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di Francesca Borghi, psicoterapeuta
(Il bambino e lo sviluppo del suo mondo interno: individuazione e crescita delle relazioni oggettuali)
Il punto focale delle teorie che si sono discostate da quella psicoanalitica tradizionale è stato il rifiuto - o, quanto meno, una riformulazione - della teoria freudiana delle pulsioni.
La critica a tale teoria è comunque da molti ancora considerata una resistenza al guardare coraggiosamente alla nostra eredità istintuale e biologica e pertanto le altre scuole vengono da questi generalmente ritenute più superficiali.
Ma è quanto meno dimostrabile che la teoria delle pulsioni non ha adeguatamente affrontato il tema delle relazioni oggettuali: ogni comportamento è infatti considerato - direttamente od indirettamente - al servizio di pulsioni ritenute fondamentali, o primarie, perchè sostanzialmente miranti alla conservazione della persona (come la fame) o della specie (per esempio il sesso).
Ne deriva che ogni comportamento sarebbe al servizio della gratificazione delle pulsioni e della tendenza fondamentale dell’organismo alla scarica dell’eccitazione dovuta alle pulsioni stesse; l’impossibilità dell’immediata gratificazione e scarica costringerebbe allo sviluppo del pensiero e ad altre funzioni dell’Io, generando un interscambio (commercio) con gli oggetti del mondo.
Quanto detto porta a concludere che se la gratificazione delle pulsioni fosse possibile senza oggetti, non nascerebbero nè l’interesse per essi, nè le relazioni oggettuali: l’attaccamento del bambino alla madre, per esempio, viene spiegato in relazione al ruolo che essa assume di fornitrice di esperienze di gratificazione istintuale.
Ciò che è interpersonale e sociale è considerato aspetto secondario, derivato e successivo della personalità: si sarebbe costretti a superare ciò che Freud chiama “odio primario per gli oggetti” dall’insuccesso del tentativo di scarica diretta delle tensioni.
Ma già nel 1958 gli Harlow avevano dimostrato, con il noto esperimento sulle scimmie, come l’attaccamento del cucciolo al surrogato materno non derivasse dalla riduzione delle pulsioni primarie di fame e sete, bensì da un bisogno autonomo definito “benessere da contatto”: i cuccioli infatti non si attaccavano a “madri surrogato” di fil di ferro provviste di biberon, ma a quelle di spugna e senza cibo, e questo in special modo in situazioni di novità o in vista di pericolo, cioè in circostanze di bisogno di conforto e di sicurezza.
Queste scoperte costituirono una sfida ai modelli dell’attaccamento visto come riduzione omeostatica delle pulsioni, in quanto suggeriscono che il neonato è geneticamente predisposto ad attaccarsi ad entità principalmente capaci di fornire benessere, rassicurazione, conforto e che questa predisposizione sia precorritrice di un successivo bisogno di relazioni oggettuale di natura sempre più raffinatamente psicologica, per esempio il bisogno di una corrispondenza empatica da parte della figura materna.
Quanto precede, intendendo per empatia la capacità di pensare e sentire se stessi nella vita interiore di un’altra persona, sia pure un bambino piccolo: è peraltro necessaria, come verrà ripetuto, la capacità dell’adulto di entrare in contatto con parti infantili di sè.
Si tratta, secondo Winnicot, della capacità di mettersi nei panni altrui: cosa che se da un lato richiede l’appianamento dei confini tra il “me e l’altro”, sottende anche la possibilità di comprendere il diverso, capacità derivante dall’individuazione, che permette l’esperienza della separatezza dai propri oggetti.
Egli ritiene che tale capacità di empatia della madre determini la qualità della sua relazione più precoce con il bambino, relazione (ambiente materno di holding) che supera in importanza ogni altro fattore evolutivo. Winnicot si sforzò a lungo di distinguere il vero, corrispondente alla realtà psichica, dal falso Sè, arrivando alla conclusione che il primo può svilupparsi solo in un ambiente materno adeguatamente empatico e sollecito, mentre in sua assenza si instaurerebbe il falso Sé (esemplificato dalla figura dell’attore che è completamente perduto quando non recita un ruolo e non è apprezzato e applaudito).
Stern (1980) conclude con le sue ricerche nel campo delle interazioni madre-bambino, che esistono prove sufficienti ad indicare che un forte rapporto non è creato dall’alimentazione, ma dalla condivisione e complementarietà esperienziale.
Quindi. non la gratificazione delle pulsioni è strumentale nel determinare la scelta delle persone per un investimento libidico, bensì un “sistema primario autonomo di attaccamento” relativamente indipendente dalle pulsioni della fame, sesso, aggressività.
