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RIMOZIONE NON FA RIMA CON PREVENZIONE. NE’ CON PROTEZIONE di Claudio Foti, Nadia Bolognini.
1. RIMOZIONE DEGLI ADULTI, RIMOZIONE DEI BAMBINI
Non è vero che i bambini non vogliono parlare. Siamo noi adulti che non sappiamo riconoscere le esigenze e le risorse di comunicazione dei soggetti in età evolutiva. Perché siamo indaffarati, imbarazzati, incompetenti dal punto di vista emotivo e relazionale. Perché svalutiamo i bambini proiettiamo la nostra incompetenza su di loro. Perché abbiamo troppa fretta, poco tempo per pensare e pochi megabyte a disposizione per l’ascolto. Facciamo fatica a comprendere il bisogno dei bambini di confrontarsi con gli adulti sugli aspetti belli e sugli aspetti brutti della vita. Il bisogno dei bambini di confrontarsi e dialogare sulla sessualità come dimensione esistenziale ambivalente, di esprimere sulla sessualità comunicazioni assertive e gioiose, di manifestare dubbi e paure, domande di chiarimenti e curiosità, serene o disperate richieste di aiuto. Rosa ha dodici anni. Appartiene ad una famiglia molto ricca. Di soldi, ma non di sentimenti. Per sette anni è stata abusata sessualmente dal padre in modo estremamente seduttivo e manipolatorio e coinvolta in abusi di gruppo. Ha emesso per anni vari segnali di disagio le cui manifestazioni rientrano nelle varie check-list di indicatori di abuso sessuale. In questo periodo ha frequentato quasi regolarmente la scuola, saltuariamente la parrocchia e la squadra di pallavolo, è stata seguita in colloqui di sostegno psicologico per circa due anni per disturbi dell’apprendimento da uno psicologo privato, ha fatto colloqui con pediatri, medici, allenatori sportivi ed insegnanti in contesto pubblico e privato. Ma la rivelazione dell’abuso da parte di Rosa avverrà soltanto dopo sette anni alla sua nuova psicologa che avvia una psicodiagnosi dopo la separazione dei genitori. Qualcosa per tanto tempo non ha funzionato nella capacità di ascolto sociale. Qualcosa ha bloccato in tante figure professionali la sensibilità emotiva necessaria alla lettura cognitiva degli indicatori dell’abuso (Foti, 2001). Non solo lo psicologo che l’ha avuta in carico per due anni, ma numerosi altri professionisti adulti hanno messo in atto una barriera all’ascolto, riconducibile ad un atteggiamento di No entry, per utilizzare il concetto con cui Paula Heimann definiva l’area mentale di rifiuto dell’analista delle comunicazioni del paziente (Heimann, 1975). Le richieste di attenzione e di aiuto da parte di Rosa, nel corso dei suoi sette anni di abuso, richieste che appariranno dopo la rivelazione reiterate ed evidenti, si sono scontrate con un massiccio ricorso sociale alla rimozione. Quasi cent’anni fa in uno scritto, ricco di intuizioni molto importanti ed anticipatrici, Sandor Ferenczi scriveva: “Che cos’è la rimozione? Forse il modo migliore di definirla è diniego di fronte a dati di fatto. Ma mentre il bugiardo, nascondendo la verità o inventando cose che non esistono, inganna gli altri, l’attuale sistema di educazione fa sì che gli uomini mentano a se stessi, fa sì che, appunto, neghino davanti a se stessi pensieri e sentimenti che si agitano nel loro intimo” (Ferenczi, 1909, p. 40). Se i bambini apprendono a negare davanti a se stessi pensieri e sentimenti è ovviamente perché lo imparano dai genitori, che non li incoraggiano a confrontarsi con tutta la realtà. La rimozione da parte degli adulti coinvolti nel processo educativo è in qualche modo contagiosa: si trasmette di generazione in generazione e questo fa sì, pensa Ferenczi (1909, p.36), che la pedagogia “da tempo immemorabile non abbia compiuto progressi degni di nota”. Per imparare a rapportarsi con la verità del mondo interno e del mondo esterno i bambini hanno bisogno di un modello. I genitori e gli educatori dovrebbero riuscire ad aiutare il bambino a riconoscere e ad affrontare con il procedere della sua crescita i problemi dell’esistenza e le forme del cambiamento, con cui entra in contatto. Ma gli adulti non possono accompagnare il bambino nell’elaborare i vari aspetti della vita e del cambiamento, se essi stessi tendono a non elaborare questi aspetti. Genitori ed educatori tendono infatti a mentire a se stessi, ad accantonare i dati spiacevoli della loro esistenza, a respingere la mentalizzazione delle pagine più conflittuali della loro vita (legate alla sessualità, alla violenza, al rapporto con la malattia e la morte, ecc…), a reagire con imbarazzo e disagio alla possibilità di dialogare su questi temi, così come tendono a rimuovere i disagi, i desideri e le frustrazione della propria infanzia. Scrive Ferenczi (1909, p. 36): “Nelle sue interessanti lezioni sui compiti educativi del medico, il pediatra breslavese professor Czerny rimprovera ai genitori di non saper educare i loro figli e ne riconosce la causa nel fatto che essi ricordano male o non ricordano affatto la loro infanzia”. Mentire a se stessi significa negare e nascondere aspetti fondamentali dell’esperienza umana invece di riconoscere ed elaborare tali aspetti, per quanto possano risultare dolorosi, al fine di poterli affrontare concretamente e costruttivamente. Adulti che rimuovono insegnano ai figli e agli allievi a rimuovere. Adulti che ricorrono al diniego o all’accantonamento di fronte ai fatti creano tra loro e i soggetti in età evolutiva una barriera alla comunicazione, che impedisce a questi ultimi di mettere in parola dubbi, ansie, interrogativi, di accedere alla comunicazione e al dialogo con i genitori su temi fondamentali dell’esistenza quali la sessualità, la nascita, la morte, la malattia, i conflitti tra le persone, la violenza, la sopraffazione, l’abuso… Genitori che rimuovono scoraggiano il desiderio naturale dei figli di cercare di percepire la realtà e di farsene un’idea il più possibile completa, frustrano nei figli la curiosità, il desiderio di conoscere, di capire la vita e la verità. Di capire la vita, ma anche la morte, che è un aspetto, una cornice, fondamentale dell’esistenza.
