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La guerra e l’odio per i bambini

di Gianni Guasto

 

                                                                  a Maddalena, mio senso del dopo

 

1. Warum Krieg?

Nel 1931, Albert Einstein, su incarico di un istituto culturale appartenente alla Società delle Nazioni, invitò Freud a partecipare ad un dibattito epistolare sul tema della guerra. Dall’incontro tra i due scienziati nacque così un carteggio, che venne pubblicato nel 1933 con il titolo “Warum Krieg?” (Perché la guerra?) 1.

Ponendo a Freud la domanda: “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”, Einstein era mosso dalla lucida consapevolezza, derivante dalle sue conoscenze scientifiche, che l’argomento fosse ormai “questione di vita o di morte per la civiltà”, e, parimenti, che tutti i tentativi di soluzione intrapresi fino a quel momento fossero da considerarsi falliti..

Einstein, uomo di scienza molto vicino a quelle scoperte che avrebbero radicalmente cambiato l’umanità, fornendole un’inedita, terrificante consapevolezza circa il pericolo di un’imminente e radicale autoestinzione, sentiva come l’aspetto oscuro e irrazionale della volontà e del sentimento umano, costituisce il principale ostacolo alla comprensione del fenomeno, e come le sue pur straordinarie dotazioni scientifiche non gli fossero, a tal fine, di alcun aiuto.

Di qui la risoluzione di interpellare Freud: Einstein, dal canto suo, poteva esaminare soltanto l’aspetto “esteriore, organizzativo” del problema, consistente nella creazione di un’autorità legislativa e giudiziaria sovranazionale, cui fosse affidato il compito di comporre i conflitti tra le nazioni.

Ma poiché ogni tribunale che non abbia la forza di imporre il rispetto delle proprie decisioni è destinato a soccombere, tale progetto sarebbe risultato realizzabile soltanto nel caso in cui ogni stato aderente a tale patto fosse risultato disponibile a rinunciare in parte alla propria sovranità.

Una tale rinuncia sarebbe però stata ostacolata dalla classe dominante, assetata di potere, e, in particolare da coloro che “vedono nella guerra soltanto un’occasione per promuovere i loro interessi personali”.

Ciò constatato, si poneva il problema di capire come tale minoranza possa asservire ai propri interessi le masse, che a cagione della guerra possono soltanto soffrire e perdere, e, nonostante il fatto che il potere ha nelle sue mani la scuola, la stampa, e le organizzazioni religiose, come avvenga che “la massa si lasci infiammare con i mezzi suddetti, fino al furore, o all’olocausto di sé”.

La risposta che, all’epoca, Einstein è in grado di fornire non è poi molto diversa da quella che, sconsolatamente darà Freud: “l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e distruggere”, una passione che, rimanendo allo stato latente in tempi normali, può essere attizzata e portata al livello di una psicosi collettiva.

La terza domanda che Einstein rivolge a Freud riguarda la possibilità di trovare soluzioni in grado di rendere gli uomini capaci di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione.

Nella risposta di Freud, è presente fin dall’inizio un sentimento di cautela (“sono spaventato”) e forse persino di insofferenza di fronte all’impossibilità di fornire risposte soddisfacenti ad un quesito di tale portata.

Ad Einstein che sostiene che diritto e forza sono inscindibili, Freud obietta che il diritto deriva in realtà dalla violenza, che da forme più marcate di sopraffazione ha, lungo il percorso dalla preistoria alla storia, lasciato il posto a forme di dominio maggiormente conservative. L’avversario in un primo tempo viene distrutto, poi soltanto soggiogato, ma questo fondamentale passaggio incontra le difficoltà che provengono dalla persistenza dei sentimenti di rancore nel nemico assoggettato e dai pericoli che ne derivano.