Bowlby saostiene che in tutte le specie in cui si sviluppa attaccamento tra il neonato e la madre, quest’ultima dimostra un comportamento di cura del piccolo che è complementare alle risposte di attaccaqmento del neonato.
Egli ritiene che la teoria classica delle pulsioni poggi su una struttura anacronistica presa a prestito dalla fisica e dalla biologia del XIX° secolo.
Guarda pertanto verso aree della biologia contemporanea e, avvicinandosi all’etologia, suggerisce che vi sono sistemi di comportamento istintivo alla base di gran parte della vita emotiva dell’uomo, sviluppatisi perchè contribuiscono alla sua sopravvivenza.
L’attaccamento del bambino alla madre viene mediato attraverso cinque risposte istintive parziali - succhiare, stringere, piangere, sorridere, seguire - tutte dirette a conservare la vicinanza della madre. Pertanto, la madre non diventa importante perchè gratifica, ma è importante di per sé fin dall’inizio.
Contrariamente a quanto afferma Anna Freud, che non esisterebbe dolore nel bambino piccolo nel caso di separazione prolungata dalla madre, ma soltanto reazioni transitorie all’anticipazione di una deprivazione, che persisterebbero soltanto sino all’arrivo di un nuovo oggetto gratificante, per Bowlby i bambini piccolissimi reagiscono alla perdita della madre con vero dolore, dimostrando così la forza del loro attaccamento primario.
Anche gli osservatori più classici dei bambini, egli dice, non danno tutta l’importanza e il significato che meritano a quelli che sono segni chiari ed inequivocabili di dolore nei bambini molto piccoli, e questo perchè la teoria delle pulsioni classica ha difficoltà a spiegare l’intensità e la specificità degli attaccamenti nella prima infanzia.
Secondo Bowlby ogni angoscia, fobica o no, è legata alla separazione dalle cure materne, la dipendenza eccessiva sarebbe attaccamento ansioso e l’aggressività dolore collerico in risposta alla separazione. Inoltre il nucleo di tutte le difese consisterebbe in una disattivazione del bisogno di attaccamento.
La fiducia nella disponibilità da parte delle figure di attaccamento è alla base della stabilità emotiva, mentre l’angoscia e la sofferenza sono determinate massimamente da disturbi nel primo attaccamento alla madre e ai successivi oggetti.
Balint osservò che molti suoi pazienti - come quelli di Ferenczi - tentavano di supplire alle deprivazioni infantili coinvolgendo il terapeuta nel tentativo di costringerlo a fornir loro l’amore incondizionato che non avevano avuto da bambini.
Questo fenomeno ricorrente finì per convincerlo che la ricerca di amore primario è sottesa a tutti gli altri fenomeni psicologici.
Le relazioni oggettuali, dice Balint, sono presenti sin dall’inizio della vita. Tutte le principali caratteristiche, psicodinamiche e motivazionali, primarie e centrali per il modello strutturale delle pulsioni, sono da lui considerate derivati secondari e compensatori del fallimento nell’ottenere sufficiente amore primario. “...Il narcisismo è un modo indiretto per procurarsi ciò che gli altri non offrono. Le gratificazioni sensuali basate sul corpo sostituiscono quanto viene perduto in termini di amore primario e derivano da qualsiasi contatto “parziale” che i genitori siano stati capaci di offrire: le relazioni sadico anali, sadiche ed infine genitali non hanno una base biologica, ma culturale...L’amore oggettuale primario non è vincolato ad alcuna delle zone erogene: non è orale, anale, genitale, ecc. ma è qualcosa in sé e per sé. ...L’aggressività è una reazione ala mancanza di amore primario...”.
Tutto ciò, anche se Balint non accantonerà mai del tutto la teoria strutturale delle pulsioni.
Fairbairn rifiutò la tesi Kleiniana della centralità delle pulsioni nella relazione e intese la libido soprattutto come ricerca di oggetto. Riconobbe che, sebbene il pensiero di Freud ruotasse intorno alle relazioni oggettuali, aderiva al principio teorico secondo cui la libido è orientata in prima istanza alla ricerca del piacere, è cioè priva di direzione verso l’oggetto.
Sostenne che le mete piacevoli delle varie zone erogene di Freud non sono originariamente tali: ad esempio, il bambino non è alla ricerca del seno perchè è oral, ma è orale perchè è primariamente alla ricerca del seno.
