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H. Kohut e la psicologia del Sè (tratto da R.Siani, La Psicologia del Sé, Boringhieri, pp.83-84) La costituzione di un Sé bipolare ben integrato non garantisce dalle ferite narcisistiche future, dai «conflitti» (psicologici e sociali) che potranno essere indotti dalle successive vicissitudini della vita. «Estesi cambiamenti del Sé debbono, per esempio, verificarsi nella transizione dalla prima infanzia alla latenza, dalla latenza alla pubertà e dall'adolescenza alla giovinezza» (Kohut, 1972, p. 13 1). Tuttavia le vicende delle relazioni fra il Sé in fase di strutturazione e gli oggetti-Sé genitoriali restano determinanti: la costituzione del «Sé coesivo» (cohesive self), come tappa conclusiva e integrata delle strutture (Kohut;1984) dipende ben poco dalle intenzioni pedagogiche dei genitori, ma dalla qualità delle loro relazioni (rispecchianti, ideali, gemellari) con il figlio, che orienterà in modo decisivo le sue future possibilità di aver fiducia in sé stesso, di porsi mete e di realizzarle in armonia con i suoi ideali. Kohut e Wolf (1978, pp. 178 sg.) hanno affermato che «non è tanto ciò che i genitori fanno, ma ciò che i genitori sono a influenzare il Sé del bambino», concludendo con queste semplici ma efficaci osservazioni: “Se i genitori non hanno problemi (.,.) se, in altre parole, la fiducia in se stessi dei genitori è solida, essi risponderanno con accettazione all'orgoglioso esibizionismo del Sé fiorente del loro bambino. Per quanto seri possano essere i colpi ai quali è esposta dalla realtà della vita la grandiosità del bambino, il sorriso orgoglioso dei genitori manterrà vivo un frammento dell’onnipotenza originaria, che sarà conservato come il nucleo della fiducia in sé stessi e della sicurezza interiore. (...) Lo stesso vale per i nostri ideali. Per quanto grande sia il nostro disappunto quando scopriamo le limitazioni e le debolezze degli oggetti-Sé idealizzati della nostra vita infantile, la loro fiducia in sé stessi che ci offrivano quando eravamo bambini, la loro sicurezza quando ci consentivano di fondere i nostri Sé angosciati con la loro tranquillità - con le loro voci calme o con la nostra vicinanza ai loro corpi rilassati quando ci tenevano in braccio - sarà da noi conservata come nucleo della forza dei nostri ideali fondamentali e della calma che sperimentiamo nel vivere la nostra vita sotto la guida dei nostri obiettivi interiori.”
IL VERO TRAUMA E’ LA MANCANZA DI RISPOSTE EMPATICHE DEI GENITORI Tratto da Heinz Kohut “Seminari, Teoria e clinica della psicopatologia giovanile”, Astrolabio, 1989, pp. 304-306. Se un individuo è stato deluso traumaticamente in certi periodi della sua vita - quando la sua grandiosità non trovava eco - ogni tipo di interferenza con lo stato di benessere è sentita come un colpo all'autostima, un attacco alla grandiosità del soggetto. Uso il termine grandiosità in mancanza di un termine migliore. Esso implica quello che più tardi sarà la bellezza assoluta, il corpo perfetto, la grande impresa, la naturalezza, la perfezione morale, l'essere in pace con se stessi. Così, ad esempio, ogni sofferenza o malattia sarà chiaramente sperimentata dal bambino come ferita narcisistica e non come un disagio che può essere ragionevolmente affrontato, che ha una sua ragion d'essere e a cui si può reagire. Il bambino, se gli accade di inciampare, reagisce con rabbia. "Come possono farmi questo?". Molte persone conservano per tutta la vita un poco di questo modo narcisistico di reagire alla sofferenza. Immaginiamo che un bambino patisca una delusione traumatica nei primi anni di vita, in un periodo in cui, in circostanze normali, il soggetto dovrebbe trovare conferma alla propria, ancora irrealistica, autostima. Questo può accadere a causa di una depressione della madre o a causa dell'incapacità della madre di risolvere un problema del bambino, quale può essere una malattia fisica (fermo restando che la semplice insorgenza di un malanno fisico non è in grado di spiegare il corso degli eventi). L'elemento su cui affermo che è importante riflettere, anche in presenza di gravi malattie fIsIche, è il grado attuale di menomazione dell'autostima. Nelle fasi iniziali della .vita, quando l'autostima e l'esperienza del bambino inglobano i genitori o gli adulti dell'ambiente circostante, il