V  O  R  T  I  C  I

C O N D I V I S I B I L I

“...Sono quindi i riflessi, le assonanze di queste "RIME",
il "luogo" nel quale è necessario recarsi...”



In una celebre litografia di Escher, "Ascending-Descending", si vedono delle figure maschili, tutte uguali ed equidistanti, salire e scendere contemporaneamente una scala paradossale, senza fine, posta sulla sommità di un edificio visto dall'alto. Affascinato dal formidabile inganno ottico, l'occhio si diletta nel gustarsene l'effetto, rapito nel "vortice" di quei movimenti paralleli e opposti.

Ciò che mi ha sempre attratto di quell'immagine è il pensiero che l'aveva probabilmente suggerita, e che io mi sono convinto fosse un monito morale: coloro che si innalzano sul mondo fermandosi sulla cima degli edifici da loro stessi costruiti, sono condannati a vivere in eterno nell'illusione del salire e del discendere; immortali, forse, ma prigionieri di uno stato immutabile e sterile.
Questa immagine di Escher, in un modo assai sensibile, è una rappresentazione dell'eterno ritorno a se stessi: l'Anakylosis.

Nel guardarla, medito sulla necessità di "muovere" oltre i percorsi circolari del "chiuso" (claustrum-claudere), e con essi del tempo, "Crono".


...CRONO—RONCO, CLAUDIO—CLAUDERE...
sto forse anagrammando me stesso?
E contemplando lo specchio d'acqua,
e gli anelli delle onde
che mi par di vedere espandersi da un centro,
sto invece cadendo
C l A u D i O
nel risucchio di un vortice?...

Ciò che io "vedo" o "guardo-osservo" è necessario sia —o divenga— CON-DIVISIBILE. Dunque deve posare i piedi in terra, e tenere la testa nel cielo, come "Il gallo dello Zohar", così come lo descrive Leopardi...
Questa condivisione è necessaria all'AMORE (per "l'altro", che è il "luogo in cui abita Dio"...), e inizia dal "portare a terra", ossia "in BASSO" se stessi, il proprio pensiero, e poi sollevarlo con "ponti", che sono "scale doppie", dove appunto ad ogni ascesa corrisponde una discesa, e viceversa.
Questo "BASSO", che in Musica, per gli Antichi, è tutto ciò che sta in terra "sotto" il cielo, che è "SOPRANO" (la "turba de l'animali" contrapposta all'uomo, o il "popolo semplice" contrapposto al "Principe") contiene in sé, nella sua natura, un profondo, segreto insegnamento: quello della "divisibilità" in molteplici "spazi" dell'accoglienza. E' Cartesio a definire questo fenomeno nel migliore dei modi, spiegando:

«Selon diverses considerations, on peut dire que le son grave est plus son que l'aigu, car il se fait par des corps de plus grande estendue; il se peut entendre de plus loing, etc. Mais il est dit fondement de la musique principalement pource qu'il a ses mouvements plus lents et par consequent qui peuvent estre divisés en plus de parties»

(Descartes, "Lettere a Mersenne", 1629-1631;
in "Correspondance du P. Marin Mersenne",
a cura di P. Tannery, C. De Waard, R. Pintard, Paris 1945, II, p. 333)

("Secondo diverse considerazioni, possiamo dire che il suono grave è più 'suono' di quello acuto, perché è dato da corpi di maggiore estensione; si può sentire a maggiori distanze, eccetera.
Ma questi è detto fondamento della musica soprattutto per via dei suoi movimenti più lenti, che per conseguenza possono essere divisi in un numero maggiore di parti")

 

Sono quindi i riflessi, le assonanze di queste "RIME" il "luogo" nel quale è necessario recarsi (in latino: fessure, da RIMOR= fendere, aprire fessure, contrapposto a INSTRUO= eliminare le fessure, da INSTRUERE, il dare istruzione, con ciò osservando la complementarietà, il sodalizio fra questi due atti: rimor e instruo).
La "rima", l'assonanza, la "relazione armonica", muove il "discorso" aprendo ogni ingresso possibile verso l'Opera, e invitando i convenuti ad entrarvi, ognuno a modo suo eppure insieme...

Ma per tutto ciò è necessario "aprire" i canali fra l'alto e il basso, fra il sopra e il sotto; in breve: farsi capire dall'umile e dall'ignorante.

Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete,
udite il ragionar ch’è nel mio core,
ch’io nol so dire altrui, sì mi par novo.
El ciel che segue lo vostro valore,
gentili creature che voi sete,
mi tragge nello stato ov’io mi trovo.
Onde ’l parlar della vita ch’io provo,
par che si drizzi degnamente a vui:
però vi priego che
lo mi ’ntendiate.

   (Dante, Convivio, canzone 1)

 

E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così da’ lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l’inno.
Ben m’accors’io ch’elli era d’alte lode,
però ch’a me venìa "Resurgi" e "Vinci"
come
a colui che non intende e ode.
Io m’innamorava tanto quinci,
che ’nfino a lì non fu alcuna cosa
che mi legasse con sì dolci vinci.


(
Dante, Par XIV, 118-129)

 

« [...] avvicinandoci a côté di Sant'Ambrogio [assorto nella lettura silenziosa, e non "data" ad alta voce in pubblico], ci s'accorge di qualcos'altro: di come, ancor prima che nel divino colloquio, egli sia immerso in un'operazione più profana, ma ineliminabile: quella che faceva d'ogni lettura, sia ad alta voce che silenziosa, propriamente una lettura, e non un ottuso sguardo su segni grafici indecifrati. Ambrogio sta cercando, giustappunto, la rima ossia la fessura che divide una parola da un'altra. Egli sta impavidamente affrontando, senza il rassicurante ausilio della voce, le traversie della scriptio continua, la quale, direbbe dal proprio punto di vista un moderno, angariava il lettore antico. Quest'ultimo si trovava davanti agli occhi una compatta schiera di lettere, quasi mai interrotta né da spazi bianchi, né da segni di punteggiatura, né tanto meno differenziata da accenti (o spiriti). Leggere, in simili condizioni, diveniva qualcosa di molto più impegnativo di quanto s'è soliti concepire: era cominciare subito ad interpretare; leggere era già informare, dar forma (typoo) a dei segni grafici (typoi). Non era permessa al lettore antico la distrazione: la comprensione parziale, concessa al lettore moderno, si traduceva sin dall'inizio in un'incomprensione assoluta.»

(M. Tasinato, op.cit., pag.14)

 

 

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