Baruch
Spinosa di Amsterdam
provò
il desiderio di giungere fino a Dio.
Molando
le lenti,
in solaio, squarciò d'improvviso il velo
e si trovò faccia a faccia con Lui.
Parlò al lungo,
e mentre parlava gli si dilantavano la mente e l'anima.
Poneva domande sulla natura umana,
Dio si carezzava la barba
l'interrogò sulla causa prima,
Dio guardava l'infinito
l'interrogò sulla causa ultima,
Dio si tormentava le dita e schiariva la voce.
Quando Spinoza tacque, Dio disse:
Parli bene, Baruch.
Mi piace il tuo latino geometrico,
e anche la tua sintassi limpida,
la simmetria delle argomentazioni,
parliamo però delle Cose Veramente Grandi;
guarda le tue mani ferite e tremanti;
ti rovini gli occhi nell'oscurità,
ti nutri male,
sei malvestito.
Comprati una casa nuova,
perdona agli specchi veneziani il ripetere la
superficie,
perdona ai fiori fra i capelli,
la canzone da ubriaco;
bada alle entrate come il tuo collega Cartesio,
sii scaltro come Erasmo,
dedica un trattato a Luigi XIV,
tanto non lo leggerà.
Placa la furia razionale:
farà cadere i troni e annerire le stelle;
pensa a una donna che ti dia un figlio.
Vedi, Baruch: stiamo parlando di Cose Grandi.
Io voglio essere amato dagli incolti e dai violenti:
sono gli unici che davvero mi bramano.
Ora il velo si abbassa, Spinoza rimane solo;
non vede la nuvola d'oro, la luce nell'alto dei cieli;
vede l'oscurità,
sente lo scricchiolio delle scale,
i passi che scendono in verso il basso.
Zbigniew Herbert
Mi ossessiona il problema degli spazi chiusi
della comunicazione, dove il linguaggio col suo ritmo, con le
sue risonanze armoniche erige le mura della divisione.
(http://users.iol.it/claudioronco/genova2.html)
Stanotte alle tre e venti, dopo aver riletto l'email che ti ho inviato,
ho riletto anche tutte le tua altre lettere, ritrovandomi a meditare
confusamente sulle "sovrapposizioni" dei linguaggi, quando
essi non vengono "regolati", o "diretti" da una
precisa e dichiarata struttura retorica. E questo perché oggi
è diventato impossibile pretendere che un tale ordinamento del
discorso avvenga "realmente", in quanto la nostra mente si
è configurata a più o meno stabili moduli culturali, ma
ha nel contempo sviluppato una sorta di "anarchia" direzionale,
forse proprio a difesa della sua incolumità, minacciata dalle
implosioni, dai collassi dei sistemi chiusi e finiti. Per questo, rileggendo
una terza volta quel che ti avevo scritto nell'ultima lettera, mi sono
accorto di aver usato tante parole per comunicartene con convinzione
soltanto poche, ossia queste:
"Per far sopravvivere un'intelligenza sana nel mondo attuale,
non si può ricorrere ad altro che a un'agilità mentale
simile a quella della scimmia sugli alberi, quando fugge dal suo predatore."
Queste, e poche altre...
Così mi è tornata in mente la "poesia" di Zbignev
Herbert su Baruch Spinoza, l'ebreo convertito a Cristo...
e il suo incontro con quel dio ambiguo, che scenderà le scale
verso il buio. Era forse il demonio? O proprio quell'oscurità
è il "luogo" prediletto del Dio in terra?
Un Dio che si aggira in preda a disperazione nel caos da lui generato,
fra i "cocci" dei vasi distrutti dalla deflagrazione primordiale...
Su questo vortica la mia mente questa mattina, guardando i pentagrammi
su cui ho scritto i primi temi che compongono i lati del CHIOSTRO dell'opera
musicale cui ti ho invitata.
Alla poesia di Herbert avevo unito l'immagine che ti allego: l'alchimista
di Rembrandt.
Scusa l'invasione di parole.
Shalom, Claudio.
Ti ho letta mentre l'elica rotante fra buio e luce
dell'Alchimista di Rembrandt si sovrapponeva a quella del mio ventilatore
instancabilmente acceso giorno e notte a soffiarmi frescure artificiali
sul volto, e ho scoperto con gioia di averti inutilmente precisato qual
era il "centro" del mio messaggio.
Sono le 12.40 e comincia l'ora "del silenzio" nel mio palazzo,
che fino alle 15 risuonerà solo delle voci e suoni della televisione.
Il mio violoncello è appoggiato alla sedia da studio, l'arco
sul leggio, le corde sono tese e intonate, il suono è sospeso.
Domani sera, dopo la fine di Shabbat, partirò per Vienna col
frac in valigia, ma non porterò con me il computer, liberandomene
fino al 18 luglio. Oggi ti voglio scrivere ancora.
Il perno dell'elica formata dalla scala,
nel quadro di Rembrandt, dovrebbe essere uno specchio circolare convesso,
tipico dell'arredo fiammingo di quell'epoca. Eppure quello specchio
appare concavo (poco importa se in effetti voleva essere un piatto in
metallo e non uno specchio, poiché ambedue riflettono o "contengono"
qualcosa...) e non riflette nulla, trattenendo il tutto quasi nella
sola pennellata d'ombra che deve servire a rappresentarne la concavità.