fatto puro e semplice di una malattia del bambino, anche se grave, non costituisce necessariamente un trauma. È solo quando, a causa del malanno fisico, si sperimenta un rifiuto da parte dei genitori, solo in questo caso la caduta dell'autostima diventa traumatica. I pochi casi da me trattati in cui una malattia fisica precoce aveva giocato un ruolo importante nello sviluppo della personalità mi hanno portato a concludere senza incertezze che non era stata la malattia per se stessa il fattore decisivo, ma piuttosto il colpo narcisistico che la malattia del bambino aveva inferto ai genitori, determinando una caduta della loro autostima e un conseguente rifiuto del bambino. Di questo problema ha parlato Freud parecchio tempo fa. Non so se conoscete abbastanza la storia del movimento psicoanalitico da riconoscere quale sia quel gruppo dissidente che ha a che fare in modo particolare con i temi che stiamo trattando. Si tratta della scuola adleriana (Freud, 1914, p. 428). Il sentimento di inferiorità del soggetto divenne il nucleo per spiegare la formazione dinamica del carattere - sovracompensazioni, ad esempio, per superare sentimenti di inferiorità dovuti ad una inferiorità d'organo, e così via. Karen Horney ha applicato alla psicologia femminile una variante di questa tesi (1934). Da parte sua Freud non accettò mai questa particolare linea di pensiero. C’era, anni addietro, un romanziere e biografo tedesco, di non grande levatura ma molto popolare al suo tempo, Emil Ludwig, che scrisse un buon numero di biografie che ebbero grande successo; alcune in verità non erano brutte. Tra queste una era dedicata a Guglielmo II (Ludvig, 1928). Ludwig era appunto un seguace di Adler e spiegò l’intero sviluppo della personalità dell'imperatore Guglielmo sulla base del fatto che questi aveva subìto una lesione al momento della nascita. Era ben noto che egli aveva un braccio semi-immobilizzato, e alla luce di questa nucleare inferiorità d'organo Emil Ludwig ricostruì il suo carattere. Affermò che l'imperatore non poteva trovare requie alla sua inquietudine e che la guerra mondiale fu l'esito finale di questo bisogno di autoaffermazione. Il suo braccio era impedito, ma egli tentò di dimostrare che non era così. (…) Come ho ricordato in altre occasioni, Freud affermò che non fu la paralisi al braccio, l'inferiorità d'organo, che doveva fare più tardi dell'imperatore una personalità così bellicosa, ambiziosa, facilmente depressa, delusa e ferita quando le cose non seguivano il verso da lui voluto. Egli fu costretto a inseguire un successo dopo l'altro. Questa potrebbe esser stata certamente una delle molte cause della guerra. Ma fu il rifiuto che egli ricevette da una madre orgogliosa, che non fu in grado di sopportare un figlio deforme, imperfetto, e che per questa ragione non volle aver niente a che fare con lui fin dal principio, fu questo che Freud pose alla base della spiegazione della personalità del Kaiser. È questo che aiuta secondo me a capire meglio l'esperienza di quei pazienti in cui menomazioni gravi o malattie precoci hanno portato, in ultima analisi, non ad un sentimento centrale di incapacità, ma piuttosto al sentimento centrale della impotenza dei genitori. Fu la loro disperazione che li spinse a rifiutare il figlio. Non erano in grado di guarire la sua menomazione e non potevano sopportare un figlio menomato. La normale reazione dei genitori ad un figlio menomato dovrebbe essere il rafforzamento delle cure affettive verso il figlio. Questo è del tutto comprensibile da un punto di vista psicobiologico, anche se in termini sociologici può condurre a gravi ingiustizie. La madre elargisce ogni sua energia affettiva al figlio menomato e accade spesso che siano allora gli altri membri della famiglia a soffrire sul piano emotivo. Eccoli, gli altri figli, con la loro sana corporatura e con tutte le loro aspettative nei confronti della madre, ma la madre è tutta presa dal suo figliolo storpio o zoppo. La cosa è ben diversa, se è in gioco solo un momentaneo e transitorio ritiro dell'attenzione a causa dell'inferiorità temporanea di uno dei figli. Ma quando ciò che si verifica è un duraturo spostamento dell'affetto dai figli sani. al figlio malato, allora molto spesso i figli sani cominciano a covare un enorme risentimento. potranno reagire con estesi mutamenti del carattere.
