Riconoscere ed ascoltare il
trauma.
Maltrattamento e
abuso sessuale sui minori: prevenzione e terapia
a cura di Cristina
Roccia
Franco Angeli
Editore, Milano, 2001
collana: Hansel e
Gretel, dalla parte del bambino - direttore Claudio Foti,
condirettore Claudio Bosetto
Introduzione |
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di Cristina Roccia |
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7 |
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Parte prima
Il maltrattamento e l’abuso
sessuale ai danni dei minori: un fenomeno impensabile
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Percepire, pensare e ascoltare il
maltrattamento |
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di Claudio Foti |
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23 |
L’abuso sessuale ai danni dei minori.
Introduzione al fenomeno |
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di Cristina Roccia |
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46 |
Dalle nevrosi alle perversioni. La
psicanalisi, l’incesto e l’abuso sessuale |
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di Ettore Perrella |
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55 |
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Parte seconda
Il trauma: diagnosi, conseguenze a
medio e lungo termine, psicoterapia dei disturbi post-traumatici
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Disturbi
Dissociativi dell’Identità (personalità multipla). Un’esperienza di
psicoterapia con una adolescente vittima di abuso sessuale. |
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di Cristina Roccia e
Alessandro Vassalli |
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73 |
Bambini vittime di abusi sessuali
ritualistici e sette sataniche: trauma e meccanismi di difesa dalla
sofferenza |
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di Cristina Roccia |
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109 |
Abuso e mondo
interno: trauma, difese, devastazione, mentalizzazione. |
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di Gianni Guasto |
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146 |
Nuove frontiere della psicoterapia dei
disturbi post-traumatici: l’EMDR |
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di Cristina Roccia |
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171 |
EMDR: Desensibilizzazione e
Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari |
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di Roger Solomon |
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Parte terza
L’intervento nei casi di
abuso e la prevenzione
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Problemi e prospettive nella formazione
degli operatori minorili sul tema dell’abuso sessuale |
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di Daniela Bruno |
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189 |
Giocare per ascoltare, ascoltare per
prevenire e capire. La comprensione emotiva e cognitiva della vittima |
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di Nadia Bolognini |
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202 |
Riflessioni sulla difesa dei minori nel
processo penale, ovvero le occasioni mancate |
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di Laura De Rui |
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217 |
Introduzione
di Cristina Roccia
Noi esseri umani siamo le più complesse e contorte creature viventi.
Possiamo amare, proteggere, istruire ed arricchire, ma ugualmente
degradiamo, umiliamo, asserviamo, odiamo, distruggiamo e uccidiamo. Un uomo
può tenere teneramente in braccio il suo neonato e un attimo dopo picchiare
selvaggiamente la moglie, può essere un rispettabile uomo d’affari ed in
famiglia un perverso sadico e distruttivo. Ancora oggi non riusciamo a
comprendere perché siamo la specie più crudele e spietata che sia mai
comparsa sulla faccia della terra, e innumerevoli sono gli studiosi che nei
secoli hanno cercato di dare una spiegazione alla violenza umana producendo
decine di migliaia di libri in tutto il mondo. Solo recentemente
l’attenzione dei ricercatori si è posta in modo rigoroso sulle conseguenze
che la violenza produce su coloro che la subiscono, attenzione sviluppatasi
alla fine degli anni settanta negli Stati Uniti a seguito dell’enorme numero
di ex soldati gravemente sofferenti al termine della guerra del Vietnam,
particolarmente spietata e traumatica per coloro che, con ruoli differenti,
l’hanno vissuta. Nel tentativo di aiutare le vittime di guerra, dei campi di
concentramento, dei disastri naturali (troppo spesso provocati dall’uomo),
si è incominciato a capire quanto sia emotivamente vulnerabile la nostra
specie, quanto gli esseri umani siano indispensabili gli uni agli altri, e
quali devastanti, ed a volte irrimediabili, danni vengano arrecati
all’individuo che viene esposto a gravi violenze.