Freud commette qui l’“eresia” (Fornari, 1966)2 di far derivare il Nomos da Thanatos, la pulsione di morte, riprendendo temi del precedente “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte”3, in cui aveva insistito sul fatto che la guerra costringe gli uomini a disilludersi circa il valore della propria civiltà, non sapendo essi utilizzare il grado di civilizzazione raggiunto quale antidoto contro la ricaduta nella barbarie, essendo anzi la fonte delle leggi morali che dovrebbero impedire la guerra, la stessa che la scatena.

Dall’originario prevalere del più forte sul più debole, il monopolio della violenza viene gradualmente trasferito alla comunità, che ha saputo opporsi allo strapotere del singolo, in base al principio secondo il quale “l’union fait la force”. Di qui, secondo Freud, nasce il diritto, ma ben presto, anche il nuovo soggetto collettivo non può astenersi dall’intraprendere guerre, in occasione delle quali il cittadino si rende conto che “lo Stato ha interdetto al singolo l’uso dell’ingiustizia, non perché intenda sopprimerla, ma solo perché vuole monopolizzarla, (…) posto che la coscienza morale, lungi da essere quel giudice inflessibile di cui parlano i moralisti, altro non è all’origine che angoscia sociale” (1915, passim)..

Un Freud anarchico, dunque, radicalmente critico di ogni forma di stato? Ciò contrasterebbe con l’immagine politicamente conservatrice che, a ragione o a torto, gli viene spesso attribuita.

Certamente un Freud a disagio, infastidito, secondo quanto racconta Jones, dalla discussione con Einstein, che in seguito considerò “sterile e noiosa”. Perché? Si sono cercate diverse risposte, ma sopra tutte le motivazioni, è lecito supporre che nel Freud “mistico” (in senso bioniano), predestinato e dannato al compito di portare agli uomini una nuova conoscenza, abbia prevalso il disappunto legato al fatto di non riuscire a fornire una risposta meno sgradevole di questa: “non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini” (1931.

 

2. Edipo e Crono: la guerra come infanticidio differito

In “Psicoanalisi della Guerra” (1966), Franco Fornari compie una lunga riflessione sull’argomento, partendo da un libro di Gaston Bouthoul4, un sociologo particolarmente sensibile allo studio degli aspetti inconsci dei fenomeni di massa, come si evince dal fatto che egli definisce preliminarmente l’esistenza di alcuni ostacoli fondamentali allo studio delle guerre, che sono riconoscibili anche dalla psicoanalisi:

1) la pseudoevidenza della guerra, intesa come fatto noto del quale ognuno crede di conoscere le cause;

2) l’illusione che la guerra dipenda interamente dalla volontà cosciente degli uomini, mentre le motivazioni coscienti sarebbero epifenomeni tendenti ad impedire il raggiungimento della percezione delle tendenze distruttive profonde, e il loro rapporto con alcune modificazioni strutturali della società;

3) l’illusionismo giuridico, vale a dire quell’insieme di razionalizzazioni giuridiche, tendenti a razionalizzare la guerra, legalizzandola.     

La guerra appare a Bouthoul come una istituzione distruttiva volontaria, che entrerebbe in gioco nelle società provviste di un eccesso di uomini giovani che rappresentano una struttura sociale potenzialmente esplosiva.

La guerra è qui descritta come un’epidemia psichica, volta a “compensare” gli “effetti collaterali” della rivoluzione demografica iniziata alla seconda metà del sec. XIX, e della vaccinazione jenneriana, prima delle quali la mortalità infantile raggiungeva, in Europa, il 70%.

Vista da tale prospettiva, la guerra si rivela quindi un infanticidio differito, in rapporto di proporzione diretta con la diminuzione della mortalità infantile.

 

Secondo Fornari, tale ipotesi sembra concordare con le impostazioni psicoanalitiche di base, ammettendo nell’uomo l’esistenza di impulsi inconsci di ostilità distruttiva nei confronti dei figli.

Crono come capovolgimento di Edipo, insomma: l’ostilità verso i figli come “soluzione” del conflitto edipico, consistente nel rivolgimento su di essi dell’ostilità precedentemente rivolta contro i genitori.

