cambia secondo il progresso della società, della cultura umanitaria, meno che in questa punizione corporale, contro natura, in questi luoghi la sessualità, ridotta a produzione ossessiva, ritmata, ininterrotta di orgasmi genitali, è la centralità dell'esistenza fra i detenuti in cella.
«Quod omne animal post coitum est triste» faceva dire ad Aristotele la paradossale lucidità di Laurence
Sterne (**). E la moltiplicazione di quella tristezza è l'atmosfera stessa di una qualsiasi incarcerazione. L'alternanza quasi meccanica di "svuotamento" e "ricaricamento" -nella sua corrispondenza alla dialettica di assenza-presenza- acquista col tempo un che di automatico, se non addirittura di rituale, poiché la ritualità aiuta a ridurre la percezione del passare del tempo, dello scorrere del "fiume" dei giorni, normalmente percepito solo più nelle dimensioni del periodo stabilito di detenzione.
«Dopo cinque anni il dolore dell'incarcerazione non si sente più, e si cessa di essere depressi»: questa frase, detta da un condannato a venticinque anni di pena, corrisponde a una convinzione comune nell'ambiente carcerario, sia fra i detenuti che fra il personale di sorveglianza o nell'ambiente direttivo. Pena addolcita da una quasi caritatevole anestesia emotiva? Ad ogni occasione di ascoltarla ho scavalcato ogni prudenza dialettica, per mettere crudelmente a nudo la visione più dura della privazione della libertà: il dolore mostrava solo di essere molto più profondo e molto più denso. Non c'era stata alcuna "eutanasia" di quel corpo che prima era libero di seguire le sue intenzioni; quel corpo è ancora sempre lo stesso, sebbene ognuno risponda con un "io ero" alla richiesta di raccontare del lavoro che faceva, delle sue passioni, dei suoi interessi.
Qualcosa, certamente, è sempre morta e non sepolta nel profondo di colui che sconta una condanna nella pena di una cella, ma non è nel suo corpo: è, forse, in una penisola della sua coscienza, o della sua anima, protuberanza malintesa del suo essere.
Essi sono: in attesa di una liberazione. In effetti: di una qualsiasi liberazione. Essi sono il solo pubblico che abbia veramente, profondamente, la capacità e il bisogno di incontrare gli ideali più antichi, e più alti, dell'arte. E forse quello delle prigioni, dei giudicati, è l'unico pubblico realmente in grado di riconoscerli, additarli, mostrarne il valore e la ragion d'essere. E quindi di giudicarli.

 

Angers, 20 agosto, sera tardi.
dopo concerto esperienza folle---altissima----stanza piccola---svuotamento ---non ce la faccio più a parlare con nessuno---

 


inizio *** 1.La preparazione *** 2. Il ritorno *** 3. L'attesa e l'evento ***
4. Libertà-prigionìa, leggerezza-gravità:
la "
Maison d'arrêt" di Angers.

«Perché questi precetti che io ti comando oggi non sono una cosa straordinaria oltre le tue forze né sono cosa lontana da te; non è nel cielo, sì che tu debba dire "Chi salirà per noi fino al cielo per prendercela e ce la farà ascoltare sì che possiamo porla in atto?". E neppure è al di là del mare, sì che tu debba dire: "Chi passerà per noi al di là del mare per prendercela e ce la farà udire sì che noi possiamo metterla in atto?". Questa cosa ti è invece molto vicina; è nella tua bocca; è nel tuo cuore perché tu possa eseguirla.»
(Deuteronomio 30: 11-14; trad. di Dario Disegni)

«Les mots ne sont pas que des outils de désignation qui ne donnent accès qu'aux choses; ils sont aussi la vie des choses et notre vie dans les choses, si nous savons entendre les vibrations de la vie qui traversent la matière.»
(M. A. Ouaknin, «Concerto...», Jerusalem, 1991)

claudio ronco, Venezia, 1 ottobre 1998.