LA FASE EDIPICA E’ ESPANSIVA E GIOIOSA PER UN BAMBINO CHE VIVE IN UN AMBIENTE MEDIAMENTE EMPATICO, IL COMPLESSO EDIPICO NON E’ IL RISULTATO DI UNA FISSAZIONE PULSIONALE DEL BAMBINO, MA E’ LA CONSEGUENZA DI RISPOSTE CARENTI DEI GENITORI (Tratto da Complesso edipico e “Psicologia del Sé”, in H. Kohut, La guarigione del Sé, Boringhieri, pp. 207 e sg.)
Qual è, ci domandiamo, l’essenza di un comportamento non patogeno dei genitori durante il periodo edipico?(…) E’ costituito dal fatto significativo che i genitori normali sperimentano, in un amalgama con le loro reazioni sessuali e aggressive, gioia e orgoglio per i progressi evolutivi del loro figli edipici. Anche se queste importanti risposte dei genitori al bambino edipico sono relativamente siI enti, specialmente quando hanno radici profonde e sono genuine, ciò nonostante sono profondamente pervasive. Sono un'espressione del fatto che il Sé dei genitori è pienamente consolidato, ha costituito modelli stabili di ambizioni e ideali (…). È indifferente a quale punto della curva vitale si trovi il Sé dei genitori durante la fase edipica del bambino; nella misura in cui il modello del Sé parentale è chiaramente tracciato e ben consolidato e si sta esprimendo, l'apice e il termine della sua realizzazione sono già implicati. Se il bambino ad esempio sente che il padre lo considera con orgoglio un figlio degno di sé e gli permette di operare una fusione con lui e con la sua grandezza di adulto, allora la sua fase edipica costituirà un passo decisivo nel consolidamento del Sé e nel rafforzamento del modello del Sé, ivi compresa la strutturazione di una delle diverse varianti di una mascolinità integrata (nonostante le inevitabili frustrazionì delle sue aspirazioni sessuali eo competitive e nonostante gli inevitabili conflitti generati dall'ambivalenza e dalle paure di mutilazione). Se invece questo aspetto del riscontro parentale è assente durante la fase edipica, i conflitti edipici del bambino assumeranno, anche in assenza di risposte parentali grossolanamente distorte ai suoi moti libidici e aggressivi, un carattere infausto. In queste circostanze inoltre tendono di fatto a verificarsi le risposte parentali distorte. I genitori che non sono capaci di stabilire un contatto empatuico con il Sé il evoluzione del bambino tenderanno in altre parole a considerare isolatamente i componenti delle aspirazioni edipiche del bambino; tenderanno a vedere, anche se generalmente in maniera soltanto preconscia una sessualità e una aggressività allarmanti nel bambino invece di configurazioni più vaste di affetto autoaffermativo e di competitività autoaffermativa con il risultato che i conflitti edipici de bambino saranno intensificati) proprio come una madre il cui Sé è scarsamente consolidato reagirà alle feci e alla zona anale, e non al Sé complessivo, vigoroso, e volto orgogliosamente all’affermazione di sè del proprio bambino nella fase anale. Una madre, il cui Sé è ben consolidato invece, non percepirà come isolati i componenti narcisistici (esibizionistici) e libidico-oggettuali che, amalgamati con componenti non sessuali, costituiscono il Sé edipico complessivo del bambino, e pertanto non reagirà ad essi con risposte sessuali intense o difendendosi contro di esse, proprio come non aveva reagito focalizzando la sua attenzione esclusiva sulle feci del bambino orgogliosamente autoaffermantesi nella fase anale. In entrambi i casi essa risponderà al Sé complessivo, coesivo e vigoroso. E il padre normale non risponderà con intensa controaggressività (in maniera diretta o difensivamente) ai componenti dell'aggressività (sia che sostengano moti libidico- oggettuali, sia che sostengano moti narcisistici) che sono amalgamati con il Sé edipico complessivo del bambino, proprio come non aveva reagito focalizzando la sua attenzione