Tale ipotesi, sgradevole e difficile da accettare persino per qualsiasi psicoterapeuta che abbia figli, trova tuttavia una quantità impressionante di conferme, sia nel materiale clinico desunto da sogni di pazienti che nella vita cosciente sono alieni da comportamenti altamente distruttivi, sia negli studi di antropologia. La stessa istituzionalizzazione delle percosse nei confronti dei bambini, quale strumento pedagogico che fa parte del bagaglio culturale dell’uomo da epoche antichissime (ben antecedenti la terrificante “schwartze pædagogie”, tanto efficacemente descritta da Alice Miller5), dimostra che l’affetto per i figli, è sempre stato costretto a convivere con sentimenti di ben altro segno.

Persino la maternità si accompagna, come è noto da tempo, ad ubiquitari sentimenti aggressivi della madre nei confronti del bambino, correlabili in termini di consonanza, identificazione e formazione reattiva con l’aggressività primaria del neonato, descritta da Melanie Klein e dalla sua scuola.

Tuttavia l’ostilità inconscia dei genitori nei confronti del bambino solo in particolari condizioni diventa pregnante sul piano clinico, prendendo il sopravvento sulle pulsioni libidiche. In tali casi essa compie il salto qualitativo dall’essere rappresentazione fantastica a diventare comportamento agito, con le gravi conseguenze che esporremo meglio in seguito, parlando del maltrattamento infantile.

 

3. La guerra come elaborazione paranoica del lutto:

il contributo di Franco Fornari

Se il disappunto di Freud derivante dalla sgradevolezza del suo messaggio era aggravato dalla consapevolezza di muoversi in un mondo ostile, pronto a liquidare la sua opera con una battuta sprezzante, trent’anni dopo Fornari può contare su una diversa sensibilità da parte dell’interlocutore non psicoanalista: è Bouthoul stesso che pone, da sociologo, le radici inconsce del fenomeno collettivo “guerra”, all’origine della difficoltà di approccio scientifico al medesimo.

Parole come “pseudoevidenza”, “illusione”, “motivazioni coscienti come epifenomeni che impediscono la conoscenza”, “illusionismo giuridico”, conferiscono alla guerra uno spessore ancor più irrazionale ed inquietante.

Non bastano più, a spiegarlo, elementi quali il “disagio” e il fallimento della civiltà rispetto al compito di contenere gli impulsi distruttivi, occorre riflettere sulla psicologia dei gruppi, sulla scia del filone aperto da “Psicologia delle Masse e Analisi dell’Io”, cioè degli studi concernenti i processi di identificazione del singolo nel gruppo, la “coincidenza della pluralità con l’unità” (Fornari, 1966), che Freud connette con i fenomeni ipnotici e che prefigurano la definizione dei concetti di identificazione proiettiva e introiettiva, che tanta fortuna avranno in seguito presso la scuola kleiniana.

Gli studi di psicoanalisi applicata all’antropologia, hanno messo in evidenza i riti che presiedono alla fondazione del gruppo, quali la castrazione simbolica (Theodor Reik), e l’interruzione del rapporto con la madre, che viene sostituito, secondo Geza Roheim, dal rapporto con il gruppo.

L’appartenenza al gruppo implica quindi la mutilazione di una parte di sé, mentre la relazione di dipendenza dal gruppo assume un significato sostitutivo rispetto alla perduta relazione di dipendenza dalla madre, e pertanto costituisce un tentativo di elaborazione del lutto di tipo maniacale, cioè improntato alla sostituzione a fini di negazione della perdita.

Il sostituto della madre che in tal modo i membri del gruppo si rappresentano, è, secondo Fornari, un’entità fantasmatica, un “corpo mistico” la cui presenza non è riducibile a quella degli altri componenti il gruppo.

I riti iniziatici rappresentano il corpo mistico in forma reificata, ricorrendo ad una simbologia che consente l’identificazione introiettiva: l’acqua del battesimo, l’unguento della cresima, il pane eucaristico, l’estrema unzione, il crisma sacerdotale, “implicano il mettere sul corpo o dentro il corpo di ogni individuo un’entità carismatica unica (…) indispensabile a sancire l’appartenenza al gruppo” (Fornari).