Un contributo determinate allo studio del trauma e delle origini della
violenza è stato portato dalla psicologia delle relazioni oggettuali (Horner),
dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby e dalla psicologia del Sé di Kohut,
sintetizzate e rielaborate da Felicity De Zulueta nel suo straordinario
lavoro su queste tematiche (1999), in cui evidenzia l’importanza delle
relazioni interpersonali, in particolare di quelle precoci, nel determinare
il modo in cui percepiamo noi stessi e ci relazioniamo con gli altri, e
individua l’origine di molti comportamenti violenti nella perdita precoce di
relazioni di attaccamento significative, nella deprivazione affettiva, in
maltrattamenti subiti durante l’infanzia. De Zulueta afferma che la violenza
può essere considerata come il risultato del fallimento dell’accudimento,
definendolo il prodotto di “un attaccamento andato a male”. L’esperienza
clinica del Centro Studi Hänsel e Gretel con vittime di gravi
maltrattamenti, con famiglie violente e con adulti pedofili, conferma
pienamente questa interpretazione.
Milioni di bambini nel mondo sono vittime o testimoni di violenze, anche
estremamente gravi, che si verificano in famiglia, nella scuola (negli Stati
Uniti è diventato ormai quasi normale che i ragazzini si rechino a scuola
armati), nella comunità in genere. Ma che cosa si intende per “violenza”?
Nel definire un comportamento come “violento” non possiamo prescindere dal
dare un significato ad una forma di comportamento interpersonale, ed anche
se questa valutazione potrebbe sembrare completamente oggettiva, in realtà
non lo è affatto. Il modo con cui un individuo percepisce il mondo e dà
significato a ciò che accade attorno a lui è fortemente collegato al senso
di sé, alla cultura in cui viene allevato, ai valori di riferimento della
società in cui vive. Ancora oggi, nonostante gli enormi progressi che la
nostra società ha fatto rispetto al riconoscimento dei bisogni dei bambini e
degli adolescenti, il maltrattamento nei confronti dei soggetti in età
evolutiva rimane in gran parte non riconosciuto, sottovalutato nella sua
diffusione e nelle sue conseguenze. Una società funziona in modo
direttamente proporzionale alle pratiche di accudimento e di educazione dei
propri bambini. Se i bambini sono ignorati, male istruiti e non sono
protetti dalla violenza, si svilupperanno adulti che creano una società
reattiva, non creativa e soprattutto violenta. Tutte le società raccolgono
ciò che hanno seminato, ed i semi sono proprio i bambini. Oggi, benché siano
ormai innumerevoli ed inequivocabili le ricerche che dimostrano che tanto è
maggiore la traumatizzazione di un individuo tanto più elevato è il rischio
che quel soggetto sviluppi comportamenti violenti, la società continua a non
investire quasi alcuna risorsa per cercare delle risposte adeguate al
fenomeno del maltrattamento all’infanzia, in particolare per prevenirlo ma,
quando il maltrattamento è già stato messo in essere, per curarne i danni
affinchè il ciclo della violenza non si perpetui. La comunità continua a
dare risposte semplicistiche e del tutto inadeguate al maltrattamento
all’infanzia, forse anche perché ancora non si è compreso fino in fondo il
rapporto indelebile fra le esperienze iniziali della vita di un individuo e
la sua salute mentale una volta diventato adulto, la sua capacità di
controllare la propria aggressività, la sua disponibilità a cooperare con il
prossimo.