sulla muscolatura in via di sviluppo del bambino quando questi esibiva orgogliosamente la sua recentemente scoperta di strisciare, stare in piedi, camminare. E qual è il risultato di questi atteggiamenti volti a incoraggiare la coesione del Sé e adottati dagli oggetti-Sé parentali nei confronti del bambino edipico? Come sperimenta la sua fase edipica un bambino che è il ricettacolo di queste risposte sane? Qual è, in altre parole, il complesso edipico del bambino che è entrato nella fase edipica con un Sé saldamente coesivo e che è circondato da genitori che hanno essi stessi un Sé normalmente coesivo e dotato di continuità? È mia impres- sione, (…) che le esperienze edipiche del bambino normale (per quanto intenso sia il desiderio per il genitore eterosessuale, e per quanto gravi le ferite narcisistiche nel riconoscere l'impossibilità del loro realizzarsi, e per quanto forte la competizione con il genitore dello stesso sesso, e paralizzante la correlata angoscia di evirazione) contengano, dall'inizio e per tutta la loro durata, una componente di profonda gioia che non si collega con il contenuto del complesso edipico nel senso tradizionale, ma acquista un importantissimo significato evolutivo all’interno della trama di riferimento della Psicologia del Sé. Credo che (…) questa gioia venga alimentata da due sorgenti. (…) Esse sono: 1) la consapevolezza interna del bambino di un significativo passo in avanti in un ambito psicologico di nuove ed eccitanti esperienze e, il che è ancora più importante, 2) la sua partecipazione all’impeto di orgoglio e di gioia che emana dagli oggetti–Sé nonostante (in effetti anche a causa) il loro riconoscimento del contenuto edipico dei desideri del bambino. (…) I genitori normali (forse dovrei piuttosto dire i genitori capaci fallimenti ottimali) sono persone, che, nonostante la stimolazione e la competizione con la nuova generazione, sono sufficientemente a contatto con il battito della vita, sufficientemente capaci di accettarsi come partecipanti transitori alla corrente della vita, da essere in grado di vivere la crescita della generazione successiva con gioia non forzata e non difensiva. (…) Non potrebbe essere che i desideri e le angosce drammatiche del bambino edipico che abbiamo considerato eventi normali, di fatto siano le reazioni del bambino a fallimenti empatici da parte dell’ambiente oggetto-Sé nella fase edipica? (…) Che, in altre parole, il complesso edipico drammatico, conflittuale dell’analisi classica, con la sua percezione di un bambino le cui aspirazioni crollano nell’impatto con la paura dell’evirazione, non sia una necessità maturativi primaria, ma solo il risultato frequente di fallimenti ricorrenti da parte di genitori con disturbi narcisistici?
LA TEORIA DEI BISOGNI[i] NELLA PSICOLOGIA DEL SE’ E LA SUA APPLICAZIONE IN CAMPO EDUCATIVO (tratto da Mirella Turello, “L’ADULTOCENTRISMO IN FAMIGLIA E LA TEORIA DEI BISOGNI” in Rompere il silenzio n. 1, maggio ‘98 )
“Chiunque sia stato un genitore e non viva in uno stato di perfetto autoinganno sa per esperienza come possa essere difficile tollerare aspetti del carattere del proprio figlio. Accorgerci di questo è particolarmente doloroso se vogliamo bene al bambino. Noi desideriamo realmente rispettare l’individualità e tuttavia non ci riusciamo”