Sviluppare delle dicotomie, o muoversi attraverso degli opposti, è proprio di qualsiasi linguaggio che voglia essere "teatralmente" efficace, poiché permette maggior velocità ai veicoli del messaggio. Ci si sposta con altrettanta velocità e facilità da una realtà a un'altra, coordinando i tratti di un percorso a volte puramente emozionale, e altre razionale e narrativo.
In carcere, le parole 'libertà e prigionia' sono troppo "pesanti", e per questo ne è sconsigliato l'uso da parte di coloro che lavorano quotidianamente con i reclusi, per assicurare una comunicazione tranquilla, al sicuro da difficoltà, equivoci, problemi di controllo dell'equilibrio o della fluidità di un discorso. Per questo, la parola 'libertà' doveva essere usata cercandovi tutta la sua energia creatrice, tutta la sua vitalità.
La "Maison d'arrêt" di Angers è un edificio progettato e costruito alla fine del secolo scorso. Era una prigione per lunghe pene, e una ghigliottina veniva montata nel cortile per le esecuzioni capitali.
Ha una pianta a croce, come le grandi Chiese o le Cattedrali. Entrando, così come succede in tutte le prigioni, si incontra la gabbia delle guardie; questa è rotonda, costruita in ferro e vetro, ma è decorata con quattro croci messe di fronte all'ingresso e ai tre colossali ambienti di reclusione. Sono croci piuttosto grandi, ma non sono decorate: scarne, essenziali, si notano e si dimenticano subito. L'occhio viene attratto dalla cupola che sovrasta il gabbiotto di controllo: è a base tonda, molto ampia, e lascia cadere la luce da quattro finestroni ovali e da una lanterna ottagonale.
Lungo tutta la circonferenza della base si leggono frasi di Isaia e di San Paolo, inviti al pentimento, alla speranza. Sono scritte con grandi caratteri cubitali in rilievo, e alcune lettere sono parzialmente cadute, creando così dei grotteschi inciampi alla lettura.
Solo quando si è saliti nelle lunghe balconate d'accesso alle celle si può vedere il tetto di quel gabbiotto delle guardie, e su quel tetto c'è un oggetto inquietante: un pomposo altare di chiesa in legno stuccato e dipinto, di stile barocco, marmoreggiato in verde acqua. È posto quasi al centro, rivolto verso le tre ali di detenzione; s'intravede la botola dalla quale l'officiante saliva per svolgere il rituale, in quello spazio circolare "circonfuso" nel chiarore diffuso dalla cupola, ben maggiore della luminosità distribuita nelle gallerie dai grandi lucernari oblunghi. Quel cerchio sacro è difeso solo da una sottile ringhiera di ferro che corre lungo tutta la sua circonferenza esterna, senza interruzione, e sembra un'onda vibrante, l'inizio di un suono profondo e terribile che invaderà tutto l'ambiente.
È quella circonferenza metallica che sembra espandersi nelle scritte sulla base della cupola, e che continua girando nella sfera immaginaria che l'occhio traccia tutt'intorno a quel rotondo edificio centrale.
Lo sguardo che si muova seguendo le due linee della croce che decora la sua sommità, ha l'impressione di veder moltiplicati i cerchi di ferro che la contornano e sembrano indicarne l'espansione in quello spazio. Poi la sfera immaginaria che emana da quel centro s'allunga, per riempire la cupola, ed è un gigantesco uovo, che si spinge verso l'alto, là, verso quella suprema uscita dov'è il lucernario sospeso, e dove può essere -si intuisce- l'unica vista rivolta al mondo esterno, allo sguardo orizzontale sulla vita e sui cambiamenti del mondo.
Tutto l'ambiente ha il colore giallastro e macchiato della pelle di un morto: è una visione insopportabile, dolorosa. Anche l'aria sembra incarcerata e morta, perché anche l'aria sembra avere quel colore. Poi c'è il colore della polvere: nerastra, grassa, pesante. Polvere che copre tutto senza idea di pietà: lungo le scale, sui muri, là dove la mano può toccare e raggiungerla; è come spalmata sulle superfici, in larghe chiazze lucide, segnate da graffiature complesse, quasi graffiti senza senso né direzione apparente.
Quasi come se ogni uomo là dentro cercasse di fondere se stesso a quell'elemento, la polvere si confonde col grasso della pelle di ogni detenuto che sale e scende quelle scale, che percorre velocemente, silenziosamente quei ballatoi; la pelle nuda delle mani, delle braccia, delle schiene, del torso: tutte si strofinano su quelle superfici, come sapendo che esse sono la pelle del "corpo" di quell'edificio, e quell'edificio è parte del loro corpo, perché li ha trasformati, li ha inglobati e digeriti. Sì, ogni passaggio -scala o ballatoio- è troppo stretto per due persone; l'aria non circola e non si ricambia nell'immenso ambiente interno, e l'impressione di caldo-umido e di soffocamento è atroce -mi hanno detto- anche d'inverno. Questo fa sì che ogni uomo che ne incrocia un altro si sfrega contro i muri perché i passaggi sono stretti, e ogni detenuto che si muova in quegli ambienti preferisce farlo a torso nudo perché sente sollievo dal senso di caldo soffocante; è semplicemente naturale.
O è previsto? Ognuno si sfrega, e lascia il suo odore. Che bisogno c'è di questa "comunione" con l'ambiente? Ognuno consegna un poco di sé a quei muri, in modo quasi "erotico", e quei muri fanno pensare alla pelle livida, puzzolente, orribile, del Leviatano.