Quando il mondo si trova davanti all’orrore di alcuni crimini contro
l’infanzia particolarmente efferati, quali per esempio quelli commessi da
pedofili assassini, si sollevano campagne stampa allarmistiche tese a
trovare soluzioni immediate, e come sempre semplicistiche. Quando per
esempio nell’estate 2000 un gruppo di ragazzi poco più che adolescenti ad
Andria ha tentato di violentare e poi ha bruciato viva una bambina di otto
anni “per il piacere di vederla soffrire, di guardarla negli occhi mentre
bruciava” (dichiarazioni, riportate sui giornali, di uno dei ragazzi che
ha confessato l’omicidio), l’Italia intera rimase sconvolta, scioccata da
tanta violenza gratuita. Si parlò in modo concitato di nuove campagne di
prevenzione contro la pedofilia, di pena di morte, della pubblicazione sui
giornali delle liste dei nomi delle persone condannate per pedofilia (cosa
poi prontamente fatta con esiti ovviamente infausti), si chiese vendetta
oltre che giustizia. Ciò che ciascuno di noi prova di fronte a tanto orrore
è prima di tutto incredulità, sconcerto: se un uomo da solo potremmo
definirlo “pazzo”, “maniaco”, con paroloni che ci rassicurano perché
relegano l’altro nella categoria del mostruoso e quindi come “altro da noi”,
come potremmo riuscire a fare altrettanto se gli assassini sono cinque,
tutti apparentemente normali ragazzini di provincia? E come possiamo
inserire nella rassicurante categoria della “pazzia” le migliaia di persone
che in Bosnia hanno ucciso e violentato donne e bambini, o i turisti
sessuali che non esitano a violentare e seviziare bambine anche piccolissime
solo perché si trovano in un paese straniero dove tutto è permesso purché si
paghi, o i visitatori di quei siti internet che propongono fotografie e film
in cui bambini e adolescenti (e non in fotomontaggio ma chiaramente veri,
come troppe volte le indagini di Polizia hanno accertato) vengono non solo
abusati ma persino seviziati, uccisi, tagliati a pezzi, bruciati,
sacrificati a Satana? Di fronte a tutto ciò troppe volte restiamo privi di
spiegazioni, impotenti, in balia dell’orrore e dello sconcerto, emozioni che
ben presto verranno relegate nell’oblio collettivo in attesa che un nuovo
mostro si faccia largo sulle prime pagine dei giornali.
I problemi collegati alla violenza sono complessi, ma possono essere trovate
delle soluzioni. La scelta delle soluzioni giuste spetta a noi. Se, come
società, continuiamo ad ignorare ciò che la biologia, la medicina, la
psicologia, la psichiatria e tante altre scienze ci hanno ormai dimostrato
rispetto alle origini della violenza, il potenziale dell’umanità rimarrà
irrealizzato e la violenza continuerà ad essere, purtroppo, così
tragicamente diffusa. I genitori, gli educatori, i professionisti che a
vario titolo si prendono cura dei bambini, i politici, hanno il potere di
prendere decisioni che aumenteranno o faranno diminuire la violenza nelle
vite dei nostri bambini. Le loro decisioni faranno diminuire od aumentare la
violenza nella nostra società, aumentando o diminuendo il numero di adulti
sadici, violenti, perversi che ogni giorno devastano la nostra comunità.
Questo libro ha come scopo principale quello di sensibilizzare la comunità
adulta al tema del maltrattamento all’infanzia, con particolare riferimento
al tema dell’abuso sessuale che è una forma di violenza particolarmente
diffusa, anche se ancora troppo poco conosciuta, e particolarmente grave
rispetto ai danni che produce in chi la subisce.
La prima parte del libro propone al lettore una riflessione sull’impensabilità
dell’abuso sessuale e della violenza ai danni dei minori, ancora oggi
troppo poco riconosciuto sia nella sua diffusione che nelle sue conseguenze
sulle vittime e, di conseguenza, sull’intera società, che si trova a dover
convivere con individui violenti e perversi. Claudio Foti analizza le
motivazioni che impediscono agli adulti di vedere fino in fondo la
diffusione e i danni del maltrattamento contro l’infanzia, e quindi di
cogliere gli indicatori di disagio e abuso nel minore. Ettore Perrella
propone un’interessante riflessione sulle resistenze della psicanalisi ad
occuparsi dell’abuso sessuale, sia rispetto alla cura delle vittime, che a
quella del soggetto che commette l’abuso.
Il tema dell’impensabilità della violenza ai danni dei bambini viene ripreso
anche nella seconda parte del volume, per esempio nell’articolo sugli abusi
di tipo ritualistico. “In qualunque modo questa guerra finisca la guerra
contro di voi l’abbiamo vinta noi”, scrive Primo Levi riportando quanto
i nazisti dicevano agli ebrei durante la seconda guerra mondiale. “Nessuno
di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il
mondo non gli crederebbe. Forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche
di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove
insieme a voi. E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di
voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo
mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda
alleata, e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi. La storia dei
Lager, saremo noi a dettarla” (P. Levi, 1986). Primo Levi dà
voce con questo suo brano non solo ai sentimenti di tanti ebrei vittime dei
nazisti, ma a quelli dei tanti bambini vittime di violenze così efferate e
crudeli, apparentemente senza scopo alcuno se non il sadismo di coloro che
le compiono, da risultare incredibili ed impensabili. Chi avrebbe potuto
ritenere veritiero il racconto di cinque ragazzini che violentano e bruciano
viva una bambina solo per divertirsi, se non fosse stato trovato il cadavere
della vittima? Troppo spesso la violenza contro i bambini non lascia prove
evidenti o inequivocabili sul corpo di chi la subisce, ed in particolare
rispetto agli abusi ritualistici l’assenza di prove certe ha sempre permesso
che il dubbio relegasse nel silenzio crimini efferati a cui la società
preferisce non pensare.