2. LA RIMOZIONE DELLA MORTE
Nella nostra esperienza di conduttori di gruppi di formazione, basati sull’intelligenza emotiva e sulle metodologie del Centro Studi Hansel e Gretel (Foti, Bosetto, 2000). abbiamo ripetutamente constatato, sia nei gruppi composti da bambini/ragazzi, sia nei gruppi di adulti come possano emergere esperienze di separazione, di lutto, di disgrazia, di morte, anche quando la tematica al centro del lavoro di gruppo è genericamente l’ascolto del disagio o un tema più specifico quale l’educazione all’affettività e alla sessualità oppure l’aggressività e il conflitto. Se si crea infatti nel gruppo in relazione al compito un sufficiente spazio di accoglienza autentica dei sentimenti dei partecipanti e un clima comunicativo basato sulla comprensione reciproca, può succedere spesso che tematiche come quelle della separazione, del lutto, della disgrazia, della morte, massimamente oggetto di interdetto culturale e di rimozione psicologica, possono far capolino in qualche misura, anche in un contesto formativo, nel momento in cui il gruppo stesso comincia a condividere problemi, difficoltà e vissuti emotivi, anche spiacevoli, in un ambiente non giudicante, sperimentando la possibilità di trovare risposte di accettazione ad aspetti di debolezza e di impotenza di ciascuno, che possono dunque, almeno per qualche momento, essere comunicati e non più nascosti. La rimozione della morte è in qualche modo paradigmatica: è rimozione di ciò che può essere traumatico nell’esistenza umana. La difficoltà sociale ad ascoltare le tematiche della morte è della stessa natura della difficoltà sociale ad ascoltare le tematiche del trauma: entrambe sottendono il bisogno difensivo di non confrontarsi con la fragilità e la perdita di controllo che incombono sulla condizione umana (De Zulueta, 1993). Pertanto il poter contrastare la tabuizzazione della morte, il poterne parlare all’interno di un gruppo di genitori o di educatori può costituire un importante momento formativo anche nella prospettiva della prevenzione della violenza all’infanzia. Maria, un’insegnante, racconta in un gruppo di formazione sulla relazione educativa che ad otto anni, mentre stava passeggiando con la propria mamma, rimase colpita dalla presenza di un’ambulanza. Per terra c’era un uomo. Tutti quanti intorno dicevano che era morto con un lenzuolo che copriva il suo volto. Maria chiese: “Mamma cosa è successo?” La mamma: “Non è niente, è addormentato”. “Ma… dicono che è morto”. “Non è morto, è addormentato, su dai andiamo!”. Maria bambina si è sentita tradita, sapeva benissimo che l’uomo non era addormentato, ma morto. Mentre l’insegnante racconta questo episodio della sua infanzia piange a dirotto dicendo: “Io avevo bisogno che mia madre condividesse con me il dolore per la morte di un uomo, non che mi prendesse in giro dicendomi che era addormentato”. Altri due casi possono esemplificare come nei processi educativi gli adulti tendano a rapportarsi alla morte attraverso la rimozione. Francesco ha quattro anni, la mamma decide di mandarlo a Genova da una parente perché la nonna sta molto male. La nonna dopo poco muore. Francesco ritorna non trova più la nonna. La mamma gli dice che la nonna è volata in cielo, non tornerà più, ma là in cielo starà molto bene. Francesco è molto triste, era molto affezionato alla sua nonna, si chiude in camera e piange senza riuscire a comprendere quello che è successo. Non capisce perché la nonna non ci sia più e perché nessuno pianga quando invece a lui il cuore gli si spezza, non capisce come mai agli altri non venga voglia di piangere e si chiede come mai nessuno parla più della nonna, tutti sembrano felici e fanno finta che non sia successo niente. Sandra ha 10 anni e un pesciolino a cui è molto affezionata. Una mattina la mamma si accorge che il pesciolino è morto. La mamma non sa come comportarsi. Decide in tutta furia di acquistare un altro pesciolino il più possibile simile al precedente. Sandra torna da scuola e immediatamente si accorge che quello non è il suo pesciolino. Scappa in camera e piange: capisce che il suo pesciolino è morto e che glielo hanno sostituito con un altro. Avverte che della morte del suo pesciolino non si può parlare, deve far finta che tutto ciò non sia accaduto. Tre storie in cui gli adulti mettono il silenziatore al bisogno dei bambini di confrontarsi con la verità della morte. Gli adulti rinviano una realtà consolatoria e mistificante, perché sono abituati ad autoconsolarsi. Quell’uomo non è morto è addormentato, il pesciolino non è morto: eccolo qui vivo e vegeto, la nonna non c’è più ma non siamo tristi. Gli adulti mentono al bambino, vogliono proteggerlo dall’impatto con la morte, perché in realtà mentono a se stessi, fanno fatica ad elaborare la dimensione del termine dell’esistenza e, a ben vedere, vogliono proteggere se stessi da un confronto aperto che si potrebbe aprire, nel momento in cui decidessero di non rimuovere, bensì di affrontare con il dialogo il tema della morte.