L'architettura della penitenza.

I detenuti si muovono in fretta: è certamente l'ordine carcerario che impone quella celerità, e anche, forse, lo squallore dell'ambiente. Grandi, immense reti di corda sono tese ai ballatoi, così da coprire l'intera area delle gallerie.
Servono ad impedire fughe saltando i cinque metri d'altezza dal suolo? O ad impedire suicidi o omicidi? Esse somigliano a reti da pesca. San Pietro era pescatore. Pietro fu crocifisso a testa in basso, per pietà, perché in quel modo si perde coscienza molto presto e si allevia la sofferenza della morte per soffocamento causata dalla croce.
Chi entra in una Cattedrale entra dai piedi della croce del Cristo, e muove verso la testa, là dov'è il Santissimo Sacramento. Chi entra in un carcere entra dalla testa della croce, perché è necessario entrare per un'area di controllo, e questa è sempre collegata all'edificio degli ambienti amministrativi e direttivi, che sono inevitabilmente l'ala più piccola, e quindi più corta dell'insieme.
Tuttavia, chi entra in quel carcere entra in una croce, e vi entra dalla testa, entrando nel corpo di un crocifisso a testa in giù, come l'apostolo pescatore Pietro, o come Paolo. Quella rete sospesa nell'aria raccoglie, contiene, imprigiona l'insopportabile peso di peccati, orrori, tragedie, disperazione. Sono i pescatori d'anime che hanno progettato tutto questo?
Ho cercato di immaginare quelle messe domenicali: ogni porta di cella si apre in direzione dell'altare; mi hanno detto che venivano bloccate da una catena speciale, e il detenuto assisteva alla messa dai dieci, quindici centimetri dell'apertura, così da non poter né vedere gli altri carcerati, né poter inviare gesti o sguardi ad altre celle.
A quei tempi ogni cella "conteneva" un solo detenuto; il sacerdote vedeva lunghissime, sconcertanti fughe di sguardi costretti in quelle sottili aperture. Quell'umanità disperata, tragica, agli occhi dell'officiante si presentava solo in quella fuga prospettica di immagini ritagliate nei muri; uomini, individui, sguardi, come "disegnati" dentro a riquadri sproporzionatamente stretti e lunghi, che schiacciavano, riducevano tutte le figure a una regolare, simmetrica unità.
All'espansione del rito sacro pensava l'acustica perfetta di quella struttura architettonica ideata con intelligenza formidabile, capace di dosare e miscelare ad arte i riverberi sonori di quella gigantesca croce. Come in una superba Cattedrale costruita alla rovescia: ma per colui che entra, non per chi si trova al suo interno, inglobato, digerito nel suo ventre.
Quella luce livida, diffusa, che cade dal soffitto; quel cielo che si percepisce come "morto" al di là dei grandi vetri sospesi ad altezze irraggiungibili, è la stessa luce diffusa che illumina le pinacoteche. Allineati lungo le pareti, là i quadri, la selezione e l'ordinamento della bellezza dei dipinti; qui le porte grigie e pesanti delle celle, ognuna con il buco rotondo dello spioncino, chiuso da un ferro ritagliato a forma e misura, saldato a un cardine annerito dai lubrificanti. Alza quel disco e vedi un uomo rinchiuso: l'opera d'arte di Dio, deformata dalla lente ad occhio di pesce, che serve a vedere ogni angolo di quel luogo senza dimensioni; il Leviatano è ancora lì, dietro di te, che spia ogni mutamento della tua anima.

Danse macabre.

