-XXXVI-

Era lì, sul suo letto, morta. Irrompevano, sfuggivano, migliaia di larve, cristalli luminescenti, l'aria era l'ultima del mondo, in terra, intorno, ovunque brevi fiammelle violacee, caos, carte, furore. In centro al letto, come lontanissima, come sott'acqua...
Non c'era lei, non era lei. C'erano voci, coperte dai fazzoletti; il vomito, esploso sul muro, intorno, tutto addosso, già secco, da giorni. Vermi, o cibi rinsecchiti in forme di vermi, sul lenzuolo, disordinato; poi il vestito, aperto sul petto, il ventre gonfio, immenso, giallastro, i seni svuotati.
Le sue vecchie pantofole sui piedi abbandonati, ma in ordine: rosse, povere, squallide. E le gambe, coperte d'una stoffa forse azzurra... e quel ventre mostruoso!
Carte lì intorno: montagne di libri per terra, dappertutto, sopra i mobili, sulle sedie, il tavolo pieno, la finestra spalancata e il vento che agita tutto. Quell'uomo che mi guarda e mi dice qualcosa, incomprensibile alle mie orecchie. Sono sordo!
È mia madre, lasciami! Voglio guardare! C'è un volto nell'orrore!
Capelli e striscie nere, indurite; forse sangue raggrumato. Le guance, gonfie; perché? È mia madre! Perché quella cosa terribile in bocca? Enorme, viola, rigonfia? Cos'è a soffocarla? Toglietela, toccatela voi! Vi prego! Ha gli occhi che guardano ancora, dietro a quel velo di muco!
Non mi toccate! Voglio vedere! Voglio restare!
Le sue mani sui fianchi, aperte all'alto, coperte di liquame... cos'ha in bocca? Apritela! Fatela respirare! Fatele uscire l'anima! Dio, povero essere! Che ti è successo?!
Donna annegata! Togliete quell'acqua sporca! Tutto è marcito! Che ha in bocca? Toglietelo, lasciatela morire, lasciatela andar via da qui! Questo è l'inferno maledetto! Qui è Auschwitz! Auschwitz!! Auschwitz!!!

 

***§***

Nella memoria di questo mio computer rimane quello che vi scrissi quella notte, svegliandomi dall'incubo:

 

Attendi!


C'è un guardiano oltre quella porta.


Larve leggere,


ma spiriti grevi, che ti vomitano addosso.


Solo la mente dolce


può dormire tra i fantasmi.

 

 

Donna annegata, nel proprio vomito: la lingua era spinta fuori dalla bocca e gonfiata in modo spaventoso: era un cadavere dopo più di dieci giorni di caldo soffocante; era morta nella solitudine, brutalmente. Forse si era coricata perché le era venuto un capogiro, o un mancamento. E poi era come esplosa, nel violento rigetto di tutto il contenuto del suo stomaco e dei polmoni: rimasta là, cornamusa svuotata anche lei, eppure gonfia per l'eternità, per l'eternità nell'espansione, irrigidita per sempre nell'energia del soffio.
Quella sua lingua simile a un uovo violaceo mi ossessiona, non esce da me. Mi raccapriccia il ricordo di quel suo ventre impudico, spazio in cui le cellule che io sono si erano formate, si erano moltiplicate, cellula dopo cellula, organi impressi nei miei organi, pelle calco della pelle. Mi spaventano ancora i suoi occhi spalancati e liquefatti, dietro a quel velo vischioso. Il terrore infinito di quell'istante nello sguardo, il cuore scoppiato, alto nel petto, fra cartilagini ancora viscide. La pelle gialla, morta, molle, fissa, senza più alcuna elasticità. Era mia madre, e l'avevo abbandonata, su un'isola orrenda, di carte, libri, ricordi dolorosi, d'inutilità, di futilità, di vanità.
Là, oltre quella porta, c'era il labirinto di parole, c'era il mostro-guardiano che l'abitava ancora, da cui mia madre aveva cercato di tenermi distante, di proteggermi.
Avevo abbandonato mia madre su un'isola di disperazione, di annichilimento, di vuoto, di desolazione. Avevo lasciato mia madre. E lei, senza pianto, in un grido senza suono, senza fine, s'era lasciata morire.