Nel guardare meglio, ci si accorge che uno specchio indubbiamente convesso
è presente, sebbene visto di lato, nella forma della figura di
un paiolo appeso alla scala, appena sopra il centro geometrico del quadro,
un poco spostato a destra per indicare il movimento ideale della rotazione
dell'elica, insieme alla linea di luce sopra la finestra. Anch'esso,
però, è opaco e non riflette alcuna immagine. A "far
ruotare l'immagine", in effetti, è funzionale la "piattezza"
dell'esecuzione della scala, poiché se avesse più tridimensionalità
o semplice profondità di campo imporrebbe l'effetto di un movimento
esclusivamente dall'alto verso il basso o viceversa, e limitato al ruotare
della spirale. Distribuendo invece con cura i toni di colore, Rembrandt
riesce a far ruotare l'immagine di ben più di un'elica, e in
tutte le direzioni, così creando lo straordinario effetto di
un globo prodotto da una complessità di movimenti indipendenti,
spinti dalle rispettive attrazioni dei livelli di luce e ombra. In una
certa misura, ciò che vediamo nel quadro "è"
l'immagine riflessa da uno specchio convesso...
La figura del corpo dell'uomo e quella della porta, infine, si equivalgono
per altezza e forma, e pare restino l'unica parte immobile del quadro,
in emblematica attesa.
Ora, questo
quadro ha alcune importanti relazioni con la "donna che si allontana
nell'ombra" dell'affresco del Palatino (....lapsus interessante:
avevo scritto "Plotino"...). La prima è all'apparenza
banale: dipingere una nuca anziché la complessità di un
volto (di fronte o anche solo di profilo) è innanzitutto una
scelta di "economia"; è più facile e sbrigativo.
Altrettanto si può dire del dipingere uno specchio opaco (concavo
o convesso) anziché lucido e riflettente. Potremmo immaginare
il committente un po' seccato che protesta col pittore, il quale gli
risponde "Signore, con quello che mi ha pagato è già
tanto che io le abbia dipinto i contorni dell'oggetto...". Questa
osservazione ci costringe a chiederci: "quale è stato il
movente di una tale scelta?" e darci una risposta ancora una volta
all'apparenza banale, scegliendo fra l'attribuire le "ragioni"
alla convenienza pratica o alla scelta concettuale. Le implicazioni
della NOSTRA scelta, espressa nella risposta a un tale (inutile?...)
quesito, sono però fondamentali rispetto alla configurazione
di quelle strutture di base di una cultura che favoriscono l'intelligenza
pragmatica oppure quella emotiva. E tutto ciò condiziona la sopravvivenza
di un'arte rispetto a un'altra.
In secondo luogo, "l'opacità" è presente sia
nel dipingere uno specchio che non riflette, che nel dipingere una nuca
coperta da capelli nell'ombra. E "opaco" è ciò
che "non ha luce". Se dunque nel quadro di Rembrandt tutto
parrebbe destinato a mostrarci come la luce sia il "motore"
di un moto presumibilmente perpetuo (poco importa se vorticoso o circolare),
perché il suo centro, il suo "perno" è opaco?
Così è pure nella donna dell'affresco, la cui nuca contiene
(trattiene?) l'energia del movimento, poiché racchiude e rappresenta
lo "sguardo" di cui lo spettatore si appropria, più
o meno inconsciamente. E quella nuca è il punto più "scuro"
del dipinto.
In terzo luogo la "direzione" del moto di queste immagini,
che in ambedue è "diretto" verso l'infinito, per effetto
di "artifizi" diversi ma protesi allo stesso risultato: il
vortice che si libera dai confini statici della materia, oppure l'assottigliamento
della materia di fronte al soggetto dipinto in modo da rappresentarlo
in moto verso questa, così da generare l'inquietante sensazione
di "spostamento" della materia verso il luogo dell'assenza
di tempo, spazio e direzione.
I significati attribuiti o attribuibili alle immagini di specchi convessi
riflettenti il mondo sono ben noti a chi abbia studiato l'arte fiamminga
dal Quattrocento a Escher, e così pure i valori del "linguaggio
delle assenze" nell'arte in generale, sono argomento frequentato
anche in eccesso nell'ultimo secolo. Ma il troppo parlarne ci porta
a credere di averne svelato il mistero, costringendoci per conseguenza
a pensare necessaria una condizione di "innocenza dello sguardo"
per poterne godere ancora. Torno quindi alla "banalità"
della prima osservazione, per considerare ancora da un altro punto di
vista l'urgenza di restituire all'Arte una dialettica elastica e positiva
fra convenienza pratica e impulso spirituale, pena il disastroso sopravvenire
di una vittoria definitiva della stupidità.
... trovati un posto isolato , illuminato dalle stelle e componi
qualcosa di armonico e semplice, legato al mistero della creazione,
del ritrovarsi. Componi un'armonia che possano i bambini del futuro
ascoltare...perchè non partano svantaggiati dalla sordità
dei genitori, perchè la scissione dell'ascolto armonico non diventi
una scissione col Trascendente...
Non c'è bisogno di "creare" nulla. Tutto è già
esistente, e basta copiarlo diligentemente. Ciò che dobbiamo
fare, invece, è apprendere il modo giusto per "articolare"
quel che abbiamo copiato nell'attività del mondo. Questa è
la vera arte della composizione musicale, così come l'hanno tramandata
gli Antichi. E questo è il motivo per cui io, in quelle notti,
in quei "giorni dell'erranza", curerò la mia memoria
della precarietà della vita terrena. I nostri bambini dovremo
curali sempre e solo noi genitori, senza mai delegare a nessun altro
quel sacro compito. Dunque non potrà bastarci l'atto di "offrirgli"
qualcosa di "bello", ma dovremo dar loro gli strumenti e il
metodo per fruirne.
E lo faremo intrecciando le nostre buone
azioni, come le dita delle Grazie.
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