Su quella piattaforma sacra, ad Angers, non c'è solo polvere spessa e nerastra. O meglio, quella polvere non copre solo uno spazio vuoto con una botola e un altare, ma si è posata anche su dei lunghi pani, delle grosse baguettes francesi, spezzate da un lato, gettati disordinatamente su tutta la sua superficie. Somigliano ad offerte votive, ma con la loro forma allungata e il loro colore beige che la distanza fa confondere con il rosa-carne, sembrano simboli fallici sparsi nello spazio sacrale di un'orgia pagana. Come gettati sul fondo di un pozzo magico, in un rituale di fecondazione, o di fecondità.
Desolante forse ancor più di quei pani-peni, un morbido cuscino azzurro è incastrato in uno dei margini, fra il pavimento e il corrimano in ferro; anch'esso è coperto dalla polvere di anni, e richiama l'idea di conforto, riposo, tenerezza, gettata e sacrificata nel fuoco di quell'atroce inferno senza silenzi, senza pace; invita ad immaginare il gesto rabbioso di colui che l'ha scagliato mentre gli altri scagliavano i loro pani; gesto drammatico, per zittire, annullare grida troppo terribili per le orecchie. 'Oreiller' è il suo nome in francese.
Ma se quel cuscino è anche l'unico oggetto soffice e accogliente che la cella può offrire, l'unico oggetto in cui affondare il proprio volto per ritrovare piacere -o ricordare il piacere-, da abbracciare e stringere a sé, come l'orsacchiotto per il bambino, o ancora come l'unico oggetto in cui affondare il proprio membro maschile per soddisfarlo con un surrogato di donna, quando la masturbazione, il contatto con la propria mano, è diventata angosciosa, insopportabile, inefficace... ecco allora che l'orecchiere su quella piattaforma rituale moltiplica i suoi significati in modo vertiginoso, e su quello spiazzo rotondo si assiste a un sabba, o a una danza primordiale, nell'intreccio di movimenti e ritmi formato dalle varie direzioni indicate dai pani, dalla loro disposizione casuale-causale intorno a un altare di chiesa e un 'oreiller' divenuto feticcio di corpo femminile.
È nel ruotare ipnotico di quelle linee immaginarie sul piano circolare in cui sono disposte che si sviluppa la danza, per essere subito cristallizzata nella fissità di quegli oggetti coperti dal manto di polvere: come una nebbia oscurante la vista della realtà, quel "velo" ne favorisce l'osservazione degli aspetti più segreti, criptati nei segni.
Sono dunque entrato in un Tempio mostruoso?
Forse il penitenziario di Angers è veramente la metafora del Tempio cristiano; "metafora" nel suo puro senso etimologico, quello di: "portare al di là...".
Per un filosofo come Thomas Hobbes, il Leviatano diventa il simbolo dell'onnipotenza dello Stato di fronte
all'individuo (**); per Giona entrare in un gigantesco pesce è il pentimento e l'inizio del percorso veritiero verso Dio onnipotente. Benveniste osserva che «la potenza dell'atto sacrale risiede precisamente nella congiunzione del mito che enuncia una storia e del rito che la riproduce»(**), ma in questa definizione si mostra solo l'atto sacro inscritto in una realtà che non può essere rivolta ad altro che a un passato storico.
Luogo di punizione, ma ancor più di penitenza, nascosto sempre da mura alte e impenetrabili dall'esterno, ancor più che invalicabili dall'interno, l'immagine che il carcere di Angers imprime di sé è di qualcosa di nascosto e sotterraneo, anzi sott'acqueo.
Tutto rimanda alla percezione di qualcosa di "marino" e "sottomarino": le dimensioni delle navate, le reti, la luce, la densità dell'aria, il ferro delle sbarre, delle grate, delle porte, il risonare delle voci e dei rumori. Anche visto da fuori, l'edificio di questo, come di un qualsiasi altro penitenziario, ha l'imponenza e lo slancio di una immensa nave, e si ha l'idea, ben presto, dell'Arca.
E forse proprio dell'arca come oggetto sacrale, o "arcano": arcanus, "luogo chiuso", che contiene, o che trasporta.

Ils sont coupables.