Per Fairbairn la reale meta libidica è lo stabilirsi di relazioni soddisfacenti con gli oggetti, e il materiale clinico su cui questa sua asserzione si fonda può essere sintetizzata nella protesta di un paziente: “Lei parla continuamente del fatto che bramo la soddisfazione di questo o quel desiderio, ma ciò che realmente io bramo è un padre!”.
Sembra che Fairbairn abbia considerato la libido sessuale (intesa come pulsione sessuale secondo Freud) una tensione di ordine non sessuale, associata al bisogno di relazioni soddisfacenti come costituenti assieme le forze motivazionali degli esseri umani, considerando la fonte ultima della patologia psichica a livello di relazioni oggettuali.
Anche all’interno della teoria psicoanalica tradizionale, negli sviluppi della psicologia dell’Io, hartman indicò alcuni aspetti del comportamento, dello sviluppo e del funzionamento psichico come entità relativamente autonome rispetto alle pulsioni: ciò anche se, come noto, la psicologia dell’Io non costituì mai una critica alla teoria tradizionale.
Particolarmente interessante - e toccante - è ciò che Searles ha da dire sul bambino, che gli deriva dalle sue personali osservazioni dei bambini stessi (figli compresi) e dalla pratica terapeutica con pazienti schizofrenici:
“...Si scopre allora che la malattia schizofrenica rappresenta in sostanza il sacrificio, da parte del figlio, della sua stessa individualità per il benessere della madre, che egli ama autenticamente con l’altruismo, l’abbandono e l’adorazione che, nelle normali circostanze della vita umana, soltanto un bambino piccolo sa offrire...”.
“...Condivido la convinzione di Fairbairn e Melanie Klein che il bambino stabilisca fin dall’inizio rapporti oggetttuali. Non sono invece d’accordo con la Klein quando sostiene l’esistenza di un istinto di morte innato, i derivati dei quali (desideri distruttivi e crudeli) sono attivi sin dall’inizio della vita. L’osservazione di lattanti e bambini piccoli nella vita di ogni giorno e il lavoro psicoanalitico e psicoterapeutico con adulti nevrotici e psicotici, mi hanno convinto invece che il materiale di cui è fatta la personalità umana è la capacità di amare, che il neonato risponde al mondo esterno con la più aperta disponibilità alla relazione amorevole e che solo più tardi - come risultato di esperienze interpersonali dolorose e ansiogene - si aggiunge inevitabilmente un miscuglio di crudeltà e distruttività che viene a sovrapporsi a questa base d’amore”.
Per quanto riguarda in particolare il primo punto riportato, evidente è l’analogia tra il pensiero di Searles e quello di Suttie che, per quanto ignorato, fu l’anticipatore della teoria relazionale, avendo rifiutato totalmente e per primo (almeno ufficialmente) la teoria delle pulsioni.
“..I sentimenti di avversione e aggressività non sono innati, ma derivano da esperienze di rifiuto e ripulsa e, in generale, da una mancata rispondenza dell’amore e della gentilezza che il bambin o è pronto a dare e ricevere sin dalla nascita. Quando egli sperimenta che la benevolenza altrui è bizzarra o condizionata e che il suo bisogno di dare e ricevere amore è rifiutato o disprezzato, il suo amore sociale frustrato si trasforma in angoscia e quindi in odio, se la frustrazione è sufficientemente acuta...” Dal momento che, comunque, l’odio per l’oggetto amato gli è intollerabile, il bambino fa tutto quanto può per conservare il senso della relazione d’amore, come questione (e per lui lo è) di vita o di morte.
Suttie descrive quattro modi in cui il bambino agisce in tal senso:
1) La conservazione di un’immagine buona della madre è ottenuta attraverso la convinzione che se non viene amato è perchè lui è indegno e cattivo. Ciò costituirebbe la base del cosiddetto “complesso di inferiorità” e dello sviluppo della malinconio associata a sentimenti di inadeguatezza.
2) La regressione a stadi infantili del Sé in cui la madre poteva essere vissuta come gentile e buona. Questo processo tenderebbe a far conservare tratti tipicamente infantili anche in età adulta e comporta il tentativo di sfuggire la realtà attraverso la fantasia: ciò porterebbe a distorcere la realtà stessa e, nei casi più gravi, ad associarsi a psicosi.
3) La ricerca di un sostituto buono della madre cattiva, che potrebbe comportare una posizione paranoide nel bambino che rinuncia alla madre con odio, proiettando però lo stesso odio nelle future figure sostitutiva riprovocando i medesimi conflitti.