Attraverso l’analisi di un caso Claudio Foti propone una riflessione sulle
premesse mentali necessarie alla costruzione di un efficace processo di
intervento a protezione del bambino, processo dove errori e strategie
contraddittorie e confuse sono il prodotto di un’ottica adultocentrica.
Laura De Rui, partendo da un osservatorio giuridico, si sofferma
sull’intervento penale nei casi di abuso sessuale in danno ai minori. Laura
De Rui parte dall’amara riflessione che l’ingresso nelle aule di giustizia
(e nelle stanze delle forze dell’ordine) fa perdere ai bambini lo “status di
persona”: “Il procedimento penale viene condotto sul presupposto, che ne
influenza l’intero corso, della inaffidabilità di queste piccole parti
offese e della falsità delle loro affermazioni. Le bambine non vengono
credute per principio”. Perché le istituzioni collezionano così tante
“occasioni mancate”, come le chiama significativamente De Rui, durante gli
interventi che vedono come protagonisti i bambini maltrattati? Perché sia
l’intervento a protezione dei minori che il processo penale vengono condotti
con tempi e modalità adultocentriche che risultano esse stesse portatrici di
violenza e, comunque, troppo spesso non riparatrici dei danni prodotti
dall’adulto maltrattante? Perché le leggi, che pure esistono, sul diritto
all’assistenza psicologica del minore durante il processo penale (art. 609
decies c.p.p.) o sul diritto ad avere un “curatore speciale” che si occupi
di tutelare i suoi interessi, vengono costantemente disattese senza che sia
stata neppure prevista una norma che sanzioni il giudice che “dimentica” di
applicarle?
L’ipotesi da cui parte questo libro è che ciò avvenga per due ragioni: in
primo luogo per resistenze di ordine psicologico ed emotivo, resistenze che
sono determinanti nel rifiutare di vedere fino in fondo il dramma dei
bambini maltrattati. Tali resistenze sono state ampiamente analizzate in
tutte le pubblicazioni che nell’ultimo decennio il Centro Studi Hänsel e
Gretel ha prodotto
e alle quali si rinvia il lettore, oltre che approfondite negli articoli di
Claudio Foti e Daniela Bruno in questo libro. È possibile però che il
disimpegno delle istituzioni in genere, e degli operatori in particolare,
nei confronti della sofferenza minorile possa dipendere in parte anche
dall’ignoranza: ignoranza rispetto ai bisogni dei bambini, su che cosa sia
il maltrattamento e l’abuso sessuale, ignoranza rispetto alle conseguenze
che i traumi infantili hanno nello sviluppo dell’individuo. Anche se il
detto “Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire” può essere ben
applicato al tema del maltrattamento all’infanzia, questo volume si rivolge
tuttavia alla parte razionale del lettore, a tutti coloro che cercano di non
essere sordi nei confronti della sofferenza minorile, nella speranza che una
maggior comprensione di che cosa sia il maltrattamento all’infanzia e di
quali devastanti conseguenze esso possa avere se non adeguatamente
affrontato sia in termini di prevenzione che di cura, possa rendere più
sensibili i genitori, gli insegnanti, i giudici, gli psicologi, gli
educatori e tutti coloro che entrano in contatto con questo problema.