Torno con l'immaginazione su quella piattaforma rotonda, davanti all'altare, addetto al rito di spezzare dei pani-corpo di Dio per il popolo dei colpevoli, dei "coupables", e mi accorgo che in francese quella parola si avvicina in modo impressionante all'idea di tagliare, couper, e che quella parola li dice già recisi dal mondo, divisi ineluttabilmente in un prima e in un durante nel quale è compressa e imprigionata l'idea stessa di un dopo.
Divido i pani, e ricordo che panis ha la stessa radice di pascere e di pastore: 'pas', 'nutrire'. Io, Pastore di Dio, pascolo il mio gregge, ovvero nutro le mie pecore, i miei peccatori chiusi nelle loro celle. Io nutro le loro anime con un pane che essi rigettano; presto quella piattaforma sarà abbandonata.
«È monumento storico; non si usa più da anni», mi dirà una guardia, con aria indifferente; «Dio è morto», ci aveva detto Nietzsche, e il mondo lo ripete, in un balletto indifferente.
Ma qual è il Dio che è morto?
A tutti gli effetti, è proprio quello che spezzava e offriva i pani transustanziati nel suo corpo, quello la cui morte in croce rappresentava la speranza di resurrezione della carne, attraverso la preservazione del racconto-mito e dell'atto retorico-rito nel teatro di una cristianità vincente sui popoli del mondo. Quando il mondo si è riempito di arabi, magrebini, africani, in cerca di donne belle, magre e bionde, di automobili costose, di vestiti luccicanti di voluttà, i penitenziari si sono riempiti di trafficanti di droga, di rapinatori senza scrupoli, di violentatori di donne o bambini, che nell'immagine di Cristo riconoscono solo il rappresentante del mondo che li ha traditi: tragicamente ridicolo, così appeso a quella croce appena sporcata della vernice rossa che imita il sangue.
L'assassino conosce bene lo "spessore", la densità del sangue umano: come si aggruma o come fluisce, il suo odore, la sua vischiosità. Lo conosce meglio del chirurgo, dello scienziato, persino del soldato: ci ha pensato, meditato su a lungo; si è appropriato di ogni aspetto, sfumatura, dettaglio di quell'elemento vitale: non lo freghi con un po' di colore dipinto da artisti mediocri.
Lui ha fatto della conoscenza del sangue la sua icona sacra, la sua para-religione, la centralità del suo essere. Non costruisce certo da questa sua "intelligenza" un'etica di qualche tipo, né riesce a vedere una dimensione della vita più ampia del suo presente e dei suoi bisogni e desideri immediati, ma la sua forza risiede nel percepire che il sangue è ciò che rappresenta il prima e il dopo, il dentro e il fuori, nel movimento orizzontale e univoco del suo destino vitale.
In quella dimensione così terrestre, colui che ha ucciso è un iniziato, un "essere superiore"; in un certo modo -anche se mostruoso e deviante- egli è sacro.
Heidegger l'aveva sottolineato con forza: è morto il Dio cristiano; è la distruzione di una metafisica dei mondi ancestrali e, nello stesso tempo, la distruzione della nozione hegeliana del concetto e della Ragione nella Storia.
Ma è proprio la Storia ad essere morta, uccisa dalle informazioni; esse hanno sostituito le rivelazioni della coscienza con l'accumulo di dati storici, e la saturazione dell'intelligenza non ha tardato a manifestarsi; non c'è più posto nella memoria: tutto il sistema entra in crisi. Ciò che nel passato era una linearità storica, anche se diabolicamente ripetitiva, oggi è movimento caotico -forse prevedibile, ma comunque indomabile- di fenomeni sociali.
Il dannato, il reietto, giudicato dalla società dei giudicanti, rifiuta la verità storica, scagliando con violenta fierezza il pane della pietà sul simulacro del fallimento della giustizia divina.

L'icona onirica.