Nel rapporto interindividuale tra il bambino e la madre, i meccanismi di identificazione proiettiva ed introiettiva costituiscono un mutuo scambio di beni emotivi reali, mentre nel caso della fondazione dei gruppi, finalizzata a rimpiazzare l’oggetto materno perduto, gli stessi meccanismi di identificazione proiettiva e introiettiva si basano su finzioni reificate.

Proprio perché funzionali a compensare la perdita dell’oggetto primario, tali funzioni sono attinenti al rituale del lutto.

Nel valutare l’importanza del lutto ai fini di indagare il significato della guerra in quanto “industria della morte”, Fornari ricorda come la dimensione del lutto non sia soltanto privata ma anche riconoscibile come fenomeno sociale.

Il lutto (diversamente dall’amore e dalla sessualità che ricercano la discrezione, l’intimità, la privacy) ha bisogno di essere testimoniato, ostentato, attraverso una serie di forme culturali ben riconoscibili.

Tale ostentazione si traduce nella necessità di mostrare agli altri le prove del proprio cordoglio, addirittura la volontà di identificarsi con il defunto (come accade quando si indossano abiti e paramenti neri), e di partecipare al rito funerario. Diversamente ci si sente in colpa.

Come suggerisce Alix Strachey, la necessità di rendere pubblico il cordoglio, è connessa con la presenza di emozioni legate a fantasie inconsce di annientamento dell’altro, che vengono così sottoposte a negazione. In tal modo si chiamano gli altri a testimoniare di non essere noi gli uccisori, ma gli uccisi.

Anche la fede nell’immortalità dell’anima appare connessa con tali fenomeni inconsci: “se la persona amata non è veramente morta, allora io non l’ho uccisa” (elaborazione maniacale del lutto).

In tal caso il processo del lutto è destinato a fallire, poiché le anime immaginate immortali per negare la morte, diventano spiriti, potenzialmente persecutori.

Pertanto il rituale della tumulazione (“mettere una pietra sopra” il defunto), e della propiziazione (elargire doni materiali come cibi e oggetti preziosi nei popoli primitivi, o spirituali, come le messe in suffragio, nella nostra civiltà), diventano espressioni di un rituale che ha come fine il controllo dell’angoscia persecutoria.

La fenomenologia del lutto è quindi una manifestazione sociale che non trova giustificazione nel mondo esterno, ma in quello interno, in quanto prescinde dall’esame di realtà (la realtà concreta del cadavere privo di vita), per operare nell’ambito del senso di colpa.

Il lutto in quanto esperienza sociale in contatto con le rappresentazioni interne, anziché con la realtà esterna, ha pertanto caratteristiche che lo avvicinano al sogno, a un sogno condiviso.

Gli individui che partecipano di questa esperienza condivisa durante lo stato di veglia vanno incontro a modificazioni di quelle funzioni dell’Io deputate all’esame di realtà, che si rendono possibili grazie ad un forte investimento dei singoli nelle relazioni con gli altri membri del gruppo.

E’ per questo che l’esperienza sociale, pur contenendo elementi vistosamente illusori, gode di una forte e stabile impressione di realtà; anzi mentre dal sogno ci si può risvegliare, tornando ad avere un normale rapporto di validazione della realtà esterna, chi volesse distaccarsi dall’esperienza sociale così fortemente investita, si troverebbe a sperimentare un’intensa angoscia di esclusione, simile per molti versi all’angoscia di distacco del neonato dalla madre, e assumerebbe su di sé la colpa, che prima, quale membro del gruppo, proiettava all’esterno.

Fornari colloca l’esperienza sociale nell’area dei fenomeni transizionali descritti da Winnicott (che serve ad amministrare sentimenti di perdita e di lutto), nei quali l’esame di realtà non viene preso in considerazione.