Scese Hannah, a quel funerale triste e macabro.
Io non suonai, non ce la facevo; avevo visto Auschwitz, ne avevo sentito l'odore, avevo inquinato i miei sensi col contatto delle dita su quel cadavere, sull'involucro decomposto.
L'Organo della chiesa suonava Bach, inutilmente, battendo le sue note sugli orecchi dei sordi.
Il prete pronunciava parole sommesse, e tante donnine anziane, coperte dalla veletta nera, rispondevano in ritornello monotono, riunite nei primi banchi, una accanto all'altra, muovendo appena il capo.
Io non potevo toccare Hannah: l'avrei contaminata, avrei bruciato le mie mani nella sua luce, non avrei mai più potuto toccarla!
Mi allontanai da lei, le chiesi di restar solo.
Nell'angolo ad est di quella chiesa edificata cent'anni prima dall'Architetto iniziato al segreto e al mistero, nella penombra della luce mistica di vetrate colorate si vedevano grandi immagini di angeli con la spada sguainata, sollevata in alto, pronta a ferire; erano imponenti, solenni figure di guerrieri biondi, armati della lancia di San Giorgio, sormontati dall'aquila di San Giovanni.
Io leggevo questa scritta, incisa nella pietra rovente, infissa nel muro:

 

 

ITE ANGELIJ, ANGELIJ MEI, ITE FORTISSIMI
CÆLESTIS  AULE  MILITES  SUPERBIENTEM.
EXTERMINATE,  EXTERMINATE  LUCIFERUM.

ITE PUGNATE FUGATE REBELLES
DAMNATESUPERBOSADFLAMMASAVERNI.
TARTAREI  VADANT AD LUMINA FUNDI
ESSTIGIJCADANTADIMAPROFUNDI
HASADDITEPOENASININFERIPORTIS
PARATECATENASEVINCULAMORTIS
MERENTESDOLENTESINIGNELOCATE.

 

Hannah mi attendeva là, appena fuori dalla cancellata di quella Cappella così sinistra, diabolica. Mi guardava con apprensione, con amore, con paura.
Io ero come imprigionato in quello spazio, sentivo di non poterne mai più uscire, e la testa mi girava nel vortice di quelle parole, nel Rondò incessante, fragoroso, di trombe e timpani in guerra, di fuoco, strepitìo e distruzione, sui bordoni delle cornamuse e delle vielle dal suono nasale, coi tamburelli e i cimbali, i triangoli e i sistri, trombe corte e trombe lunghe, bombarde e flautini, e il mio violoncello a fare il Basso, pesante, lugubre, come incatenato al mio corpo, le mie braccia appese a fili senza fine, mossi nel tempo del timpano grave, nella luce nera, notte senza più giorno.
Lei fissava i miei occhi, terrorizzati, piangenti. Sembrava dirmi: vieni, io sono il tuo angelo vero, la tua salvezza! Lì c'è solo inganno: fuggi! Io dimenavo il mio animo urlante furore, diventavo cieco al richiamo dei suoi occhi. Là, immobile, fremevo di odio, sapevo, capivo, già morivo.
Hannah, era l'ultima volta che guardavi i miei occhi, ed erano gli occhi di Lucifero...