Il "tempio" rotondo di Angers è trasformato in «monumento storico». Ma quale storia racconta? Questa è ancora la mia domanda, senza che la guardia possa darmi una risposta.
Alcune notti dopo quella visita, io ho sognato di salire su quel tetto, e di trovarvi, in mezzo alla polvere copiosa come sabbia nel deserto, tastiere d'organo nascoste ovunque; piccole, alcune, altre più grandi, ma disposte in modo irregolare, assurdo: davanti e dietro di me, di fianco, più in alto e più in basso, fino ad esserne completamente inglobato.
Quelle tastiere facevano suonare un immenso organo invisibile, che a tratti pareva avere le sue canne all'interno delle celle, e altre volte erano le stesse porte delle celle ad aprirsi appena, spinte dal soffio dell'immaginaria cassa sonora che nascondevano. Io suonavo una Fuga splendida, in cui le voci non cessavano mai di entrare, moltiplicarsi, inseguirsi, sovrapporsi ordinatamente.
Incantato dalla bellezza di quell'esecuzione, dalla facilità con cui fluiva nelle mie dita incoscienti tanta intelligenza musicale e costruttiva, io mi beavo di quel benessere che nota dopo nota sentivo entrare e scorrere nel mio corpo. Una Fuga senza fine, e forse anche senza inizio: non mia, dunque; e al crescere di questa percezione, il crescere di uno stato di profonda inquietudine e di paura, e con quello, insieme a quello, la presenza in crescendo di una dissonanza bassa, come il sopraggiungere di un terribile, devastante terremoto.
Un senso di colpa insopportabile saliva al cervello con l'effetto di vertigine e di gelo; sentivo un rimorso violento, un'agitazione incontrollabile, poi guardavo i miei piedi, ed essi erano come incollati a una lunga pedaliera d'organo simile alle radici ai piedi di un albero. Io comprimevo pedali di gradi congiunti, schiacciando il suono in quelle angosciose dissonanze di bassi che sentivo tutt'intorno a me. Tutta la bellezza delle armonie era distrutta nella catastrofe di quel Basso degenerante, inarrestabile.
Non riuscivo a comandare ai miei piedi di staccarsi da quei pedali, e temevo che gli uomini uscissero gridando dalle celle, correndo in ogni direzione, comprimendosi gli orecchi con le mani. A quel punto cominciavo a cantare, come ho sempre fatto in questi concerti per i detenuti, quando intuivo che era il momento giusto per salire al culmine della commozione, e iniziare in seguito la lenta discesa verso il concludere. Il canto era melodioso, fluido ancor più di quella Fuga, ed era privo di parole.
Col canto li calmavo, li riportavo in tranquillità alle loro celle. Lentamente, mi accorgevo che mi era possibile chiudere una ad una le varie tastiere, spegnere poco alla volta quell'organo, farlo tacere col timore di usarlo ancora.
Ma mi accorgevo con raccapriccio di non avere più né piedi né gambe: ero come un verme, o una serpe sulla superficie tonda e squallida di quel tetto, prigioniero della sua altezza.
Peccato come peccus: "difettoso nel piede", difetto che conduce all'errore nel movimento deambulatorio: errore grave, nel viaggio della vita. E se potessimo volare via, liberi, come gli uccelli nel cielo?
Dove, in tutta questa pesantezza, gravità, assenza d'aria e di cielo, di luce viva e di vento, assenza di suoni che corrono liberi, lontano da noi, e che ci rimandano il senso dello spazio infinito, dove si può trovare la leggerezza necessaria al volo?

Sopra le acque.

«(Nella forma di) un nido tu farai l'Arca» è scritto in Esodo 6:14; anzi, più precisamente, Dio dice a Noè «tu farai la Tevà», e l'ebraico 'Tevà' tradotto in 'arca' non conduce necessariamente all'idea di un battello o di un contenitore chiuso galleggiante sull'acqua, ma con molta più celerità potrebbe raggiungere l'idea di un luogo arcano del linguaggio. Tevà, in ebraico, può significare anche 'parola' (gli insegnamenti del Baal Shem Tov, il fondatore del movimento Chassidico, insistono su questo punto), e quando si vuole dire 'arca' per contenitore sacro, si dice 'Aron'.
In una tevà entra Noè con tutta la famiglia e tutti gli animali del mondo, esclusi i pesci, ma anche Mosè, che giunge neonato alla riva del fiume dentro una tevà. Mosè, «l'incirconciso delle labbra», che porterà il popolo d'Israele alla terra promessa, ma non potrà metterci piede, perché così vorrà la punizione che Dio gli infligge.