3. LA RIMOZIONE DELLA SESSUALITA’
Dalla rimozione del tema della morte passiamo alla rimozione della sessualità, e in particolare la rimozione del desiderio e dell’eccitazione sessuale. Spesso è proprio l’eccitazione sessuale la dimensione maggiormente impensabile e quindi indicibile anche fra medici, ginecologi, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri. Se c’è un aspetto che risulta mentalmente e linguisticamente conflittualizzato e tabuizzato anche tra gli addetti ai lavori, questo è il concetto di eccitazione sessuale. L’ammissione schietta e realistica che il soggetto umano è un soggetto che può eccitarsi sembra particolarmente difficile da pensare e da mettere in parola in particolare nel confronto con la generazione emergente. La causa di questa inibizione mentale e comunicativa può essere rintracciata nella tendenza dell’eccitazione sessuale ad essere associata più con la pregenitalità che con la genitalità, ad essere inconsciamente confusa con l’appropriazione distruttiva piuttosto che con la reciprocità e con lo scambio, a mescolarsi con l’aggressività e con il dominio, a sfociare nella perversione piuttosto che nel rispetto e nel riconoscimento dell’altro, e pertanto ad essere esposta ad un inevitabile senso di colpa. Moltissimi genitori negli interventi di formazione e sensibilizzazione ci rimandano il proprio disagio a mettere in parola la sessualità. Quando la famiglia è di fronte alla televisione, è un comportamento molto diffuso dei genitori quello di cambiare canale di fronte ad una scena erotica, facendo finta di niente, illudendosi che il bambino non si accorga dell’improvviso cambiamento. Una fantasia guidata, semplice, ma efficace, che abbiamo sollecitato in alcuni incontri di gruppo consiste nel chiedere a tutti i partecipanti di immaginare di essere a casa con i rispettivi i genitori e di guardare un film alla televisione in loro compagnia. Successivamente invitiamo gli interlocutori a fantasticare di assistere, mentre si è comodamente seduti insieme ai genitori sul divano, alla comparsa sullo schermo di alcune coinvolgenti scene erotiche. Diciamo a questo punto ai partecipanti all’esperienza: “Come reagireste, quali sarebbero i vostri pensieri o stati d’animo connessi a questa situazione: voi e i vostri genitori di fronte ad una scena erotica alla TV? Dedicate qualche secondo ad immaginare questa situazione.” I partecipanti all’incontro prendono in genere contatto con il dilagante disagio, in una situazione di vicinanza fisica e psichica con i propri genitori, ad interagire nei confronti della dimensione del desiderio sessuale: si può così prendere atto che nella maggior parte dei sistemi familiari si è siglata una regola implicita, in base alla quale ci si comporta come se la realtà dell’eccitazione sessuale non esistesse. L’impatto con scene erotiche alla televisione, mentre si è in qualche modo costretti a guardarle insieme, genitori e figli, produce una situazione di grande imbarazzo, in quanto massimamente conflittuale nei confronti della suddetta regola non scritta, che nel tempo è diventata una rassicurante regola, su cui genitori e figli hanno fondato un modo di vivere e un equilibrio. Ci si può anche interrogare sul perché la rimozione familiare dei riferimenti all’eccitazione sessuale è diventata una rassicurante regola omeostatica. Una risposta può essere la seguente: nel processo educativo e nelle vicende esistenziali che hanno coinvolto i genitori, la sessualità è risultata spesso una dimensione conflittuale ed impensabile, pertanto indicibile. In genere i genitori non sono riusciti a pensare alla dimensione sessuale come una dimensione fondamentale, non già da dimenticare o addirittura cancellare, bensì da mentalizzare, da riconoscere, nei suoi aspetti meritevoli di valorizzazione e nei suoi aspetti meritevoli di problematizzazione. Generazioni di genitori – senza che la pedagogia facesse “progressi degni di nota” - hanno vissuto la sessualità come frustrazione, come pericolo, come colpa, come ferita, come aspetto dell’esistenza su cui non soffermarsi con il pensiero e con la parola. Generazioni di genitori non sono riuscite a rappresentare la propria sessualità senza viverla, in maggiore o minore misura, con senso di angoscia e di conflitto. Siccome per questi genitori la sessualità non è stata una dimensione serenamente pensabile, dunque non è stata una dimensione serenamente dicibile. Non può circolare senza conflitti nella mente, dunque non può circolare senza inibizioni nella comunicazione. Di conseguenza la sessualità diventa un aspetto della vita che, come diceva un vecchio ritornello, “si fa ma non si dice”. Si può proporre ai partecipanti ad un incontro un ulteriore sviluppo dell’esercizio: “Pensate adesso di essere voi ora genitori che insieme ai vostri figli guardate un film con scene erotiche. Cosa può succedere? Anche per voi la dimensione sessuale rischia di essere una dimensione impensabile e pertanto indicibile?” In un’elaborazione riflessiva successiva a queste brevi fantasie guidate è importante sottolineare che la rimozione della sessualità nel confronto tra le generazioni parte dagli adulti: la generazione adulta s’è ormai abituata a non riflettere e non elaborare problemi, ferite, vissuti emotivi di conflitto o di colpa attinenti alla sessualità. Un tale atteggiamento di rimozione è stato interiorizzato dalla generazione emergente, che ha avuto modo ben presto di accorgersi del disagio procurato ai genitori dall’avvicinamento al