La comprensione empatica dell'affettività del bambino è la premessa indispensabile non solo per migliorare il clima emotivo in cui cresce il soggetto in età evolutiva, ma anche per favorire la sua crescita cognitiva e il suo adattamento alla realtà. Va precisato che l’empatia non va fraintesa come atteggiamento di statica comprensione da mantenere sempre e comunque nei confronti dell’altro, come disponibilità amorevole sempre e comunque, dolce e mielosa. La capacità di percepire i bisogni emotivi del mondo interno dei bambini, le loro difficoltà e potenzialità non significa far venire meno la percezione della realtà in quanto adulto, consapevole dei valori, delle finalità e delle leggi e delle necessità del mondo reale: ciò che è importante è cercare di tenere insieme entrambe le possibilità di comprensione e di evoluzione del bambino: quella emotiva e affettiva da un lato e quella cognitiva e adattativa dall’altro, per favorire la loro integrazione (sintetizzando in altri termini un “codice materno” e un “codice paterno”). Uno dei bisogni che in una prospettiva adultocentrica risulta più contrastato è il bisogno di rispecchiamento, di valorizzazione che altro non è che il bisogno da parte del bambino di essere accettato incondizionatamente per ciò che egli è e diventerà e di essere guardato con attenzione ed ammirazione nei propri movimenti evolutivi. E’ il bisogno di sentirsi riconosciuto. Mi colpisce sempre un bambino, soprattutto nei primissimi ani di vita, quando, per essere ascoltato gira il viso dell'adulto verso di sé, per garantirsi un’attenzione totale, speciale e per potersi così percepire rispecchiato e valorizzato come soggetto importante e significativo. Pensiamo al bambino che richiede l'attenzione dei genitori per le cose che impara, che arriva a casa dall'asilo e mostra una scarpa legata da solo, aspettando un riconoscimento, oppure al bambino che vuole essere accettato nei suoi aspetti problematici, di difficoltà e che a questo fine cerca la provocazione, chiedendo poi, implicitamente o talvolta esplicitamente, se gli vogliamo ancora bene. Un bambino che non fa nulla per richiamare l’attenzione su di sé desta preoccupazione: mi allarmo quando sento che per definire un bambino come bravo il dato di partenza utilizzato sta nel fatto che quel bambino passa ore ed ore da solo: "neanche lo senti!..." C'è la convinzione diffusa in molti genitori che non sia conveniente fare troppi complimenti ai figli “perché poi si montano la testa”, “perché poi diventano troppo furbi e ne approfittano". Se poi quegli stessi figli fanno qualcosa di buono (faticano per es. a scuola o a casa nel tentativo di essere all’altezza delle aspettative dei genitori), è facile che non lo si riconosca e che si dica: “Potevano anche farlo prima” oppure “E’ scontato: è il loro dovere!”. Infiniti sono i modi per frustrare il bisogno di rispecchiamento e di valorizzazione dei bambini: pensiamo per es. all’abitudine di parlar male dei bambini alla loro presenza oppure a quella di comunicare ad altri adulti le loro storie, i loro problemi, le loro esperienze senza valutare in che misura per loro siano divulgabili. Elenchiamo ora gli altri bisogni che vengono individuati nella Psicologia del Sé. Il bisogno di idealizzazione è esemplificabile nell'immagine del bambino che, di fronte ad un problema da risolvere, chiama la mamma o chiama il papà qualsiasi sia la competenza che richiede oppure dice ad un altro bambino con orgoglio: "Adesso viene la mamma", “Adesso viene il papà". I bambini hanno bisogno di idealizzare una figura parentale per potersi identificare con lei in quelle parti in cui si sentono ancora fragili, incompleti e insicuri, vivendo quelle parti come se fossero loro. I bambini cercano un oggetto-Sé con caratteristiche di stabilità, calma, forza e saggezza, cioè una figura genitoriale che possiede quella capacità di padroneggiamento del Sé e della realtà che essi non posseggono. Hanno necessità in altri termini di percepire nell'adulto quella sicurezza, quella tranquillità, quella potenza, che gli permetteranno di sentirsi sicuro e di potersi identificare con la persona che può ammirare. Il bisogno alteregoico o di gemellarità è il bisogno di sperimentare una somiglianza con l'oggetto, di ritrovare nell’altro elementi comuni , che permettono di sentirsi