4) L’individuazione del potere di esigere prestazioni come surrogato di una perduta sicurezza nella disponibilità dell’amore materno. In questo caso rabbia, coercizione e minaccia verrebbero utilizzate nel tentativo di costringere l’oggetto a dimostrare il proprio amore. Questa soluzione trova la sua espressione caratterologica in quelle che vengono definite “personalità narcisistiche sfociando, nei casi più gravi, nella delinquenza e nella paranoia.
La distruttività non costituisce pertanto per Suttie una pulsione a sè stante o un affetto primario, ma un derivato dal fallimento di una insistente richiesta di aiuto perchè vengano rimosse le fonti della frustrazione. Egli infatti interpretava i sentimenti insistenti di odio come un rimprovero permanente verso l’oggetto che minaccia il Sè con l’angoscia di separazione, che significa un ritiro dall’amore. “...Lo scopo dell’odio non è di cercare o dare la morte, ma di preservare il Sé da un isolamento che significa morte”.
Sono chiarissime le analogie di pensiero che uniscono le seppur diverse personalità di Searles, Suttie e Kohut.
Secondo Kohut il Sé esisterebbe ancor prima della nascita fisica: Sé inteso come contenuto della mente definito “centro indipendente di iniziativa e intenzionalità, ricettacolo di impressioni, sensazioni, esperienze, dotato di coesione e perdurante nel tempo” ossia, mi sembraq di cogliere, la capacità di conservare nel tempo l’esperienza del proprio mondo interiore ed esterno, di trasformarla e di arricchirla progettualmente mediante pensiero e azione; l’autoconsapevolezza e la consapevolezza in generale; la capacità di riconoscere ed attribuirsi realisticamente un proprio valore e farlo perdurare nel tempo anche attraverso le vicissitudini esistenziali.
Esisterebbe alla nascita un Sé virtuale, che si costituirà entro i primi due anni di vita attraverso i passaggi da Sé rudimentale a Sé nucleare ed infine a Sé coeso, ovvero mediante una serie di processi psicologici attraverso i quali avviene l’evoluzione normale delle strutture del Sé, anche se questi non può mai dirsi del tutto costituito in quanto il suo sviluppo - ed eventuali vicissitudini - perdureranno durante l’intero arco della vita.
Per quanto riguarda le condizioni indispensabili per uno sviluppo sano del Sé e come questo sviluppo avvenga, mi pare che la teoria di Kohut non faccia che ricomprendere e sviluppare creativamente i concetti già considerati.
Innanzitutto il bambino per vivere, e non sopravvivere, ha la necessità di un’interazione precoce con la persona che più assiduamente si occupa di lui, normalmente la madre, che si assume la funzione di “Oggetto-Sé”. Infatti il Sé virtuale sarebbe una predisposizione che richiede di concretizzarsi subito dopo la nascita, attraverso l’interazione tra le dotazioni innate e le risposte selettive materne.
Ha così inizio una fase simbiotica - necessaria, come più volte affermato da Searles - in cui la madre risponde ai bisogni del bambino in modo intuitivo/empatico in funzione anche (forse soprattutto) della sua capacità di contatto con le proprie parti infantili. Il bambino, per così dire, si fonde con questo primo oggetto_Sé arcaico e dall’evoluzione di questo rapporto psicologico-corporeo deriverà una prima strutturazione mentale, il nucleo del Sé del bambino.
Con l’appellativo di “Oggetto-Sé” Kohut si riferisce al bisogno narcisistico del bambino, ossia alla sua imprescindibile necessità, di utilizzare, di utilizzare la persona adulta di riferimento come parte costituente del nucleo primario della propria identità.
Anche secondo Goldberg il Sé si stabilisce nel momento in cui gli Oggetti-Sé iniziano a trasformarsi in struttture psichiche, in quanto il Sé è composto di unità permanenti di relazioni. E la capacità di relazione può considerarsi la conseguenza di rappresentazioni interne di legami formati con oggetti-Sé sani.
Anche la Mahler pone l’accento sull’influenza cruciale delle prime relazioni oggettuali e tutta la sua teoria - pur permanendo all’interno della psicoanalisi tradizionale - riflette il riconoscimento dell’importanza dell’oggetto materno per la sua profonda relazione con la psiche infantile molto più che come meta delle pulsioni.