tema sessuale: “Quella scena in televisione che potrei guardare tranquillamente da solo/da sola procura un forte imbarazzo ai miei genitori e di conseguenza a me. Il massimo disagio dei miei genitori diventa il mio massimo disagio.” Anche nella rimozione concernente la morte è possibile mettere in rilievo un analogo meccanismo: i figli imparano ben presto a proteggere i genitori dall’imbarazzo e di conseguenza se stessi dall’imbarazzo dei genitori. Si consideri il caso di Sandra, di cui abbiamo parlato. La figlia intuisce, pur senza una piena elaborazione consapevole, che la morte rappresenta un problema per la madre e non comunicherà alla madre il proprio dolore causato da una duplice fonte: la morte del suo piccolo animale e l’inganno subito. Il disagio, il conflitto, la colpa che appartengono ai genitori si trasmettono ai figli. I figli diventano loro stessi pieni di disagio e imbarazzo a guardare scene di sesso e, talvolta anche, di affettività in televisione in presenza dei genitori. Magari sarà il figlio stesso ad un certo punto a prendere l’iniziativa di cambiare canale, di cambiare discorso per non confrontarsi con i genitori su questo terreno. E, diventato adulto, tenderà a riproporre gli stessi meccanismi difensivi nel ruolo di genitore. Senza accorgersene gli schemi psichici e culturali si trasmettono così di generazione in generazione. Kohut e Wolf affermano che “non è tanto ciò che i genitori fanno, ma ciò che i genitori sono a influenzare il Sé del bambino”(cit. in Siani, 1993, p. 83). I genitori non trasmettono intenzionalmente e consapevolmente messaggi diseducativi ai figli; spesso non fanno altro che trasmettere ai bambini, il più delle volte inconsciamente, gli stessi modelli mentali con i quali sono stati a loro volta educati.
4. LA RIMOZIONE DELLA VIOLENZA
Qualche anno fa nel corso di alcuni telegiornali che davano notizia della scoperta di organizzazioni pedofile attive nel traffico di materiale pedo-pornografiche sono passate in televisione in prima serata alcune sequenze di film sequestrati a queste organizzazioni. La reazione delle forze politiche e dell’opinione pubblica è stata di forte indignazione. Umberto Galimberti (2000) si è interrogato in maniera critica su questa ondata di indignazione: “La ragione va cercata in quel corto circuito emotivo per cui la visione dei bambini violati fa scattare in ogni padre e in ogni madre il terrore della violazione dei propri bambini, e allora si spegne la televisione, e con la televisione una possibile aperta discussione con i propri bambini sulla pedofilia. Perché qui i casi sono due: o i bambini sono ancora così piccoli da non essere neppure sfiorati dal tema sessualità, e allora quelle immagini, come tante altre, passano inosservate; oppure sono già in una fase di precomprensione della sessualità e allora, invece di spegnere la televisione, bisogna aprire con loro una bella discussione e rispondere con chiarezza alle loro domande, per sottrarli a quella pericolosissima ingenuità che li rende troppo esposti a incontri malaugurati. Ma tutto questo è molto difficile per genitori che o non discutono con i figli o, se discutono, non discutono mai di sesso”. Dunque la Grande Indignazione per il fatto che i bambini sono stati esposti in prima serata ad immagini televisive, presunta fonte di turbamento, nasconde in realtà “sotto il paludamento dei sani principi” l’incapacità di dialogare con i propri figli di sessualità e di violenza. “Chi non conosce il pericolo – conclude Galimberti - è massimamente esposto e non si riduce l’esposizione con il Grande Silenzio.” In realtà la difficoltà dei genitori ad utilizzare gli stimoli dei media per discutere con i figli della pedofilia nasce dal fatto che nella comunicazione familiare domina non soltanto la rimozione della sessualità, ma anche la tendenza ad accantonare e a rendere impensabile ed indicibile la dimensione della violenza. Esiste una rimozione che colpisce specificatamente le forme dell’atrocità, del dominio, del sadismo, della perversione. La risposta normale della mente umana di fronte a queste manifestazioni è quella di tentare di rimuoverle o di farle del tutto scomparire dalla coscienza. Il fenomeno della pedofilia e dell’abuso sessuale sui minori presenta in effetti delle sconcertanti analogie con la persecuzione di alcuni popoli che risultano minoranza perdente e con la stessa. persecuzione ebraica, così come viene descritta, per esempio da Primo Levi (1986). L’abuso sessuale dei bambini, intra o extra familiare, gestito dal singolo pedofilo, dal genitore incestuoso oppure dall’organizzazione mafiosa o dalla setta satanica è in una certa misura accostabile all’Olocausto: in entrambi i casi si tratta di fenomeni non facilmente percepibili e quantificabili, fenomeni mentalmente intollerabili e pertanto in qualche modo incredibili ed impensabili. Sia la violenza all’infanzia sia la violenza del genocidio obbligano a confrontarsi con l’angosciante impotenza delle vittime innocenti e costringono a confrontarsi con le dimensioni del sadismo e della perversione di cui la comunità umana è capace, mandando in frantumi le illusorie rappresentazioni dell’animo e delle istituzioni umane. Sia la violenza sessuale – da parte di singoli o di organizzazioni – sia la violenza dei lager vanno incontro a reazioni di incredulità che ostacolano la consapevolezza sociale o a reazioni di rimozione, di minimizzazione, o addirittura di negazione, una volta che la consapevolezza faticosamente si è imposta.