parte di una comunità e di sentirsi rassicurato per questo. Quando un bambino gioca assieme ai genitori a fare quel che fa il papà, mentre usa martello e chiodi o traffica in garage con la macchina o a fare come la mamma che lava o cucina, il suo comportamento non è soltanto finalizzato all’apprendimento o all’identificazione sessuale attraverso l’imitazione, bensì è anche teso alla ricerca di un riscontro emotivo: quello di percepirsi simile a qualcuno, di proteggersi dalla solitudine, di sentirsi parte di un gruppo. Il bisogno di antagonismo è il bisogno di sperimentare l'oggetto-Sé in opposizione benigna. Mi è venuto in mente a questo riguardo il seguente episodio: un giorno una bambina entra nella stanza dove io stavo. in cui c'era una scrivania con un piano verde. Mi guarda bene dritto negli occhi, si accerta cioè che io stia bene attenta a ciò che mi dirà e poi mi fa: “Questo tavolo è blu, vero?”. In situazioni del genere noi adulti di solito facciamo magre figure, perché se stiamo continuando ad ignorare il mondo emotivo e i bisogni che ne fanno parte considereremo soltanto l'aspetto cognitivo, ingaggiando una lotta a dimostrare che noi ci vediamo bene e che quel tavolo è proprio verde ... Il bisogno del bambino in realtà è quello di trovare un adulto che continui a rispondere e a sostenere il suo punto di vista, mentre consente o persino incoraggia l'opposizione, riconoscendola come un sano bisogno di autonomia, un sano bisogno di pensare in modo originale e differenziato. Questo è un bisogno che si ripresenta con forza nell'adolescenza. Talvolta non si garantisce ai ragazzi e alle ragazze la soddisfazione del bisogno di antagonismo, invocando la teoria del “rispetto”: di fronte ad un’esigenza sana dell’adolescente di autonomia e di sperimentazione nella diversificazione rispetto ai modelli genitoriali interiorizzati si risponde dicendo: “Non mancare di rispetto!”, “Non fare troppo il testardo!” ecc... D’altra parte non si garantisce una risposta empatica al bisogno di antagonismo, venendo incontro acriticamente al punto di vista del bambino o dell’adolescente e rinunciando eccessivamente alle proprie opinioni, ai propri valori e ai propri modelli. Il bisogno di fusione è quel bisogno di essere una cosa sola con l'oggetto-Sé che viene avvertito in particolare dai bambini molto piccoli durante la prima infanzia e che s’evolverà in seguito entrando in relazione con esigenze psichiche concernenti la differenziazione e la separazione. Ma il bisogno di essere tutt’uno con un Altro affettivamente importante e significativo non verrà mai meno nella vita adulta: pensiamo alla ricerca di fusionalità, di intimità e di appartenenza nei confronti della persona di cui si innamora e del partner. Il bisogno di efficacia è infine il bisogno di sperimentare di essere capaci di modificare in qualche modo la persona adulta che funge da oggetto-Sé, andare a scoprire il proprio posto nella relazione con l'oggetto-Sé. Pensiamo per es. a quando un bambino riesce a farci ridere: continuerà per molte volte a riproporre lo stresso copione con l'aspettativa della nostra stessa risposta. In alcune situazioni problematiche o traumatiche i bambini si sentono svalutati o addirittura annientati, verificando di non essere stati minimamente efficaci con l’oggetto-Sé. Pensiamo per es. alle situazioni di abbandono in cui i bambini si sentono colpevoli e negativi, in quanto pensano di non essere stati capaci di impedire l’allontanamento del genitore e di averlo “meritato”. E' come se il bambino modificasse il Cogito cartesiano in questi termini: “Io sono capace di sollecitare una risposta positiva nell’adulto e quindi sono qualcuno”. Questo bisogno ci ricorda l’importanza decisiva della presenza emotiva, della disponibilità di ascolto e di attenzione che un bambino ci richiede.