«Non continuare a sfuggire il mio sguardo, ti prego! Guardami, prendimi le mani!», mi diceva Hannah nella mia casa desolata, fra le ombre della mia adolescenza infelice, immerso nelle mie paure: Hannah, la mia gazzella dolcissima, la sua voce leggera, i suoi capelli freschi, soffici dell'aria del nord, che scivolavano sulla mia pelle.
«Non posso più guardare niente... I miei occhi sono morti: tutto è marcio, orrendo. Se ti guardo, allora anche tu sei una morta: la pelle è giallastra, gli occhi vuoti... Non posso guardarti... non ora... Perdono! Perdono!»
Sentivo le sue mani fra i miei capelli, mani calde, carezzarmi il suo richiamo amoroso. E io bruciavo, il suo contatto bruciava! Fuoco di rimorsi, fuoco di rabbia.
«Vedo le paure più terribili nei tuoi occhi, Claudio; è paura irrazionale! Butta via quei pensieri, amore, ritrova te stesso!»
«L'irrazionale ha vinto! Nessuno ha scampo! La nostra decomposizione è già in atto: ci sforma, ci dissolve! ...Vattene via, Hannah: tu sei bella. Io non ti merito, non merito nessuno, io posso solo distruggere...»
«Parli da folle. Io sarò qui con te. Se vuoi, attendo senza guardarti.»
«Tu sei pazza! Vattene via da me! Vai più lontano che puoi! Io sono la tua morte: la morte della tua bellezza!»
«...Ma io voglio stare qui, vicino a te...»
«No! Sprecare la bellezza in questo squallore? No! Torna alla tua Danimarca, al tuo paese di gente moderna! Va via da questi posti imprigionati nel passato! Questa schiavitù antica... siamo un popolo troppo vecchio... Va via dalle nostre colpe!... dallo squallore di tutte queste nostre antichità... in questo schifo, melma, putridume, buio sotterraneo, aria di tomba! Vattene via!...»
«...Porta tua madre al fuoco purificatore, amore mio! Fallo per me! Prendi i suoi resti e fanne cenere bianca, impalpabile, leggera. Spargila nel mare; conserva il suo ricordo solo nella cenere più pulita: tu non hai colpa! Tu l'hai solo ritrovata! Ora devi darle la tua benedizione con l'Olocausto!»
«Le posso dare solo un fuoco schifoso che brucia e non consuma! Lascia tracce dappertutto: terribili, d'angoscia. Sono nere, grasse, sporche! Non illumina, non scalda, non purifica, non incenerisce niente e nessuno!...»
«Non negare la tua benedizione a tua madre, amore: incenerisci prima il tuo orgoglio, e poi rendile la pace! Porta i suoi resti al mare, al fiume gentile, al ruscello, al monte; sali all'aria pulita dei cieli più alti, saluta tua madre nella forza della fede e della speranza!»
«...Che cazzate... suoni come un'attrice del teatrino dell'azione cattolica... in una vecchia recita ridicola... Io sento solo più la dissonanza irrazionale della morte! Sai cos'è? È una settima non risolta, per l'eternità! O solo un inganno dei sensi... Cristo!... vorrei essere solo stupido e basta! Vorrei una chitarra elettrica, una batteria, un microfono, un'amplificatore e un palco, per gridare con un bel casino di tamburi: "I can get no/ satisfaction!"; giro su me stesso, sputo sulla vita! Sì, correre in macchina, spaccarsi i timpani in discoteca, scopare, fottere fottere! Si deve morire giovani, per star bene! Woah! I feel good! c'è Satana dappertutto, Lucifero è sorridente, euforico! Guarda com'è sano, tutto ritmo positivo e good vibrations! E io sono l'unico scemo che non se lo gode?!»
E lei mi raccoglieva le mani e le stringeva al suo piccolo seno di adolescente, e i suoi occhi chiari erano asciutti, e belli da morirne. Io, poco a poco, mi abbandonavo alla sua culla; poco a poco sentivo solo più il suo cuore, e mi scioglievo al sonno e ai sogni.