5. IL MANCATO ASCOLTO E L’ESPROPRIAZIONE AI DANNI DEL BAMBINO
Nei corsi di formazione per insegnanti, educatori o operatori sociali, negli incontri di sensibilizzazione dei genitori si registra spesso l’atteggiamento difensivo degli adulti di fronte alle problematiche della morte, della sessualità, della violenza. Si ascoltano comunicazioni di questo tipo: “Sappiamo che a quel bambino è morta la nonna, a cui era molto legato, ma non affrontiamo questo argomento con lui perché abbiamo paura di toccare una ferita”. Oppure: “Vediamo che la bambina ha molta diffidenza nei confronti degli insegnanti maschi e fa dei giochi con riferimenti alla sessualità che ci sembrano incongrui con la sua età, ma evitiamo di fare domande. Non vogliamo metterla in difficoltà”. Oppure ancora: “Vediamo che nostro figlio s’interessa alla sessualità oppure certe volte si tocca i genitali e sembra provare piacere, ma noi evitiamo proprio di parlare con lui. Un po’ ci sentiamo impreparati, ma soprattutto non vorremmo bloccarlo… e non vorremmo neppure stimolarlo eccessivamente”. In questi casi genitori, operatori ed educatori sembrano molto premurosi nei confronti dei piccoli: non vogliono far soffrire il bambino, non vogliono fare interventi che inibiscano, turbino o stimolino eccessivamente il bambino, senza tuttavia tener conto del proprio personale disagio ed imbarazzo rispetto a tematiche come la morte, la violenza, l’eccitazione sessuale. Inoltre gli adulti non riconoscono che i bambini sono già in grande difficoltà di fronte a questi temi e di fronte alla solitudine e alla carenza di informazioni, di cui soffrono: il loro malessere che comunque già esiste, e non è certo cancellato dalla rimozione, finisce per aggravarsi a causa della mancanza di dialogo e di confronto, a cui gli adulti li costringono “per il loro bene”. E’ importante che gli adulti sappiano riconoscere il proprio disagio nel pensare alla morte, alla violenza, alla sessualità. Il problema è dell’adulto, che si sente impotente nell’affrontare e nell’elaborare queste dimensioni negative o conflittuali ed ambivalenti dell’esistenza. Siccome tali dimensioni esistenziali sono oggetto di una grande rimozione da parte degli educatori, esse finiscono per diventare indicibili. Non si possono mentalizzare ed elaborare adeguatamente e quindi non se ne può parlare. Dall’impensabilità consegue l’indicibilità. Il bambino aspira alla verità, alla consapevolezza, al confronto, al dialogo. L’aspirazione del bambino viene svalutata e negata dall’adulto. Gli adulti non ne parlano, fanno finta di niente. Ciò che fa star male il bambino non è soltanto l’impatto frustrante con la morte, con la violenza o l’impatto conflittuale con un desiderio sessuale che egli non padroneggia. Ciò che lo fa star male è anche e soprattutto il suo dover restare solo, con la propria sofferenza, con la propria incertezza, con la propria confusione, privo di ascolto e di comprensione emotiva da parte del genitore o dell’educatore, espropriato della verità. L’impensabilità produce l’indicibilità e l’indicibilità viene poi razionalizzata, sostenuta da pseudo-giustificazioni etiche o pedagogiche. Parlare ai bambini della morte, della violenza e della sessualità sarebbe sbagliato e nocivo. Parlare ai bambini della morte, della violenza e di sessualità potrebbe attivare inquietudini, sofferenze, pulsioni che è meglio non sollecitare: “Perché affrontare il tema della morte e della sessualità, sono aspetti della vita che sono molto lontani dalla vita dei bambini? Perché parlare di rischi di abusi o maltrattamenti da parte degli adulti se i bambini provengono da famiglie dove sono benvoluti? Potrebbero essere sollecitati a inventarsi violenze che non ci sono… Perché rischiare con discorsi sulla sessualità di stimolare eccessivamente il bambino? Non bisogna svegliare il cane che dorme. Meglio non sollecitate i bambini a confrontarsi con il destino che li attende, con i desideri che gli appartengono, con i rischi che essi corrono di fronte alla perversione di molti adulti.” Viene negato ai bambini il bisogno