L’empatia come strumento di osservazione che definisce il campo dei fenomeni psicologici. L’empatia come riconoscimento della soggettività dell’altro (tratto da “Ascolto dell’abuso e abuso nell’ascolto”, di Claudio Foti, relazione introduttiva all'omonimo convegno promosso dal Centro Studi Hansel e Gretel, Torino, febbraio 2001)
Secondo la psicologia psicoanalitica del Sé di Kohut l’empatia ha tre funzioni: 1. la funzione di definire il campo dei fenomeni psicologici; 2. la funzione di raccogliere dati ed informazioni; 3. la funzione di sostenere il soggetto che viene empaticamente ascoltato.[ii]
Per Kohut “un metodo di osservazione definisce i contenuti e limiti del campo osservato”[iii]. Pertanto “noi parliamo dei fenomeni fisici quando gli elementi essenziali dei nostri metodi di osservazione includono i nostri sensi; parliamo di fenomeni psicologici quando gli elementi essenziali della nostra osservazione sono l’introspezione e l’empatia”[iv]. Per il teorico della psicologia del Sé l’introspezione e l’empatia sono costituenti essenziali di ogni osservazione psicologica, caratterizzandola e differenziandola rispetto all’osservazione dei fenomeni fisici. Kohut fa due esempi interessanti: «Vediamo una persona eccezionalmente alta. L’eccezionale statura di questa persona è indiscutibilmente un fatto importante per la nostra valutazione psicologica; senza introspezione ed empatia, la sua statura rimane soltanto un attributo fisico. Soltanto quando ci mettiamo al suo posto, e per introspezione vicariante cominciamo a sentire la sua statura insolita come fosse la nostra, e riviviamo così esperienze interne nelle quali siamo stati fisicamente non comuni o ci siamo fatti notare, solo allora cominciamo a riconoscere il significato che la statura insolita può avere per quella persona.» Fin tanto che non vengono messe in funzione introspezione ed empatia la realtà umana osservata rimane estremamente limitata e parziale. Fin tanto che non vengono attivate l’introspezione diretta e quella vicariante il campo dei fenomeni osservati rimane quello fisico e non già quello psicologico. Vediamo il secondo esempio: «Se vi fosse la possibilità di descrivere in termini fisici e biochimici, come le onde sonore di certe parole pronunciate da A abbiano mobilitato certe strutture elettrochimiche nel cervello di B, questa descrizione non conterrebbe ancora il fatto psicologico dato dalla constatazione che B è stato offeso da A.»[v] Per tentare di comprendere adeguatamente che B è stato offeso da A devo necessariamente andare al di là dei sensi e dell’intelletto che mi consentono di percepire dati fisici o biochimici e ricorrere all’introspezione e all’empatia. Non vi sono fatti psicologici, fatti che implicano una dimensione emotiva e relazionale, che noi possiamo tentare di comprendere con un’osservazione del mondo esterno priva di introspezione e di empatia. E questo vale non solo per gli psicoanalisti e gli psicologi, ma per qualsiasi figura professionale: operatori sociali e sanitari, educatori, giudici, ecc… L’introspezione e l’empatia definiscono a un livello maggiore il campo della psicologia psicoanalitica e specificano ad un livello minore il campo della comprensione dei fatti umani da parte di qualsiasi soggetto umano.[vi] Del resto anche per analizzare altri fenomeni studiati dalle scienze umane, è necessario ricorrere non solo all’analisi di dati e riscontri oggettivamente osservabili, ma anche all’introspezione e all’empatia, sebbene il ricorso a questi strumenti non sarà prevalente. Prendiamo la scienza storica. Come faccio a tentare di ricostruire un determinato fenomeno storico se non mi metto dal punto di vista delle forze umane in campo? Come posso raggiungere una comprensione storica delle vicende umane, se non attivo un’esplorazione empatica della mente dei protagonisti di quelle vicende a partire da una conoscenza introspettiva; se non tento di comprendere ciò che è storico, ciò che è umano attraverso la conoscenza dell’umanità che esiste in me? Tra l’umanità che esiste in me e l’umanità che esiste negli accadimenti storici che voglio comprendere c’è un rapporto di somiglianza e non già di estraneità, dal momento che nihil humanum a me alienum puto, niente di umano considero estraneo a me. A maggior ragione nessun approccio psicologico, nessun approccio clinico può avvenire senza introspezione ed empatia, senza un tentativo di conoscenza e di indagine mentale nei confronti della nostra soggettività e nei confronti della soggettività altrui, senza un duplice viaggio esplorativo di tipo mentale, che implica continue oscillazioni e continui approfondimenti nelle due direzioni: verso il Sé e verso l’altro. In altri termini occorre un movimento esplorativo verso me stesso, verso le reazioni e gli atteggiamenti mentali che l’altro induce in me e verso le esperienze