Lettera ad A. Cohen, lunedì 21 giugno 1999, ore 19.

 

"Koanìm".

Notte fra il 20 e il 21 dell'ultimo giugno del Millennio atomico; "Venezia suona": avvenimento estivo con quattromila musicisti nelle calli e campielli; titolo: "Festa europea della Musica", sponsor ufficiale "Alcatel", telefonia mobile... o falsa, mostruosa teofania?

Giornata strana, afosa, grigia, tesa... silenziosa; ovunque si muovono poche persone imbarazzate, straniate, zitte, stanche... qua e là i gruppi pop-rock, sicuri di se stessi, "protetti" delle loro amplificazioni e omologazioni, violentano di suono i muri risonanti della città. Alle 21, dal campanile di San Marco partono fasci di luce laser a dirigere le bande d'ottoni lungo il Canal Grande: il colore della luce indica la nota e l'accordo da sostenere: bianco il Do, rosso il Re, verde il Fa, azzurro il Sol. Uno dopo l'altro, i gruppi di strumenti intonano accordi nell'area dell'intero insieme di isole veneziane. La città digerisce senza batter ciglio: tutto prosegue nella sua apatica indifferenza di vecchia donna disincantata, triste, grassa, malata, morente. Tutto si dissolve in una greve depressione inspessita dal forte puzzo di marcio dell'acqua ristagnante dei canali, in questa giornata di bassa pressione, quasi senza marea, senza ricambio di liquidi...
A mezzanotte, in totale solitudine, come per il "voto" d'un fedele, io trasporto il mio violoncello fin di fronte al cantiere per la ricostruzione della Fenice; la mia giornata è passata in una lunga, malinconica tristezza, quasi paura, nascosta, incomprensibile. Non c'è nessuno lì intorno: il mio violoncello, muto da una settimana, cerca di cantare ciò che avevo sognato di far sentire solo a me stesso e a a quei marmi calcificati dal fuoco del '96. L'umido eccessivo l'opprime: il suono è ingolato, sofferente, spento.
Dura poco il mio atto: angosciosamente solo, sento il mio fallimento, la mia inutilità; mi abbandono al silenzio, e depongo il violoncello nella spessa protezione della sua custodia/sarcofago.
Cammino ancora in solitudine col peso doloroso di quell'oggetto muto sulle mie spalle, la mente occupata dall'ossessivo rivisitare nella memoria gli sguardi spenti di gente imprigionata nelle proprie vanità, pavoneggiarsi fra i percorsi della Biennale d'arte contemporanea e i "party" negli esclusivi saloni veneziani; mi muovo in un'atmosfera insopportabile, densa come fango: le onde sonore delle televisioni accese, gli insopportabili ronzii modulanti dei condizionatori; poco distanti, eppure sommersi, i lunghi accordi delle bande d'ottoni, a chiudere la "Festa", diretti dai fasci di luce verdastra emessi dal campanile dogale.
Coperto di sudore appiccicoso, incapace di pensare, guardare, sognare o pregare, raggiungo il campo di San Stae, sul Canal Grande; dall'altra parte Ca' Vendramin Calergi, dove Wagner scrisse il Parsifal prima di chiudersi nella sua morte; oggi c'è il Casinò di Venezia, e i neon quasi nascondono la scritta nel marmo del basamento:

NON NOBISDOMINENON NOBIS

Dietro, poco distante, il Ghetto, poi casa mia, i miei figli a letto che dormono.
C'è una gondola in arrivo: due giovani ai remi. Chiedo un passaggio dall'altra parte del canale; si fermano e mi fanno salire. Il giovane vicino a me è molto bello, con aria efebica; mi dice di essere violinista, e di dover fare molta attenzione nell'uso del remo. L'altro è al lato opposto della gondola, e non riesco a vederne i tratti del volto nella penombra del canale. Penetrano il fianco del palazzo di Wagner, dov'è il suo ritratto in una lapide, e proseguono là dove si passa solo per acqua. Considero la piacevolezza dello scoprire per la prima volta quel passaggio, e gli indico la Chiesa di San Alvise, alla fine di quel canale: là, gli dico, c'è la più bella delle grandi tele di Tiepolo: la salita di Cristo al Calvario. Dicono di non conoscerla; gli racconto allora dell'impressionante color cenere della pelle del Cristo, della teatrale indifferenza, e dell'arroganza dipinta nei volti dei soldati e del popolo che gli sta intorno; gli dico dell'ambiente di quella chiesa, del fantastico trompe l'oeil barocco del soffitto, dai colori ancora rinascimentali di lapislazzulo e cocciniglia. Loro restano silenziosi, poi mi indicano un edificio lì dietro, quasi invisibile a chi non sia in barca. È là che stanno recandosi, mi fanno capire con uno sguardo, e accostano a uno stretto passaggio dal lato opposto del canale, per farmi scendere. Chiedono il mio nome, mi salutano sottovoce; io capisco tutto solo in quel momento: vedo la luce e i riflessi delle candele nere accese ovunque; orribile, un accordo di voci dissonanti si espande da quel luogo: è un rito di satanisti, nella notte di domenica 21 giugno 1999, solstizio d'estate.
Mi fermo dove mi hanno lasciato: è come se tutte le note e i suoni musicali di quella sera fossero stati organizzati, composti e diretti solo a quello scopo. Tutta quella triste, stanca deambulazione per calli e campielli, tutto quell'immane, grottesco impiego di trombe, flauti, ottoni e clarini, laser irradiati dal campanile, di pesanti risonanze sulle acque marcie e sui muri ammuffiti di questa vecchia, spenta città, l'indifferenza, vanità, follia... in qualche modo tutto era stato solo un beffardo inganno, perfettamente organizzato: la festa e il trionfo del potere vero, di demoni travestiti da direttori di grandiose orchestre, a dominare per un giorno intero tutti i suoni di un'intera città, come un magico strumento antico perfettamente accordato, dall'alto del suo campanile sacro, sotto le sue campane ammutolite, in una sbeffeggiante, solenne preparazione al rito maledetto di fine Millennio!... E io sono là in mezzo, burattino incosciente, impotente, stupido; col mio sordo violoncello, con le mie spalle stanche per il suo peso inutile: io, vana immagine di Cristo al Calvario, cinereo, già morto, già vinto.
Seduto in terra, sopraffatto, non so far altro che abbandonarmi alla stanchezza, assistere indifferente. Poi sento un'agitazione, un richiamo noto: ascolto l'aria penetrata dal suono dello Shofar... è potentissimo, soprannaturale, sovrastante! Non è festa ebraica! Le Sinagoghe sono lontane! Non viene dal luogo del rito!
Corro lì intorno, e vedo due ragazzi di quattordici, quindici anni, che stanno suonando il corno di montone; li avvicino: si stanno solo divertendo: forse non sanno neppure il nome dello strumento in cui soffiano con forza, solo perché li diverte sertirlo risuonare nei portici, nelle calli più strette; forse per svegliare qualcuno e sentirlo urlare di rabbia da qualche finestra... Vorrei chiedere dove l'hanno preso, come fanno a possederne uno, ma non riesco neppure a parlare... mi accorgo che lo Shofar sta lacerando l'afa oppressiva, l'aria impregnata di morte e i cieli più lontani, fa crollare le mura putride, fa tremare il mondo.
Rientro in casa alle 3.14: è l'orologio digitale del videoregisratore a mostrarmi quel numero, in luce azzurra. I bambini dormono sereni; mia moglie è a Granada, in Spagna, fino a domani sera. So che nella mattinata, dopo un concerto all'Alahmbra, avrebbe voluto andar a sputare sulla tomba di Isabella la cattolica...
Penso, medito girando per casa: nel tardo pomeriggio, quand'ero uscito di casa con i miei figli per andare verso Rialto, sul ponte di San Alvise c'erano due bambini che suonavano uno Shofar rivolti proprio verso di noi, i loro genitori accanto, intenti a fotografarli: che cosa stava succedendo? Perché quegli strumenti sacri erano in città? Mi corico sul letto e leggo il dépliant turistico sulla giornata della "Festa Europea della Musica"; fra nomi di gruppi rock, jazz, popolare, multietnico, classico, contemporaneo, elettronico, apocalittico, trovo la spiegazione:

 

"LA FABBRICA DELLO SHOFAR"

(Campo del Ghetto Novo) a cura del Beitchabad e l'Accademia Rabbinica di Venezia. Fai con le tue mani ed impara a suonare lo SHOFAR (corno dal suono primordiale da sempre usato dal popolo ebraico per proclamare D-O Re del Mondo) dalle ore 14:00 alle ore 20:00

...e oltre...