Privare l’uomo dell’esperienza sociale equivale quindi a privare il neonato dell’esperienza transizionale, perché, come afferma Roheim, il costituirsi degli uomini in gruppo rappresenta il tentativo mistico di ricostruire l’unità madre-bambino, come ben sa chi studia il ruolo del gruppo dei pari nella psicologia dell’adolescente.

Il separato da sé, nell’esperienza del gruppo viene sentito come incompatibile con il sistema di validazione della realtà operato dal gruppo: è pertanto diverso, estraneo, straniero.

La percezione del diverso da sé, che nel processo di fondazione dell’Io concorre in misura determinante alla presa di coscienza del Sé, diventa per il gruppo, un’esperienza abbandonica, dominata da un’alienità persecutoria.

Siamo quindi in una concezione della vita associata che mostra aspetti simbiotico-narcisistici e autistici.

La funzione del gruppo è quindi quella di controllare, di fronte ad una situazione di perdita, le angosce depressive e persecutorie, che l’esperienza del lutto mobilita.

Pertanto, il compito di elaborare il lutto che il gruppo si assegna, dopo essere stato affrontato in termini maniacali (fondati sul diniego della morte) rischia ora di assumere una valenza paranoica, laddove il sistema di validazione del gruppo è minacciato dall’esterno, e l’annientamento del diverso-persecutore sentito come una minaccia per la coesione del gruppo.

Il fenomeno guerra, è quindi per Fornari interpretabile come una soluzione paranoica al problema dell’elaborazione collettiva del lutto.

 

4. La guerra e i bambini

Se la guerra è, nella sua essenza più profonda, un infanticidio differito, essa è anche l’occasione per sterminare, deprivare e rendere disperati per tutta la vita migliaia di bambini.

Essa costituisce un salvacondotto per quanti approfittano dello stato di sospensione delle leggi ordinarie per soddisfare le peggiori esigenze distruttive. Si tratta di uomini che si arruolano in milizie che spesso necessitano di chiamarsi fuori persino dalle leggi di guerra, truppe irregolari, gruppi paramilitari bisognosi di compiere massacri e di infliggere sevizie, soprattutto tra gli strati più indifesi della popolazione inerme, come gli anziani e i bambini.

Sempre più spesso, oggi, la società occidentale offre spazi per esercitare funzioni aberranti anche al di fuori di uno stato di belligeranza. Cinquant’anni di pace, in Europa non sono stati sufficienti ad eliminare forme anche molto drammatiche di violenza, la cui linea di demarcazione, rispetto agli stati di guerra, si è venuta progressivamente assottigliando: basti pensare ai fenomeni connessi con la criminalità organizzata (la “guerra di mafia”), al terrorismo organizzato (la “guerra contro lo Stato”), ai fenomeni di sfruttamento a fini commerciali di donne e bambini.

In queste aree sociali e culturali, si sviluppano società parallele, che si muniscono spesso di leggi proprie, fondate sulla violenza, sull’omicidio, sulle stragi, in nome di altre e non consensuali forme di legalità.

Ciò dimostra ancora una volta, se ve ne fosse bisogno, che la guerra è uno stato rispondente a precise esigenze emotive presenti nella collettività, e laddove il contratto sociale tende a ridurre la violenza (anche assumendone, come osservava Freud, il “monopolio”) vi sono gruppi che se ne chiamano fuori per poter continuare ad esercitarla.

Il vivere in un contesto di violenza può diventare anche un’esigenza rispetto ai propri equilibri interni: non si spiegherebbe altrimenti come un così alto numero di persone (basti pensare agli aderenti alle organizzazioni criminali) possa affrontare ogni nuovo giorno con la prospettiva di venire ucciso.

Una signora di mia conoscenza, una “donna di mafia” i cui figli erano stati oggetto di maltrattamento e gravi deprivazioni, mi disse un giorno di essere a volte tentata di vivere “da persona normale”, accanto ad un uomo “normale” (il marito era latitante), lasciandomi però capire di essere molto spaventata dalla prospettiva del cambiamento.