e il diritto d’imparare a percepire, ad elaborare, a vivere costruttivamente dimensioni insopprimibili della vita, quali il rapporto con la morte, con la sessualità e con la violenza. Il fatto che risultino aspetti coinvolgenti, rischiosi, conflittuali non è una buona ragione per sottrarli alla crescita mentale dei figli o degli allievi, semmai si può pensare il contrario: proprio perché risultano aspetti con tali caratteristiche, devono essere pensati insieme nella relazione interpersonale ed educativa tra adulti e bambini: i soggetti in età evolutiva non ne devono essere espropriati. Il concetto di espropriazione come operazione traumatica, o comunque patogena, dei genitori e degli adulti in genere nei confronti dei bambini, è stato evidenziato da Borgogno (1997) nella sua riflessione sul pensiero di alcuni psicoanalisti come Ferenczi o come gli “indipendenti” inglesi) molto attenti al ruolo dell’ambiente familiare nella genesi della sofferenza mentale. I genitori possono intrudere violentemente nella vita dei figli, interferendo nel loro sviluppo autonomo, ma possono anche all’opposto, altrettanto distruttivamente, espropriare i figli di potenzialità di vita e di crescita mentale. “Nell'ottica indipendente - scrive Borgogno - i genitori non offrono solamente significati, quadri cognitivi e modelli interattivi, che inevitabilmente nel bene o nel male operano sull'evoluzione dei bambini e della loro personalità. Trasmettono anche continui segnali affettivi, che selezionano e favoriscono determinati livelli dell'esperienza piuttosto che altri, orientando e guidando il loro essere nel mondo. Attivano e disattivano in sostanza, con il loro comportamento globale, potenzialità e doti originarie dei bambini e interi settori della realtà interna ed esterna, aiutando a riconoscerli, a viverli, a pensarli e quindi ad affrontarli (con fiducia e speranza) oppure spingendo a non viverli, non riconoscerli, non pensarli e non affrontarli. E' su questo terreno che entrano in gioco l'intrusione e l'estrazione-espropriazione, che sono spesso causa di patologia, secondo gli Indipendenti” (Borgogno, 1995).
6. SUPERARE LA RIMOZIONE PER APRIRSI ALL’ASCOLTO
I bambini, legittimamente e sanamente, sono interessati non solo al confronto con la morte e con la sessualità, ma anche al confronto con la dimensione della violenza che pesa già su alcuni di loro e che, in ogni caso, rappresenta un rischio per tutti. I bambini che non sono esposti a situazioni di maltrattamento o trascuratezza gravi sono interessati a capire i riferimenti alle vicende tragiche di bambini scomparsi o abusati, di cui sentono parlare alla televisione ad elaborare le ansie sui pericoli che incombono su di loro, a comprendere i casi di alcuni coetanei più sfortunati che incontrano nella vita scolastica. I bambini invece che stanno subendo situazioni di maltrattamento a maggior ragione hanno necessità di confrontarsi sul tema della violenza ai danni dei bambini per rendersi conto che tale violenza è: a) diffusa; b) gravemente ingiusta; c) superabile con l’intervento di protezione. Questi bambini hanno necessità di trovare adulti capaci di ascolto empatico e di intelligenza emotiva. Solo così potranno sentirsi a proprio agio e superare gradualmente le proprie ansie e le ingiunzioni interne al mantenimento del silenzio, del segreto, dell’imbroglio che avvolgono l’abuso. L’ascolto del disagio dovuto a cause relazionali, familiari ed ambientali e a maggior ragione l’ascolto dell’abuso sessuale si rivela un ascolto particolarmente difficile e sofferto per i genitori e per i professionisti, generando nell’ascoltatore specifiche resistenze di tipo adultocentrico[1]. Abbiamo visto la tendenza degli adulti a rimuovere il tema della violenza¸ della sessualità, della morte. La tendenza a rimuovere l’abuso sessuale è particolarmente consistente, in quanto somma e condensa il bisogno di rimuovere e negare tutti e tre gli aspetti: la violenza, la sessualità, la morte. L’abuso sessuale è un fenomeno che, per quanto avvolto dalla gentilezza e dall’inganno della seduzione