 

Oggi, alle 17, ero nella piccola Sinagoga del Beitchabad di Venezia, in Campo del Ghetto; ho raccontato questi fatti a Itzhak e Reuven, due Chassidim nati in Israele. Fuori c'era una bufera impressionante, con tuoni e mulinelli di vento. Anche loro, ieri, insegnavano a fabbricare lo Shofar ai pochi curiosi che avevano deciso di visitare il Ghetto. Nella stanza sul campo, fra i muri decorati di scritte e di libri, intorno all'armadio Santo con la Torah, si studia senza interruzione. Hanno ascoltato il mio racconto con l'intensità di uomini antichi, con la solennità del loro infinito silenzio interiore, e poi hanno vestito con i Tefillin il mio braccio sinistro e la fronte, hanno recitato con me lo Shema Israel e le benedizioni, e mi hanno stretto la mano con forza.
Tornando a casa, con i passi leggeri della gioia, ti ho avuto in mente con incredibile insistenza; amico mio, non dimenticare il tuo nome: al Cohen è dato un premio e un dovere; forse, a volte esso rimane sospeso, frammentato, come uno Shofar suonato da due ragazzini ribelli e abbandonati, in una notte di squallida follia.


Ti racconto questi fatti, così come avrei posato sul tuo capo una Kippah per accoglierti nell'infinito spazio di una breve, antichissima benedizione.


Tuo Claudio.

E-mail di A. Cohen; 21 giugno, ore 22.

 

Carissimo Claudio,
la notte fra il 20 e il 21 giugno ho dormito molto male, pieno di inquietudine, attanagliato da tristi pensieri, le spalle inspiegabilmente dolenti: c'è chi dice che sia il male della "nostra razza". L'ultimo dei tanti lacerti di mille sogni, al primo mattino, mi mostrava la lente sinistra dei miei occhiali rotta in tre parti. Mi sono alzato quasi senza umore, a nove anni esatti dalla morte di mio padre, ancora nelle orecchie lo squillo del telefono, alle cinque del mattino, e la voce di mio fratello che mi comunicava una notizia tanto inaspettata quanto ineluttabile. Ero a Taranto, e lui mi disse di tornare con calma: mi avrebbe raccontato ciò che era accaduto nei minimi particolari; ne avremmo avuto tutto il tempo.
Per prima cosa stamani sono andato all'ultima seduta di analisi prima della pausa estiva, dove avrei appreso che sarebbe stata l'ultima in assoluto; di ritorno ho visto nell'androne i mobili dei miei vicini, amici carissimi con i quali ho concretamente condiviso le gioie e i dolori degli ultimi due lustri: avevo dimenticato che proprio oggi avrebbero lasciato l'appartamento dal quale erano stati sfrattati. Abbiamo pianto insieme ricordando quel 21 giugno di nove anni fa.
Dopo aver lavorato poco e male, alle sette di sera ero all'organo di S.Chiara per suonare alla Messa fatta dire in ricordo di Papà, con mio fratello e le rispettive famiglie, dove anche l'umile e commovente Elevazione dell'anonimo Maestro del Settecento perdeva la sua bellezza, deformata attraverso le canne ordinarie e arroganti di un brutto strumento a trasmissione elettrica. Poi una pizza un po' stiracchiata, ognuno di noi, figli o genitori, ingabbiato nel proprio malessere. Non che non si avesse la voglia di stare e di ricordare insieme, ma il meccanismo era come inceppato, e debbo ritenere che ognuno sia tornato a casa del tutto insoddisfatto. Di tutti il più fortunato sono stato certamente io, che meccanicamente, di malavoglia ho deciso di controllare la posta in arrivo: e finalmente questa giornata così faticosa ha avuto un senso. Mi è scesa ancora qualche lacrima, piena di significato, nel momento in cui sono stato trasportato infallibilmente in quell' "infinito spazio di una breve, antichissima benedizione". In quel luogo mi avevi già condotto quella sera famosa del nostro primo straordinario incontro. E poi ancora
"nel dolce tempo", quando suonando insieme c'era premio e riposo.
Devo alla tua poesia, alla tua saggezza, al tuo dolore e al tuo affetto questo dolce momento di ristoro che anelavo da tanto.

Grazie, Claudio.
A.


I testi qui raccolti sono di quasi tutti di pura fantasia.

C.R.

 

LUCIFER; chez les ancien Païens, c'était l'étoile de Vénus, quand elle précédait le Soleil. Les uns le firent fils de Persés, et d'autres le dirent fils de Jupiter et de l'Aurore. - C'était encore le nom de l'esprit qui présidiait à l'orient, selon l'opinion des magiciens. - Chez les Chrétiens, c'est le chef des démons.

LUCIFERO; presso gli antichi Pagani, era la stella di Venere, quando precedeva il Sole. Alcuni la dicono figlia di Perseo, altri di Giove e Aurora. - Era anche il nome dello spirito che presidia all'oriente, secondo l'opinione dei maghi. - Presso i Cristiani è il capo dei demoni.

 

"Dictionnaire de Mythologie de tous les peuples", Luigi Capello Conte di Sanfranco, Torino 1833.