La seconda parte del volume è dedicata alla diagnosi ed alla cura
dell’abuso sessuale e dei disturbi post-traumatici in genere. L’articolo
di Roccia sugli abusi ritualistici, quello di Roccia e Vassalli sulla cura
di pazienti con diagnosi di Disturbo Dissociativo dell’Identità (una volta
definito Disturbo di Personalità Multipla) e di Gianni Guasto sulla sulle
difficoltà che le vittime di abuso sessuale incontrano nella narrazione
delle violenze, propongono un’interessante riflessione sul fenomeno del
trauma. Viene posta una particolare attenzione all’analisi dei meccanismi di
difesa che i soggetti esposti ai traumi mettono in atto per fronteggiare la
loro sofferenza psichica, facendo riferimento ai numerosi studi che negli
ultimi venti anni sono stati svolti nel mondo su questa tematica. Il tema
della dissociazione come conseguenza di esperienze traumatiche, e delle
difese di tipo dissociativo utilizzate durante la violenza, sono
approfonditi in modo specifico. Negli ultimi vent’anni, studiando i reduci
del Vietnam o dei campi di concentramento, i sopravvissuti ai gravi disastri
causati dall’uomo e le vittime di abusi sessuali, gli psicologi e gli
psichiatri hanno “scoperto” i danni dell’esposizione a traumi gravi e
ripetuti nel tempo, inserendo la diagnosi di “Disturbo post traumatico da
Stress” nel DSM III, diagnosi che viene formulata in modo specifico proprio
nei casi in cui il soggetto si sia trovato a vivere traumi di particolare
gravità.
In realtà già nel 1889 Pierre Janet si era occupato delle reazioni post
traumatiche, descrivendo la dissociazione come principale meccanismo di
difesa utilizzato durante il trauma. Janet affermò che le persone
traumatizzate sono “fissate” al trauma, incapaci di integrare le memorie
traumatiche, e descrisse quella che oggi viene chiamata “memoria
procedurale” in cui le informazioni sono immagazzinate sotto forma di
sensazioni, emozioni, stati d’animo, non accessibili direttamente alla
memoria. Janet osservò inoltre che i pazienti traumatizzati sembravano
reagire ai ricordi del trauma con risposte di emergenza che erano state
sollecitate durante la minaccia originale, ma che non avevano niente a che
fare con l’evento presente. Egli notò che le vittime, fissate al trauma,
erano incapaci di imparare dall’esperienza in quanto tutte le loro energie
venivano utilizzate per mantenere le loro emozioni sotto controllo, a
scapito del prestare attenzione alle esigenze correnti (B. van der Kolk,
1994). Janet descriveva in realtà il Disturbo Post Traumatico da Stress, ma
ci volle quasi un secolo prima che la comunità scientifica riconoscesse come
una vera e propria patologia psichiatrica tale disturbo, attribuendogli un
nome e dandogli diritto di cittadinanza fra le “vere” patologie. Tale
riconoscimento non fu privo di significato, perché voleva dire riconoscere
il potere altamente distruttivo della violenza, e stabilire delle relazioni
di causa-effetto fra l’esposizione alla violenza e la sofferenza mentale,
con conseguente psicopatologia, che in seguito a ciò si sviluppa
nell’individuo.
Con un’impostazione completamente diversa da Janet, alcune importanti
scoperte sulle conseguenze dell’esposizione cronica alla violenza vennero
fatte da psicologi comportamentisti quali Pavlov, Skinner, Seligman a
partire dagli anni quaranta e cinquanta. I comportamentisti attraverso le
sperimentazioni sugli animali hanno scoperto che l’esposizione ripetuta a
stimoli fortemente negativi (per es. scariche elettriche) produceva nelle
vittime reazioni così dette “condizionate” che potevano poi diventare
indipendenti dallo stimolo e produrre nell’animale gravi conseguenze sia
fisiche che psichiche. Gli studi di Seligman alla fine degli anni sessanta
hanno permesso di scoprire che gli animali esposti a scariche elettriche
senza poter avere via di fuga, o senza poter prevedere quando la scarica
elettrica si sarebbe verificata, avevano in conseguenza di ciò una serie di
problematiche fisiche e psichiche molto gravi: le cavie sviluppavano quella
che è stata definita come “impotenza appresa”, una assoluta incapacità a
difendersi anche in tutte quelle situazioni di pericolo dalle quali
avrebbero potuto scappare, ansia cronica, depressione grave, ulcere allo
stomaco ed in alcuni casi anche alcune forme di tumore che portavano alla
morte dell’animale (Darley, Glucksberg, Kinchla, 1993). Le reazioni più
gravi si verificavano nei soggetti che erano costretti a vivere in
situazioni di continuo allarme, per esempio le cavie alle quali venivano
somministrate delle scosse elettriche senza preavviso, mentre meno grave era
la patologia degli animali che vedevano preannunciata la scarica elettrica
da un qualche suono che consentiva loro di poter vivere in relativa calma in
tutti gli altri momenti della giornata.