L'incubo era fatto di vesciche appese, gonfie di liquido pesante, semitrasparenti, color rosa sfumato al giallastro, venate d'azzurro scuro. Non c'era fuoco possibile: ovunque ristagnava acqua putrida; la pioggia sapeva odore acidulo, di morte. L'ambiente somigliava alla casa dei miei genitori, com'era quando io avevo tredici anni, e mi comperarono il nuovo pianoforte a coda.
Il pianoforte lo vedevo in mezzo alla sala da pranzo, al posto del tavolo, e il coperchio vibrava rabbiosamente, da solo, come volesse aprirsi; mia madre lo fermava ammucchiandoci sopra dei libri pesanti, enciclopedie rilegate in pelle verde scuro, pacchi di dattiloscritti, vecchie macchine da scrivere grigio ferro: metteva in ordine per far pulizia. A un lato della sala c'era l'albero di Natale, in carta e filo metallico: spoglio; a fianco, il grande televisore mostrava immagini in continua, accelerata, insensata sequenza: senza suono. Poi mia madre correva a rispondere a un telefono che io non riuscivo a sentire, e tornava dicendo che non era nessuno, o forse solo sospiri; suonava ancora, mia madre correva a rispondere; io non sentivo, non sentivo! e mi battevo le orecchie coi palmi, mi facevo male, si aprivano e chiudevano voragini cartilaginose, usciva liquido saponoso misto a pus, sentivo fischi e dolore.
L'ampia finestra sul balcone dava sulla paura di sei piani di altezza: il pavimento era scomparso: restava solo la ringhiera, lontana e debole, e si vedeva l'asfalto, là sotto. Mia madre doveva andarci a stendere dei panni ad asciugare, proprio lì su quella ringhiera, e si sporgeva nel vuoto; io guardavo atterrito, non riuscivo a gridarle di non farlo. Lei stava sospesa a mezz'aria, e stendeva il suo lenzuolo lavato, poi lo riportava in casa perché era ancora pieno di macchie; io vedevo la lunga traccia di nero dello smog posato su quella sbarra di ferro là fuori. Le chiedevo: "perché abbiamo un balcone se non serve a niente? E poi io ho paura di cadere!"; e lei rispondeva: "fuori c'è l'aria per asciugare i panni stesi; e tu li hai fatti i compiti?"; "no, mamma, li faccio dopo; ora ascolto un po' di musica".
Il corridoio era una fuga di porte che davano spavento, correvo in cucina, mia madre era lì a stirare; dalla porta si vedeva la sala da pranzo: il pianoforte spalancava orribilmente il coperchio, come fauci di drago, di mostro gridante, o grande animale in cerca disperata di aria; le porte, tutte, sbattevano aprendosi e chiudendosi da sole, ritmicamente, concitatamente. Andavo al giradischi, e cominciava a suonare senza che lo toccassi: una Sinfonia lugubre, satanica, di contrabbassi confusi, e tromboni a quarte parallele, su cinque note ripetute e alienanti.
Andavo allo specchio, fissavo il mio volto ancora di ragazzo, la peluria dei primi baffi, lo stato mediano della metamorfosi in adulto. Sulle note della Sinfonia, i miei capelli si sollevavano, il brivido saliva violento alle spalle, poi su per il collo, fino a tutto il cuoio capelluto, e i capelli ritti volavano via come una furiosa tempesta di vento, ricrescendo senza sosta, invadendo l'ambiente come nugoli infernali d'insetti, sbattendo sulle finestre, sulle superfici di tutti i muri, dei quadri, dei libri sugli scaffali. Ero prigioniero della paura di quella casa, ovunque, senza via di fuga.
Mi svegliavo sudato, terrorizzato, non riuscivo più a capire dove fosse il mio letto, dove fossi finito nella mia stanza, in quale casa mi fossi addormentato. Hannah era sempre lì, e subito mi baciava e carezzava le mani, passava le sue dita tenere sulla mia fronte e sul mio collo, coi polpastrelli batteva delicatamente le mie tempie, e mi sembrava che il dragone fuggisse. Ancora, dolcemente cullato, ritrovavo il sonno profondo...

 

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(frammenti da "Il violoncello errante", Claudio Ronco; © C.Ronco 1999)

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