Quest'"arca", dunque, pare sempre connessa all'acqua, ma all'acqua che punisce e purifica, o all'acqua che porta un messaggio divino?
Mosè è punito perché, già in prossimità della fine dell'erranza e dell'attesa, ormai vicini al momento di entrare nella terra promessa, anziché "chiedere" alla roccia di dare acqua, egli la percuote col suo bastone (Numeri 20: 7-13). Il risultato, per quel popolo assetato, per quell'umanità che da un tempo troppo lungo e greve è "imprigionata" nel deserto della pena e della penitenza, non cambia: l'acqua sgorga ugualmente e li disseta, loro entreranno nella terra promessa, ma Dio punisce Mosè obbligandolo a morire ed essere sepolto nel mistero del deserto.
Chi è rinchiuso in un penitenziario francese subisce una particolare privazione: quella dell'acqua calda. È la legge carceraria a prescrivere questa pena: il detenuto in cella non può lavare se stesso e i propri vestiti che con acqua fredda, d'estate come d'inverno, quando l'acqua calda scorre nel sistema di riscaldamento delle celle, ma è irrimediabilmente chiusa nei tubi dei termosifoni. Come un sangue caldo che scorre nelle vene di quel "corpo" che inghiotte e digerisce condannati, quell'acqua è lì a consegnar loro un messaggio penitenziale complesso, profondo, pesante.
L'acqua non è più in grado di purificare, dare sollievo, arrecare piacere.
Come un Mosè "avvertito" delle conseguenze di un possibile errore interpretativo nell'atto, o nel linguaggio di una comunicazione con l'autorità suprema, -un Mosè fattosi furbo, ma ancora duce di un «popolo di dura cervice» temporaneamente punito da un dio irritabile e vendicativo-, l'autorità giudiziaria evita il pericolo di sbagliare comportamenti e scelte relative ai bisogni o ai desideri di coloro che deve punire con la detenzione, e sceglie infine di lasciarli "assetati": in questo modo sarà solo un problema fra la loro coscienza e il loro Dio.
Così è anche per la pena della privazione del diritto alla propria sessualità, pena che incide radicalmente -e in tutto il sistema carcerario- la vita di chi vi entra per condanna o per lavoro.
Colui che ogni sera consegna i preservativi a celle di soli uomini, come può abituarsi all'idea che ogni detenuto debba essere potenzialmente un uomo "normale"? Coloro che nelle loro case concedono ai loro figli le ore di televisione con attenzione e parsimonia, ne controllano la qualità dei programmi, si preoccupano di offrire delle alternative intelligenti al tempo che il video può prender loro, come possono queste persone trovare "normale" e "giusto" il ridurre l'uso di farmaci antidepressivi in carcere con l'uso incondizionato del televisore nelle celle? Come mai si conserva la penitenza dell'acqua fredda e della castità, e poi si allevia quella stessa penitenza con l'inebetimento della videodipendenza, con la tacita approvazione di questa "morfina" legale, con l'indifferenza più ipocrita per la violenza di quell'abnorme sessualità genitale che si genera nello squallore delle celle?
Certo, nei penitenziari sono rinchiusi sempre i "figli degli altri", i "diversi", i "recisi". Tutt'al più ci possono essere gli errori giudiziari, ma fanno parte di quelle cose disgraziate che il destino perverso può portare a chiunque: come una malattia grave, o un incidente d'auto. Dentro a questo bel ragionare, coloro ai quali il dio-destino abbia riservato la grazia di traversare il confine del "deserto della penitenza" lo attraverseranno, altrimenti moriranno carcerati: perché dovrebbe preoccuparsene il novello Mosè? Non c'è più tempo per permettersi il lusso di un'etica; nemmeno per un'etica perversa: si è pagati solo, banalmente, per tentar di mettere in pratica una morale.
I detenuti, le guardie, i direttori dei penitenziari, tutti costoro sono rinchiusi dentro una "tevà", una "parola", o un "nido", che non riescono ad aprire, a far fluire nel fiume del senso, nel movimento della vita. Si incontrano persone meravigliose nell'ambiente carcerario: idealisti che fanno del loro lavoro una missione di altissimo valore etico, ma lavorano sulla loro volontà, non per un dovere dettato dalle leggi; essi lavorano oltre le leggi, oltre la "parola" delle leggi. Qualunque sia la loro intelligenza o cultura, quella tevà resta imprigionata in un'arca pesantissima per i problemi di bilancio, per l'impopolarità di qualsiasi spesa pubblica destinata ai delinquenti, piuttosto che alla brava gente onesta.
Intendiamoci bene: in un penitenziario sono rinchiusi criminali che, oltre alla pena, non solo meritano la nostra civile disapprovazione, ma spesso anche il nostro rifiuto e disgusto.
Storie di delitti d'assoluta normalità quotidiana, sempre uguali a se stesse nel corso della storia dell'uomo, ma a Saint Brieuc c'era un uomo di cinquant'anni, un prete, un uomo colto, ma anche pedofilo, e aveva violentato decine di bambini cui insegnava il catechismo; vicino a lui sedeva un giovane da copertina di rivista di moda maschile, detenuto per spaccio di droghe pesanti, ed era in carcere "nonostante" la protezione della mafia locale, che evidentemente riusciva a garantirgli un "superiore" stile di vita carceraria; poco più in là, un gigante di più di due metri che teneva sempre gli occhi bassi, aveva ucciso un uomo in una lite futile, spaccandogli il viso contro uno spigolo fino a farne poltiglia rossa; ad Angers un rapinatore trentenne aveva preso in ostaggio cinque persone e le aveva torturate e uccise, un altro aveva squartato una donna indifesa, un altro ancora aveva spaccato la testa alla moglie con un martello e non era affatto pentito... ma perché abbiamo smesso di "giustiziarli" con la ghigliottina?
Non è certo «perché c'è sempre il pericolo di aver sbagliato giudizio», ma è, invece, perché li abbiamo destinati al «penitenziario», avendo stabilito che è necessario, o meglio è fondamentale difendere il diritto alla vita e al pentimento ad ogni essere umano, qualsiasi sia il suo delitto.
E forse abbiamo anche capito che il pentimento richiede tempo, e non è quello che viene d'improvviso, al contatto della lama del carnefice. Infatti l'articolo 27 della Costituzione italiana stabilisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»; io non ho ancora letto la Costituzione francese, ma dubito che in merito abbia regole e principi diversi. Chissà, forse sarà la Francia di Lionel Jospin a riconoscere ai detenuti il diritto alla sessualità, dopo la Svezia, la Danimarca, la Svizzera, la Spagna e l'Olanda; in Italia è dal maggio del '97 che giace in Parlamento una proposta di legge, in Francia sono tredici anni che se ne discute. Ma il giorno in cui verrà concessa, verrà data insieme all'acqua calda?