pone in essere una violenza; è un evento che è messo in movimento dal desiderio sessuale non controllato dell’adulto e può sollecitare un’eccitazione sessuale, prematura e destrutturante, nella piccola vittima ed, infine, è un trauma che, come ogni trauma evoca la morte, in quanto situazione di radicale impotenza, di perdita del controllo sulla realtà, di caduta dei legami di attaccamento e sostegno. Il mondo degli adulti esprime un bisogno di far silenzio rispetto alle tragedie dell’infanzia , un bisogno di non vedere, di non pensare, di non affrontare che finisce per rinnovare a ogni momento la solitudine e l’impotenza del bambino a disagio o maltrattato rispetto al suo dolore, alla sua confusione, al suo bisogno di dialogo, di sostegno, di protezione. Ricordiamo il caso di una bambina di 9 anni, Teresa, fisicamente minuta con dei grandi occhi neri. Teresa frequenta la quarta elementare, viene descritta dagli insegnanti come “bambina un po’ strana”, con un ritardo mentale nella comprensione e nella memoria. In certi periodi Teresa in classe si masturba in modo ripetitivo e continuativo: qualche volta la bambina si è alzata la gonnellina in mezzo alla classe, per far ridere i suoi compagni. Quest’anno vi è una nuova insegnante di sostegno, Laura, che rimane molto colpita da questi comportamenti di Teresa. Ne parla con le colleghe di classe che le dicono sorridendo: “Teresa la conosciamo da anni: è sempre stata strana ed è per questo che ha il sostegno, non capisce, ha scarso autocontrollo, sono stati fatti tutti i tentativi possibili anche con la famiglia, non c’è da preoccuparsi più di tanto”. Laura pensa: “Beh! Forse è vero: sono io che mi preoccupo troppo…”. Un giorno Laura vede che Teresa è più sofferente e scombussolata del solito, le chiede con molta attenzione: “Ti vedo molto in difficoltà. Cosa ti succede, Teresa, hai voglia di parlarmene?” La bambina risponde che va tutto bene, si chiude e non aggiunge altro. Nei giorni seguenti è Teresa, che si avvicina a Laura dicendole che lei il compito non l’ha potuto fare, perché il fratello più grande le ha fatto male alla mano e che a casa non ci vuole proprio andare. Laura in quel momento ha fretta ed è preoccupata per una questione di lavoro: non è disponibile ad ascoltare e ad approfondire. Non si sofferma sulla comunicazione della bambina e le risponde distrattamente: “Ne parleremo, ma adesso bisogna proprio tornare in classe…” Solo nei giorni successivi l’insegnante, riflettendo sulla tristezza e la rabbia, più intense del solito con cui Teresa le aveva fatto quella comunicazione e mentalizzando la propria indisponibilità a soffermarsi sulle cose dette dalla bambina, riesce a riprendere la comunicazione: “Teresa, tu l’altro giorno hai detto una cosa che mi ha fatto pensare: mi hai detto che tuo fratello più grande ti ha fatto male alla mano e che a casa non ci volevi tornare. Sai, ci ho ripensato… mi è dispiaciuto di non avertelo chiesto subito, ma non ci avevo la testa quel giorno. Ti va adesso di spiegarmi meglio?” “Perché a casa non ci sto bene…” La bambina si passa ripetutamente le mani nei capelli. Laura sente, l’ansia, la tensione, la sofferenza di Teresa e dice: “Mi sembra che a ripensarci ti viene da star male...”. “ Sì, io ci sto male…”. E aggiunge: “… mi fa male, mi fa male”. “ Chi ti fa male?” Teresa a poco a poco si sente capita ed inizia a raccontare che a casa non ci vuole andare perché è il papà a farle male… a farle male alla farfallina. Laura ha rischiato di lasciar cadere l’implicita richiesta di aiuto di Teresa, perché non c’era spazio nella sua mente per registrare e valorizzare il messaggio della bambina, che, come un filo attorcigliato, attendeva qualcuno che l’accogliesse e lo dipanasse. Poi Laura ci ha ripensato e s’è resa conto che stava accantonando la comunicazione, carica di disagio, della sua allieva. Ha riconosciuto la propria indisponibilità prima tra se e se stessa e poi con la bambina. Ha ripreso il filo comunicativo con Teresa e ha riparato al movimento difensivo di rimozione che aveva in precedenza messo in atto.