I primi bisogni del bambino non sarebbero pulsionali, bensì narcisistici: secondo Kohut il bambino si propone e si afferma “con richieste di ammirazionee onnipotenza che hanno bisogno di essere rispecchiate e restituite”: cosa significa tutto ciò se non che il bambino necessita di essere accettato incondizionatamente per come egli è e si trova ad essere, e si sta disvelando, e che contemporaneamente ha la necessità di un interesse, di un’attenzione viva ed empatica che dia sollecita risposta ai suoi bisogni, oltrechè primari, di calore, sostegno, conforto, rassicurazione e, via via, di accettazione gioiosa dei propri movimenti evolutivi?
A questo proposito Kohut afferma che l’autostima difettosa non è sostanzialmente legata al sesso (compleso edipico, angoscia di castrazione, invidia del pene, genitalità non raggiunta), ma ha radici genetiche nell’inadeguata risposta empatica dei genitori ai bisogni del bambino, ciò che comporta per lui una serie ripetuta di eventi traumatizzanti.
Non è infatti, di massima, un evento traumatico responsabile dei disturbi emotivi, ma una serie ripetuta di risposte inadeguate degli adulti ai bisogni del bambino e in particolare, nello specifico, più che non la frustrazione la mancanza di empatia.
Già Sullivan ipotizzava un legame empatico tra madre e bambino, attraverso il quale vengono trasmesse influenze reciproche e il flusso di vissuti di soddisfacimento o di angoscia.
Kohut riteneva che la capacità innata della madre di entrare in sintonia con il bambino e la sua sensibilità affettiva siano fondamentali per un formarsi nel bambino di un Sé solido e armonico; viceversa, qualora queste stesse capacità della madre fossero difettose, sarebbero responsabili del determinarsi nel bambino di un Sé colmo di angoscia e predisposto alla scissione.
Secondo Kohut l’empatia materna implica, oltre4 all’identificazione e alla comunione di sentimenti con il bambino, anche il senso di separatezza da lui implicante l’avere su di lui pensieri e progetti - in sintonia e nel rispetto di ciò che del bambino si sta disvelando - che consentiranno al bambino stesso la separazione da lei in una propria progettualità.
Infatti, man mano che il neonato procede nella crescita, altrettanto necessariamente deve - in modo graduale e armonico - trasformarsi questo tipo di relazione simbiotica, al fine di contenere l’onnipotenza che l’indifferenziazione tra sé e l’adulto accuditivo ha trasmesso al bambino.
La crescente esperienza che l’oggetto d’amore ha desideri che non coincidono automaticamente con i propri, mette infatti fortemente in discussione l’onnipotenza simbiotica in cui è immerso il bambino, fornendogli la cognizione altrettanto crescente che l’altro è un individuo a sé stante.
Di solito, in un ambiente adeguatamente rispondente, tali bisogni primari perdono spontaneamente in intensità e urgenza. A tale proposito una dinamica complementare alla cosiddetta “esibizione grandiosa del Sé” - che mi pare rientri nel bisogno innato di essere riconosciuti, accettati e apprezzati da un’altra persona significativa per la nostra unicità ed esclusività - consiste, secondo Kohut, nel bisogno di idealizzazione di una figura parentale (generalmente la madre, ma anche il padre).
Questo perchè, ad arginare come anzidetto l’onnipotenza del bambino, saranno intervenuti “naturalmente” i limiti della figura di accudimento che, per quanto empatica, difetterà inevitabilmente nel tentativo di corrispondere ai bisogni del bambino.
Infatti i limiti dell’ oggetto-Sé saranno in fase precoce percepiti dal bambino come limiti propri: constaterà che il proprio desiderare non comporterà inevitabilmente l’accadere di quanto desiderato: idealizzerà allora l’adulto attribuendogli una onnipotente perfezione irrealistica, dovuta al fatto che è in grado di soddisfargli ogni esigenza.
In questa fase il bambino ha necessità di percepire dall’adulto quella calma, forza e benevolenza che gli permetteranno sia di sentirsi sicuro che di potersi identificare con la persona che può ammirare.
Successivamente, gli stessi inevitabili limiti genitoriali - contenuti entro un livello non traumatico - saranno percepiti dal bambino più realisticamente come tali, ciò che potrà permettergli un ritiro di investimenti affidando a se stesso funzioni che gli consentiranno gradatamente il cammino verso l’autonomia, avvalendosi di strutture nel frattempo metabolizzate e costituite proprie.
Occorre peraltro che i genitori sappiano di iniziativa dare un limite, sappiano cioè contenere le richieste del bambino: si tratta di modulare, con le richieste, la sua onnipotenza e di non lasciarlo in preda a sentimenti e sensazioni che per quanto piacevoli - o spiacevoli - non è in grado di sostenere per qualità e livello rischiando di essere sopraffatto. Si tratta, cioè, della cosiddetta frustrazione ottimale, che interverrà in modo contenitivo ed armonico, senza traumi, così come la dilatazione dell’inspirazione sarà contenuta dall’espirazione, la sistole dalla diastole...