[...]

 

© Claudio Ronco 1999. Tutti i diritti riservati.


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Per chi non ha dimestichezza con la musica del Barocco, è necessario spiegare che fino alla fine del XVIII Sec. la parte dei Bassi, in composizioni musicali tanto da Camera quanto da Teatro, era scritta in forma ridotta e sintetica, con una sola linea di Basso, sulla quale erano aggiunti i numeri corrispondenti al suo sviluppo armonico. Questo sistema permetteva di usare lo stesso spartito nelle diverse occasioni in cui al Basso vi fosero strumenti di diverso tipo, e con diverse esigenze e possibilità di sviluppare più voci parallele.
Col nome di Pentateuco si intendono i primi cinque libri della Bibbia, attribuiti a Mosè.(**)

Marc-Alain Ouaknin, Concerto pour quatre consonnes sans voyelles, Édition Balland 1991; ed. P.B.P., Payot & Rivages, Paris 1998, p.174. (**)

Andrea Tagliapietra, Il velo di Alcesti, La filosofia e il teatro della morte, Feltrinelli Editore, Milano 1997. (**)

Rabbi Nahman de Braslav (1772-1811): «arrière-petit-fils du Baal Chem Tov, rabbin hassidique et fondateur de la branche piétiste qui porte son nom (Braslaver). En 1789-1790, il effectua un pèlerinage mystique en terre d'Israël. Il mourut à l'age de 38 ans, atteint de tuberculose. Contrairement à ses pairs en hassidisme, il n'eut pas de successeur (ses adeptes se nomment d'ailleurs les hassidim «morts»). Ses enseignements ont été rassemblés par son secrétaire, Rabbi Nathan de Némirov, dans les Liqouté Moharan («Les Recueils de notre maître Nahman»), ainsi que ses contes.» M.A. Ouaknin, op. cit. pag.349. (**)

Ibid. p.101; Ibid. p.30. «La question du "Pourquoi la Cabale?" pourrait ainsi s'entendre: pourquoi l'herméneutique, pourquoi l'interprétation? La réponse est claire: pour faire en sorte que l' "être infinitif" ne se transforme pas en "être définitif", pour faire en sorte que l'existence puisse encore s'entendre comme transcendendance.
L'homme dit le monde et se dit avec les mots. Il est, selon la formule du Targoum, rouah mellalela, souffle parlant, "homme de paroles" (Cf. Genèse 2, 7, trad. araméenne, Targoum Onkelos.).
Pour un homme vivant, il faut que les mots eux aussi continuent à vivre, à danser, à chanter...
La Cabale est cette recherche exigeante, difficile,...etc.» (**)

Héraclite, Fragments, texte établi, traduit et commenté par Marcel Conche, P.U.F. 1986; frammento 133. (**)

L. Sterne, The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman , London 1759-67. (**)

Thomas Hobbes (1588-1679), The Leviathan, 1651. (**)

Emile Benveniste, «Le jeu comme structure» in Deucalion n°2, 1947, pag.165. (**)


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