Stridori, strepitìo, fischi che trafiggono il
corpo come lance e frecce, frastuono di distruzione, incendio, terrore:
questo ascoltavo, ogni volta, osservando la riproduzione dell'Inferno
musicale, nel mio libro su Hieronymus Bosch. Quegli orecchi trafitti
dalla freccia, divisi dal taglio doloroso e poi congiunti dalla lama d'un
coltello, quell'ammasso di disarmonici omini assordati, in un inferno
concitato e immobile al tempo stesso, fragore cristallizzato nel silenzio,
nella condanna dell'eterno mutismo: li hanno guardati e contemplati mille
volte gli occhi della mia adolescenza. E quella ghironda là in
mezzo, protagonista in legno chiaro, quasi color carne, capovolta e appesa
al vuoto, nel suo inquietante equilibrio, strumento musicale e persona
insieme... io -o quel che di me c'era allora, cellule ormai disperse del
mio corpo, mia morte già avvenuta senza coscienza- io l'ho copiata,
l'ho disegnata mille volte, ho immaginato di reggerla fra le mani, sostenerla,
impugnarla come vessillo dell'incomprensibile, della mia musica, del suono
che cessa di muovere aria e membrane, che si ferma nella parola, che si
chiude nell'immagine, che s'imprigiona nella forma... Erano gli anni grevi
in cui nella mia Torino oppressa da incubi, depressione e solitudine,
componevo figure o labirinti su fogli di carta, per poter disporre di
un luogo da cui vedermi, un teatrino dei miei interni, di una mappa di
questo, o di un altro mondo...
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