Entrambe le teorie di Sullivan e di Kohut individuano comunqu le origini dei disturbi del Sé e le future patologie psichiche a livello di vulnerabilità emotiva e disturbi narcisistici presenti nella madre, in quanto collocano nel sistema diadico madre-bambino la matrice dell’esperienza psicologica.
La madre è pertanto quella prima figura (Oggetto-Sé) che viene recepita, vissuta, esperita dal bambino come capace - o meno - di offrire in modo sufficientemente stabile e duraturo, funzioni di cui pian piano si approprierà, entro una relazione che lo conserva, lo contiene, lo protegge, lo rassicura, lo tranquillizza, lo sostiene e lo stimola, influendo così, positivamente, sulla percezione di sé.
Il legame con l’oggetto-Sé che è stato interiorizzato in condizioni generalmente buone è disponibile ad essere evocato quando necessario, quale fonte propria di tranquillizzazione, sostegno e accrescimento di autostima.
Infatti, l’esperienza dell’offerta di funzioni di oggetto-Sé da parte di un altro, relativamente differenziato, è esigenza normale e sana.
E’ sano anche il senso di possesso presente nel bambino verso l’oggetto-Sé, possesso meglio inteso come presunzione al diritto della sua presenza - in quanto necessaria - anche se la percezione di possederlo e di aver diritto alle sue funzioni è del tutto inconsapevole.
Balint definì l’amore oggettuale primario un’esperienza naturale e precoce di sintonia madre-bambino, che si verifica normalmente e nella quale il bambino avverte (deve avvertire) l’assenza di qualunque differenza tra i propri interessi e quelli materni.
L’esperienza della rispondenza dell’ “ambiente oggetto-Sé” precoce è l’indispensabile punto di partenza normale del bambino, in quanto solo la solida interiorizzazione di tale esperienza pone le basi per un’attesa fiduciosa di un’adeguata rispondenza di altri “oggetti” nel corso dell’esistenza.
Viceversa, quando il bambino sperimenta ripetutamente il fallimento della rispondenza materna, stabilisce un legame con la propria esperienza interna negativo e alla fine sarà costretto a sviluppare meccanismi di autoconservazione fragili e spesso coatti. Inoltre, tali traumi “cumulativi” (Khan) favoriscono nel bambino la vulnerabilità all’esperienza di stati affettivi particolarmente paurosi e dolorosi, quali la frammentazione del Sé.
Infatti, secondo i teorici delle relazioni oggettuali, fattori diversi dalla sessualità e dall’aggressività possono agire significativamente sullo sviluppo del bambino e sulla patogenesi, rifiutando di considerare le pulsioni come forze motivazionali primarie, ritenendole invece sistemi affettivi che vengono mobilizzati in forme diverse.
Viene quindi rifiutato il concetto di distruttività innata da rinnegarsi, ammaestrare, negare o sublimare, in quanto i comportamenti aggressivi sono ritenuti espressioni di instabilità o frammentazione dell’esperienza del Sé, conseguente ad una frattura importante a livello della relazione oggettuale fondamentale.
Esser capaci di farsi valere, di esprimere i propri punti di vista o desideri, di opporsi in forma assertiva è segno della presenza di un Sé integro. Viceversa un Sé deficitario o frammentato ha difficoltà a far fluire le proprie potenzialità o a mobilizzare adeguatamente l’aggressività.
Quando il Sé ha subìto precocemente un indebolimento, o non ha mai raggiunto un’integrazione soddisfacente e stabile perchè la “ figura materna oggetto-Sé”, non è stata in grado di offrire le funzioni relazionali necessarie al bambino, questi sarà predisposto alle tensioni derivanti dalla propria vulnerabilità.
Vivrà spesso situazioni esistenziali come ripetizione del trauma subito e sarà incapace di rispondere assertivamente agli eventi. In queste condizioni reagirà con una forma distorta di rabbia (narcisistica), associata di solito ad un senso continuo di danno subito: ciò non costituisce un’espressione della natura della personalità (pulsione), ma uno stato affettivo conseguente ad un’esperienza patogena. Gli psicologi del Sé ne parlano come di un prodotto derivato.
A questo proposito Morrison ha sottolineato l’importanza della vergogna - e della sua espressione estrema, l’umiliazione - come reazione al senso di disperazione determinato dall’esperienza di fallimento della relazione primaria. Per la loro intollerabilità, però, vergogna ed umiliazione verranno cancellate dalla consapevolezza, innescando rabbia nei confronti dell’oggetto frustrante.