e le situazioni che risultano simili a quelle altrui e mi consentono di comprendere l’altro e, parallelamente e contestualmente, un movimento esplorativo per tentare di capire colui che è diverso da me, ma che non posso ascoltare e comprendere se non trovo dentro di me esperienze e situazioni che mi possano consentire d’identificarmi con lui. Ecco perché l’empatia può essere definita introspezione vicariante: conosco l’altro attraverso ciò che mi accomuna a lui. Non è possibile fondare una psicologia dell’ascolto e della valutazione senza attivare quella che Kohut definiva “empatia scientifica e scienza empatica”, così avrebbe voluto originariamente intitolare una raccolta di scritti che poi fu pubblicata come “The search of the Self”.[vii] La tendenza dominante della cosiddetta Psicologia Forense[viii] propone invece un modello di psicologo della valutazione della presunta vittima di abuso sessuale che aborrisce l’introspezione e l’empatia e le disprezza addirittura come indicatori di una caduta irrimediabile di scientificità. Lo Psicologo Forense si rapporta alla soggettività di un bambino presunta vittima di abuso (una soggettività comunque dolorante e in conflitto indipendentemente dalla sussistenza dell’abuso), inseguendo i miti dell’Obiettività e della Neutralità scientifica, con l’atteggiamento che potrebbe avere l’entomologo di fronte ai suoi insetti (ed è noto che con i cani possiamo empatizzare, con gli insetti no). «Quando un cane - scrive Kohut - saluta il suo padrone dopo una separazione, noi sappiamo che esiste un comune denominatore fra le nostre esperienze e ciò che il cane sperimenta alla fine di una separazione da un Tu amato.» Al contrario è quasi impossibile trovare esperienze soggettive che ci consentano di empatizzare con gli insetti. I piccoli abusati, o presunti abusati, in un contesto giudiziario sono rappresentati dalla Psicologia Forense alla stregua degli insetti: con entrambi non sarebbe possibile empatizzare. (…) Il rispetto dei sentimenti, il rispetto dell’alterità, il rispetto dell’altro come soggetto si ritrovano nella struttura dell’ascolto e nella struttura dell’amore e, a ben vedere, si contrappongono radicalmente alla struttura della perversione, mentale e relazionale. Sicuramente ci saranno coloro che storceranno il naso per questo accostamento tra l’ascolto empatico e un concetto così poco scientifico, come quello dell’amore, un concetto in effetti tanto logoro, tanto usato ed abusato, ma che ciò nonostante può esprimere ed evocare un chiaro significato. Senza amore, dice Fromm, “le porte della vera comprensione rimangono sbarrate”. «Sicuramente - afferma Kohut - ci saranno coloro che potranno essere colpiti negativamente “dalla risonanza evocata dall’uso popolare, non scientifico, del termine empatia, e cioè da significati confusamente collegati come la gentilezza, la compassione, la simpatia da un lato e l’intuizione, la percezione del sesto senso e l’illuminazione dall’altro.»[ix] Kohut individuava il rischio di abusi nell’ascolto, un rischio coincidente con un uso selvaggio, non scientifico, suggestivo e manipolativo del concetto di empatia nell’ascolto analitico. Ma obiettava: «Tali abusi non possono però essere combattuti ripudiando l’empatia e l’introspezione - un movimento che abolirebbe la psicologia del profondo - ma con la chiarezza concettuale riguardo la loro definizione in campo teorico.»[x] Non è atteggiamento scientifico liquidare esperienze mentali, così decisive e profonde, come l’introspezione e l’empatia semplicemente perché su tali esperienze tutti, e ovviamente anche la gente comune, hanno da dire qualcosa con un discorso psicologico, inevitabilmente generico o confuso. Si tratta piuttosto di chiarire rigorosamente questi concetti nella ricerca scientifica, nella comunicazione sociale e nella formazione degli operatori.
[i] Cfr. E. Wolf, La cura del Sé, Astrolabio [ii] E. Wolf (1988), La cura del Sé, Astrolabio, Ubaldini, Roma, 1993, pp.43-48. [iii] H. Kohut (1978), La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1982, p. 31 [iv] ivi, p.26. [v] ivi, pp.27-28. [vi] cfr. R. Siani, La psicologia del Sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1993. [vii] F. Paparo, Introduzione, in H. Kohut, La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1982, p. 17. [viii] Intendiamo per Psicologia Forense quella tendenza culturale e professionale che afferma che in ambito forense lo psicologo non debba impegnarsi a salvaguardare il proprio compito clinico di osservazione e di aiuto, pur mediandolo necessariamente con le regole e le procedure del contesto giudiziario, ma debba invece assumere un atteggiamento emotivo, relazionale e tecnico sostanzialmente divergente da quello clinico. [ix] H. Kohut (1977), La guarigione del sé, Boringhieri, Torinp, 1980, p.264. [x] H. Kohut, ivi, p.265. |