La persistenza i uno stato mentale fino a poco tempo prima sconosciuto si rivelava estremamente precaria: durante una discussione con l’uomo al quale era da poco tempo legata, si era improvvisamente ricordata, in un misto di rabbia e sgomento, che, se solo avesse voluto, avrebbe saputo ucciderlo con estrema facilità.

In un’altra occasione, durante un gioco erotico con lo stesso partner, si era “lasciata andare” ad un atto che per lei sarebbe stato normale con l’ex coniuge, ma che giudicava “proibito” all’interno della relazione con il nuovo compagno: gli aveva orinato sul viso. Essendosi accorta con sorpresa che l’atto aveva sortito un effetto eccitante sull’uomo, ne era rimasta fortemente impressionata, e mentre mi raccontava l’episodio, appariva tentata di ripetere l’“esperimento”, sia pure in forma simbolica, con il sottoscritto, attraverso il cercar di indovinare, neppure troppo velatamente, se quel racconto avesse evocato in me qualche forma di curiosità erotizzata.

L’aspetto che la incuriosiva e, allo stesso tempo, la spaventava, era l’idea che due mondi, quello delle persone normali, e quello degli individui che tengono abitualmente in tasca una pistola, potessero arrivare a toccarsi fino a confondersi.

La dimensione criminale era per la donna uno stato esistenziale che le consentiva di rimanere al riparo dalle emozioni, sentite come stati mentali intollerabili, perché aperti alla percezione della propria fragilità, che viceversa veniva tenuta a bada attraverso l’uso di psicostimolanti, dell’attività prostitutiva, e della presenza “rassicurante” di un’arma.

Anche in questo caso, come nella maggioranza di quelli da noi trattati, gli adulti che maltrattavano i bambini erano stati a loro volta oggetto di gravi esperienze abbandoniche ed abusanti durante la loro infanzia.

 

Come sostiene Alice Miller nel saggio che apre questo libro, i bambini maltrattati che non siano stati aiutati da persone consapevoli e capaci di preoccuparsi per loro, una volta diventati adulti, ritorceranno la crudeltà patita su esseri innocenti ed indifesi.

Per queste persone, la guerra può diventare un’occasione di impunità, ma la suddetta condizione post-traumatica non è sufficiente a spiegare tutte le violenze che accadono nel corso dei conflitti bellici. Non c’é bisogno di invocare il maltrattamento infantile scommettendo sulla sua ubiquitarietà tra gli uomini che, in tempo di guerra, si macchiano di delitti, anche perché così si commette l’errore di trascurare l’importanza della regressione gruppale, che rende privi di idee e di pensiero, e si rende un cattivo servizio alla causa della prevenzione del maltrattamento, riducendola ad ideologia.

Hannah Arendt ha mostrato, a proposito di Eichmann, che il male può essere “banale”, che lo sterminio di milioni di uomini può essere amministrato come un’opaca, anaffettiva, ordinaria contabilità, soltanto perché non si può fare a meno di obbedire a qualcuno6.

Certamente con tutti questi fenomeni l’esperienza infantile ha moltissimo a che fare, ma ad essa dobbiamo riconoscere un’ampia possibilità di variabili.

 

L’angoscia di morte e il passaggio alla condizione genitoriale: il senso del dopo

In “Considerazioni attuali sulla Guerra e sulla Morte”7, Freud elenca una serie di stratagemmi che l’uomo adotta per evitare di confrontarsi con il pensiero della propria morte: essa, innanzitutto, può essere pensata soltanto come la morte degli altri, può essere rappresentata in forma finzionale nel gioco dei bambini, nella letteratura, nel teatro nel cinema, può essere rappresentata alla luce delle teorie della reincarnazione, o nella fede nell’immortalità dell’anima, che è un modo per preservare l’Io rispetto alla distruzione del corpo. Alla stessa preoccupazione, facciamo normalmente risalire il tributo di invidia o di ammirazione che normalmente rivolgiamo agli artisti, agli scienziati, e a tutti coloro le cui opere e la cui memoria sono destinate a sopravvivere.