Sono molti i bambini e gli adolescenti che vengono esposti per anni a forme
croniche di violenza dalle quali non hanno via di fuga, e nei maltrattamenti
fisici o negli abusi sessuali intrafamiliari gli assalti fisici e sessuali
avvengono molto spesso senza alcun preavviso, senza che la vittima possa
prevederli o mettere in atto strategie per evitarli o per difendersi.
All’interno della famiglia maltrattante la violenza è molto spesso cronica,
imprevedibile, senza una logica o una relazione di causa e effetto con il
comportamento della vittima (per esempio il bambino non viene picchiato
perché si è comportato male, ma perché la madre in quel momento è
particolarmente stressata). Questi bambini devono imparare a crescere e
sopravvivere malgrado il senso dominante di minaccia, devono adattarsi a
questa atmosfera di timore costante. Recentemente alcuni studi effettuati su
un elevato numero di vittime di abusi sessuali e su bambini esposti
ripetutamente a forme di violenza, hanno permesso di scoprire che lo sforzo
dell’individuo di adattarsi a queste situazioni di continuo terrore e
violenza può alterare lo sviluppo del cervello del bambino con conseguente
cambiamento del suo funzionamento fisiologico, cognitivo e conoscitivo. In
soggetti affetti dal Disturbo post traumatico da stress, adulti e bambini,
sono state rilevate alterazioni croniche del funzionamento cardio vascolare,
patologia che produce a sua volta delle alterazioni nel cervello e
nell’organismo: alterazioni del battito
cardiaco, attivazione cronica ed anormale del sistema nervoso simpatico,
alterazioni di alcune aree del cervello collegate alla memoria (per es.
l’ippocampo), una diminuzione della serotonina (che sembra sia collegata
all’aggressività e alla capacità di controllo degli impulsi etc.
(B. van der Kolk, 1994; B.D.
Perry, 1995, 1997, 1999).
Le vittime di gravi maltrattamenti nella maggior parte dei casi sviluppano
problematiche psichiatriche, psicologiche e psicosomatiche assai gravi,
anche nei casi in cui durante l’esposizione al trauma il soggetto sia stato
in grado di mettere in atto meccanismi di difesa che gli hanno permesso di
far fronte alla violenza. Molti di questi soggetti svilupperanno il Disturbo
post traumatico da stress, con le drammatiche conseguenze che questa
patologia porta in termini di incapacità di lavorare, di apprendere
dall’esperienza, di instaurare relazioni affettive significative. Un numero
elevato di soggetti svilupperà comportamenti delinquenziali e antisociali,
come ormai una vastissima letteratura ha inequivocabilmente dimostrato,
altri ancora diverranno portatori di malattie psicosomatiche gravi, a volte
anche invalidanti o mortali (per es. disturbi alimentari che sembrano
altamente correlati agli abusi sessuali in età precoce). Infine un numero
non indifferente di soggetti esposti alla violenza cronica durante
l’infanzia (non necessariamente di tipo sessuale) svilupperà da adulto una
qualche forma di perversione che in alcuni casi può portare l’individuo a
commettere abusi nei confronti dei bambini.