Analogamente i disturbi della sessualità non derivano da disturbi della regolazione o sublimazione delle pulsioni, ma riflettono un Sé i cui bisogni legati a una sessualità in via di sviluppo non hanno trovato una risposta congrua nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Pur considerando l’esistenza reale di conflitti edipici, la loro presenza è comunque da ritenersi la conseguenza di un’interazione inadeguata con le figure parentali. Si tratta pertanto di una relazione oggettuale triangolare che può avere dimensioni pulsionali normali o patologiche a seconda delle risposte più o meno adeguate da parte dei genitori.
Se essi reagiscono al manifestarsi di sentimenti edipici dei loro bambini mostrando di considerarli desideri normali di intimità sensuale e affettiva verso il genitore dell’altro sesso e accettando il bisogno di affermazione verso il genitore dello stesso sesso, il bambino si setirà capito, potrà confrontarsi e superare gli ostacoli del periodo edipico rafforzato nel suo processo di sviluppo. Inoltre se eventuali esperienze frustranti saranno bilanciate da azioni di tranquillizzazione e sostegno da parte dei genitori, il Sé si troverà rafforzato di fronte a possibili ulteriori frustrazioni nella vita.
Lo sviluppo di un solido senso di identità sessuale, maschile e femminile, e di una sessualità sana, dipenderanno da un precedente sviluppo dovuto alla qualità della relazione tra il bambino e le sue figure di accudimento e, successivamente, alla gestione dello stadio edipico da parte dei genitori, in cui questi non guarderanno al bambino come se desiderase relazioni sessuali con loro o come a un rivale (ciò tenderebbe a creargli ansia, stimolazione, conflitto e confusione).
Se poi il bambino si sente rifiutato o incontra un’accettazione cui non può far fronte, sarà sopraffatto da vissuti di vergogna e proverà sensi di inadeguatezza e di paura, sia nei propri confronti che in quelli del genitore che percepirà sì, in questo caso, rivale.
Questa e, infatti, l situazione che Kohut definisce “complesso edipico” per distinguerla dallo stadio edipico naturale, in quanto la situazione edipica come intesa in psicoanalisi classica, con angosce e conflitti, è considerata dalla psicologia del Sé uno sviamento di una relazione oggettuale normale, che ha comunque radici in periodi più precoci.
Secondo Kohut la brama di ottenere la gratificazione di un desiderio pulsionale incestuoso - con le angosce specifiche che vi si associano - costituisce già un segno di patologia determinata da precedenti interazioni con l’oggetto-Sé alterate.
Questi vissuti non provengono da un conflitto pulsionale, ma da un conflitto relativo ad un bisogno evolutivo che non trova adeguate risposte di comprensione e sostegno, o rifiutato in seguito alla percezione, da parte del bambino, dell’inadeguatezza o incapacità delle figure parentali di gestirli.
Per quanto riguarda il conflitto, esso si esprime quando i bisogni del bambino vengono da questi percepiti come possibili minacce per i legami con i genitori, per cui subentra il dilemma schizoide: il rischio di perdere o danneggiare le figure da cui dipende o rinunciare al proprio Sé reale.
Ciò comporta il mantenimento di un legame di indifferenziazione con la figura di accudimento oppure - rifiutando questa situazione - la percezione del proprio Sé come isolato, depresso e vuoto, mancando il sostegno delle figure di accudimento all’espressione del proprio Sé reale.
Le soluzioni patologiche saranno ambivalenza tormentata, sfida e ribellione distruttiva, abbandono dei bisogni relazionali, distorsioni del Sé, autoabnegazione, arrendevolezza depressiva nei confronti dei bisogni altrui...
Quindi, anche nella misura in cui i disturbi scaturiscono da una situazione edipica patologica, rappresentano altrettante organizzazioni difensive che proteggono da ulteriori ferite un Sé che ha già subito esperienze precoci più o meno gravi di fallimento relazionale con l’oggetto-Sé.
Ne deriva che nella prospettiva relazionale, e in particolare per quanto riguarda la psicologia del Sé, i disturbi del Sé sono originati dall’esperienza che fa il bambino di interazioni errate, inaffidabili, cattive con le figure di accudimento.
Ovviamente, variabili costituzionali avranno una loro incidenza sulla diversa sensibilità e sulla capacità di ricupero, che determineranno reazioni diverse agli sforzi delle figure di accudimento stesse e, più tardi, a quelli del terapeuta.