Ciò che non può essere rappresentato è il Buio Definitivo, la fine del pensiero, della memoria, della consapevolezza di esserci.

Di fronte a tale angoscia, gli individui reagiscono in maniera diversa, in rapporto al loro grado di maturazione dei conflitti.

Anche l’amore per i bambini può essere un modo per garantirsi un’effimera immortalità, la sola che possiamo permetterci.

In “Potere e Sopravvivenza”8, Elias Canetti sostiene che il desiderio di potere non è soltanto quello di governare sugli uomini, ma addirittura di essere l’unico tra gli uomini.

Sembrerebbe impossibile credere che il potente rinunci alla soddisfazione della sottomissione altrui, ma può accadere che l’ostilità dei sottomessi risulti insopportabile.

Canetti racconta che, nell’India del XIV secolo, Muhammad Tughlak, sultano di Delhi, angosciato dal fatto di ricevere quotidianamente innumerevoli lettere di insulti da parte degli abitanti della città, li costrinse, dopo aver comperato tutte le loro case, ad emigrare in una città lontana, per placarsi soltanto quando la città fu svuotata di ogni essere vivente. .

Spesso, nel mito, i genitori uccidono i figli, soltanto perché temono l’avvicendamento: Laio ordina la soppressione di Edipo perché l’oracolo ha previsto che il figlio ucciderà il padre e lo sostituirà nel talamo e sul trono; Crono sbrana i figli, perché è scritto che uno di loro governerà l’Olimpo.

Se consideriamo il mito dal punto di vista della psicoanalisi, e in particolare dal punto di vista dell’angoscia di morte, osserviamo che tali precauzioni sono di natura psicotica, e in particolare, se utilizziamo un approccio kleiniano, constatiamo che essi rientrano nell’area della “posizione schizo-paranoide”, in quanto espressioni dell’incapacità di rappresentarsi la propria fine.

Ma amare i bambini, curare la loro sopravvivenza, integrità e maturazione, porre in cima alla scala dei nostri valori la loro libertà e la loro felicità, può essere un’efficace soluzione “economica” rispetto alla nostra angoscia di morire, una soluzione del conflitto corrispondente alla “posizione depressiva” (M. Klein), non solo perché essa implica la preoccupazione per l’altro, ma anche perché si fonda su di una qualche forma di accettazione della morte, “in cambio” del fatto che i figli conserveranno la nostra memoria, perché essi sono, in certa misura, un’opera nostra che ci sopravvive e dentro la quale noi sopravviviamo.

Naturalmente, possiamo desiderare che le nostre opere ci sopravvivano, e noi con loro, soltanto a condizione che esse non siano opere fallite, capaci di rinviarci la sconfitta della nostra creatività, o lo specchio di tutto quanto di noi ci appaia odioso e spregevole.

Diventare genitori è pertanto una preziosa occasione di dare senso al “dopo”: una possibilità che si apre soltanto a chi sia riuscito a rappacificarsi sufficientemente con la propria infanzia.

 

1 Freud-Einstein, (1932) Perché la Guerra?, in: Opere di Sigmund Freud, vol. XI, Boringhieri, Torino.

2 Fornari, F. (1966), Psicoanalisi della Guerra, Feltrinelli , Milano.

3 Freud, S., (1915), Considerazioni Attuali sulla Guerra e sulla Morte, in: S. Freud, Opere , Boringhieri, Torino, vol. VIII.

4 Bouthoul, G. (1961),Le Guerre. Elementi di Polemologia. Longanesi & C., Milano.

5 A. Miller, La Persecuzione del Bambino, Boringhieri, Torino.

 

6 Arendt, H., (1963), La Banalità del Male, Feltrinelli, Milano.

7 op. cit.

8 Canetti, E.,(1972), Potere e Sopravvivenza, Adelphi, Milano.