7. CONCLUSIONI
Da anni Teresa lanciava segnali di svelamento passivo dell’abuso (cioè uno svelamento affidato ai sintomi e ai comportamenti quali la masturbazione o il gioco insistente dell’alzarsi la gonna). Questi segnali cadevano nel vuoto e nel silenzio. L’insegnante ha aiutato l’allieva a rompere la muraglia di silenzio, che da anni circondavano e perpetuavano la sua vicenda traumatica. Grazie alla disponibilità emotiva, comunicativa, relazionale di Laura e attraverso il riconoscimento da parte di quest’ultima dei propri limiti in quanto ascoltatrice, la bambina ha potuto procedere verso uno svelamento attivo (affidato ad un’esplicita verbalizzazione) dell’abuso. Solo percependo e controllando la tentazione della rimozione è possibile aprirsi all’ascolto del disagio in tutte le sue manifestazioni e all’ascolto dell’abuso in particolare. Laura ha riconosciuto e contrastato la propria tentazione di voltarsi dall’altra parte. E’ dunque fondamentale comprendere il seguente assunto: è l’adulto che costruisce le barriere all’ascolto dei bambini e alla comunicazione da parte dei bambini. E’ importante prendere atto della consistenza del silenzio come strategia pedagogica millenaria (Miller, 1982), che tende a stroncare la voglia di ascolto rispettoso e di dialogo dei bambini. L’indisponibilità mentale, di tempo, di energia impedisce di assumere una posizione recettiva di ascolto, fatta di disponibilità e di vicinanza emotiva. Questa indisponibilità può essere momentanea, come nel caso esaminato dell’insegnante Laura, oppure può essere duratura, nelle situazioni in cui la mente dell’adulto è ingombrata da preoccupazioni, conflitti, carenze che non consentono di fare uno spazio per accogliere la comunicazione di disagio del bambino. Le ferite riportate nella propria infanzia e nella vita attuale, qualora non siano state elaborate, spingono l’adulto a costruire barriere all’ascolto. Se le tematiche della morte e della violenza ricordano ai genitori traumi o sofferenze accantonate, quasi non fossero accadute, diventa impossibile discutere su questi aspetti con i figli, perché il dialogo riaprirebbe ferite non rimarginate. Se la vita sessuale del genitore è stata segnata da ferite, abbandoni, umiliazioni, diventa fortissima la tentazione di mettere in atto una strategia di silenzio in materia sessuale nell’educazione dei figli. Se prevale la rimozione nei confronti della propria infanzia, l’insensibilità verso il disagio dell’altro costituirà un insormontabile ostacolo all’ascolto. Il pregiudizio è un impedimento grave al dialogo e alla comunicazione. Anche l’allieva Teresa nel caso esposto era vittima di un pregiudizio stigmatizzante, in quanto bambina “strana”, bambina “ritardata”, bambina che rende inutili sforzi o interventi educativi di qualsiasi tipo. Lo schema interpretativo con cui Teresa era stabilmente rappresentata dalle sue insegnanti, prima dell’arrivo di Laura, impediva a queste ultime di mostrare vicinanza emotiva alle varie forme di malessere che di volta in volta la bambina esprimeva. Si creava pertanto una situazione in cui le insegnanti non attivavano certo quei segnali di disponibilità emotiva all’ascolto che consentono ai bambini di esprimere le proprie difficoltà. Pesanti e diffusi pregiudizi ai danni dei bambini sono quelli relativi alla presunta tendenza dei bambini a mentire, della presunta insensibilità, passività ed incompetenza del bambino. Queste rappresentazioni, che costituiscono un pilastro ideologico dell’adultocentrismo, negano le risorse del bambino come centro attivo di competenze e demotivano l’ascolto, portando ad atteggiamenti sul piano comportamentale, relazionale e comunicativo di tipo massicciamente svalutante nei confronti dei bambini. Spesso gli adulti tendono a soffermarsi su ciò che conferma i loro pregiudizi già definiti, piuttosto di aprirsi alla comprensione di esperienze e vissuti emotivi ancora sconosciuti.Possiamo in conclusione interrogarci su come far cadere le barriere alla comunicazione. Evidenziamo schematicamente quattro indicazioni. 1. Riconoscere i propri limiti in quanto ascoltatori. E’ l’adulto che costruisce la cappa di silenzio che pesa sui bambini. E’ l’adulto che può creare un clima favorevole alla comunicazione da parte dei bambini. E’ l’adulto che può mettere i bambini a proprio agio e consentirgli di esprimersi. Occorre dunque che i genitori e gli educatori mettano in discussione l’immagine di sé idealizzata di ascoltatori perfetti e siano consapevoli della propria tendenza a negare a se stessi e alla comunicazione con i bambini pensieri e sentimenti legati ad aspetti importanti della realtà e della vita. 2. Fare attenzione al bambino. Mettere il bambino al centro di un interesse rispettoso e tendente al dialogo. Sviluppare nei suoi confronti una curiosità partecipe. Dedicargli tempo, disponibilità mentale ed energia per sollecitarlo a parlare. Non temere di far soffrire il bambino se lo si spinge a mettere in parola le sue reali difficoltà e i suoi problemi più sentiti. 3. Mettersi dal punto di vista del bambino. Sviluppare l’empatia come capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro. Comprendere le qualità e le potenzialità del bambino, il suo punto di vista, il suo sguardo sul mondo. Per essere sensibili all’ascolto dei bisogni emotivi dell’interlocutore bambino, occorre ricordarsi, almeno parzialmente, di essere stati bambini con specifiche sofferenze, ed esigenze, con una sufficiente capacità di comprensione e solidarietà verso la nostra infanzia, senza un massiccio ricorso alla rimozione, alla negazione, alla scissione di parti della nostra storia e della nostra mente. 4. Sviluppare l’intelligenza emotiva (Goleman, 1994; Gottmann, 1997). Riconoscere, mettere in parola e rispettare i propri sentimenti per poter fare altrettanto con i sentimenti del bambino. Il vero ascolto mobilita le emozioni. Imparare a dare un nome ai propri e agli altrui sentimenti, valorizzando e legittimando i segnali emotivi e gli stati d’animo dei bambini. La tristezza, il dolore, la rabbia, la solitudine, la confusione, l’eccitazione, il senso di colpa, la vergogna, l’angoscia sono emozioni che si possono pensare, nominare, comunicare, sentire.
Bibliografia
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[1] Sul concetto di “adultocentrismo” cfr. il numero di Rompere il silenzio maggio ’98 dedicato a Adultocentrismo: il mondo dominato dagli adulti, attualmente rieditato nei Dossier del Centro Studi
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