I sintomi patologici sono comunque considerati segni concreti dell’esperienza di gravi fratture che si producono in determinati contesti intersoggettivi; infatti le relazioni oggettuali patologiche vengono per così dire “codificate” dal bambino sotto forma di mancata esperienza o di difetto: - mancanza nel senso di mancata esperienza di funzioni per lui indispensabili da parte dell’oggetto - difetto nel senso di risposte difettose da parte dell’oggetto stesso
Attualmente si tende a ritenere questo approccio applicabile all’intero spettro della psicopatologia e all’eziologia delle forme di disturbo psichico, utilizzando come parametro il grado delle ferite e del deterioramento subiti dal Sé nel contatto con oggetti che hanno mancato in modo più o meno grave nello svolgimento delle funzioni di “Oggetto-Sé.
- Nella schizofrenia un rispecchiamento gravemente carente avrà determinato disturbi tra i quali prevale la frammentazione del Sé.
- Una diffusa assenza di un’appropriata rispondenza da parte dell’oggetto determinerà vissuti depressivi “da svuotamento”, mentre ad originare depressione da senso di colpa e manie sarà l’assenza di esperienze di tranquillizzazione, sostegno e contenimento, vale a dire l’assenza di oggetti stabili, sicuri, idealizzabili.
-I disturbi border-line sono determinati da un insieme complesso di fallimenti da parte delle figure di acudimento: fallimento di rispondenza empatica e insufficiente approvazione, conferme e convalide. Il danno del Sé prodotto si avvicinerebbe, per gravità a quello presente nei disturbi psicotici, ma è mascherato da difese complesse di natura essenzialmente schizoide o paranoide: entrambe difendono da un coinvolgimento profondo, ma mentre la prima lo previene utilizzando l’allontanamento, la seconda crea un’aura protettiva di sospetto e ostilità intorno al Sé, provocando una distanza di sicurezza da coinvolgimenti potenzialmente pericolosi.
- Nei disturbi narcisistici del comportamento il danno del Sé è meno grave e si presenta nella tipica caratteristica del ricercare di puntellare la fragile autostima sviluppando comportmenti coatti perversi o delinquenziali.
- Nei disturbi narcisistici della personalità, assai diffusi, è tipicamente presente una difficoltà più o meno consistente a livello di regolazione dell’autostima con conseguente ipersensibilità alle frustrazioni e agli insuccessi, difficoltà a perseguire un’adeguata autoaffermazione, insoddisfacenti relazioni interpersonali, solitudine e infelicità complessiva determinate in particolare dal senso di incompiutezza e insignificanza di sé e della vita.
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Per quanto riguarda il concetto di maturità per la psicologia del Sé, un Sé maturo non è tale perchè rinuncia ai propri bisogni oggettuali, anche “narcisistici” di approvazione e dipendenza, ma perchè sa viverli con meno intensità e urgenza . A differenza della teoria delle pulsioni, che considera la relazione oggettuale come una relazione del soggetto con il SUO oggetto - e non soggetto/oggetto, implicante la reciprocità interpersonale - la psicologia del Sé ritiene che un oggetto che soddisfa un bisogno sia un oggetto parziale, che l’individuo appunto ama soltanto per la sua capacità di soddisfare i bisogni e che egli non riesce a riconoscere come persona.
Viceversa, l’oggetto vero - o intero - è un oggetto che l’individuo riesce a riconoscere come persona dotata di pari diritti e doveri, sentimenti e bisogni analoghi ai propri.
La psicologia del Sé riconosce la maturità nella capacità acquisita dal Sé di offrire funzioni di oggetto-Sé, ritenendo tale funzione psicologica forse la più matura in assoluto, come dimostrano, ad esempio, le cure di un genitore o di un analista, per dirla alla Winnicot, “sufficientemente buoni”.
Bibliografia:
- H.A.Bacal e K.M.Newman: Teorie delle relazioni oggettuali e psicologia del Sé, Bollati Boringhieri 1993 - Morris N. Eagle: La Psicoanalisi Contemporanea, Laterza 1993 - Jay Greenberg e Stephen Mitchell: Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica, Il Mulino 1986 - Heinz Kohut: La ricerca del Sé - Bollati Boringhieri 1982 - Heinz Kohut: Narcisismo e analisi del Sé - Bollati Boringhieri 1988 - Heinz Kohut: La guarigione del Sé - Bollati Boringhieri - Harold Searles: Scritti sulla schizofrenia - Roberta Siani : Psicologia del Sé - Bollati Boringhieri 1992
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