Come osserva Ettore Perrella nel suo articolo in questo libro, la
perversione da sempre è stata una patologia misconosciuta anche dagli
psicoterapeuti più famosi. La storia della psicanalisi e della psicoterapia
ha ignorato il problema della cura del soggetto perverso, e tuttora la
comunità scientifica non sembra in alcun modo interessarsi seriamente alla
cura di questo genere di persone ma solo alla loro punizione, o al loro
allontanamento dalla società per proteggere i bambini dalle loro azioni. Ma
la soluzione di fronte al padre che abusa della figlia, al ragazzo che
brucia viva una bambina “per poter guardare il terrore nei suoi occhi”,
o alla madre che usa in modo perverso il proprio figlio, non può essere
trovata nel carcere, né con progetti semplicistici e sbrigativi (per esempio
insegnando ai bambini a difendersi dai pedofili, o allontanando i bambini
abusati dalle famiglie abusanti). Il pedofilo diventa tale perché è stato un
bambino non amato, non rispettato, certamente esposto a violenza cronica
(sessuale o non sessuale questo ha poca importanza). La violenza genera
violenza, affermano alcuni importanti psicologi e psichiatri che hanno
studiato il fenomeno sia dal punto di vista sociologico e antropologico che
da quello clinico (Alice Miller, 1989;
Felicity de Zulueta, 1999; Estela Welldon, 1995).
Un bambino che non è stato amato non può saper amare da adulto.
Se la vera risposta all’abuso all’infanzia risiede nella prevenzione
(oggetto della terza parte di questo volume), intesa come cambiamento della
cultura adultocentrica e come modificazione del comportamento degli adulti
nei confronti dell’infanzia (a partire dalle scelte politiche ed
istituzionali), non va sottovalutato il ruolo determinante della risposta
sociale all’emergere del maltrattamento. Non tutti coloro che vengono
maltrattati da piccoli diventano adulti violenti. Perché? È questo un tema
sviluppato in diversi articoli del volume. La risposta a questa domanda non
è certo indifferente per limitare i danni sociali dell’abuso all’infanzia. È
stato infatti dimostrato che le conseguenze di una violenza sulla vittima in
termini di psicopatologia sono collegate a fattori personali della vittima
stessa, alla gravità e durata del trauma, alla presenza o meno di
antecedenti traumi. Su questi fattori nessun operatore ha potere di incidere
per limitare i danni della violenza. La ricerca ha però anche dimostrato che
esiste un altro fattore importante, anzi assolutamente determinante, a cui
sono collegate conseguenze più o meno gravi dell’esposizione a un trauma, è
cioè la reazione sociale nei confronti della vittima (van der Kolk,
1994; De Zulueta, 1999; Malacrea, 1998). La Dichiarazione di Consenso in
tema di abuso sessuale all’infanzia elaborata dal CISMAI
nel 1999 afferma a proposito delle conseguenze dell’abuso sessuale:
“L’intensità e la qualità degli esiti dannosi derivano dal bilancio tra le
caratteristiche dell’evento (precocità, frequenza, durata, gravità degli
atti sessuali, relazione con l’abusante) e fattori di protezione (risorse
individuali della vittima, del suo ambiente familiare, interventi attivati
nell’ambito psico-sociale, sanitario, giudiziario). Conseguentemente, il
danno è tanto maggiore quanto più: il fenomeno resta nascosto o non viene
riconosciuto; non viene attivata protezione nel contesto primario e nel
contesto sociale; l’esperienza resta non verbalizzata e non elaborata; viene
mantenuta la relazione di dipendenza della vittima con chi nega l’abuso”.
È evidente che come operatori minorili, ma anche come genitori, possiamo
avere un ruolo estremamente importante per limitare i danni di violenze
ormai compiute sulle quali, ahimè, la società non ha potuto avere alcun
potere di controllo. L’essere protetti, ascoltati, compresi, aiutati, il
vedere riconosciuto il proprio ruolo di vittima, l’accoglienza in un luogo
sicuro ed empatico, sono fattori che incidono profondamente sulle
conseguenze che un trauma avrà su un individuo. L’analisi del caso di Sara,
una ragazza gravemente maltrattata per tutta l’infanzia e l’adolescenza e
trattata in psicoterapia (articolo di Roccia e Vassalli nella seconda parte
di questo libro), così come i bambini vittime di abusi ritualistici
descritti in un articolo di questo volume, vogliono essere un esempio di
come la patologia non sia un destino già segnato per tutti coloro che hanno
avuto la sfortuna di essere esposti a gravi traumi.
Non sempre la terapia del soggetto traumatizzato può essere fatta a seguito
di una “libera scelta” del paziente. Per soggetti traumatizzati possiamo
intendere anche i genitori maltrattanti, i pedofili, i padri incestuosi
(persone che se non avessero attraversato nella loro infanzia il dramma
della violenza non avrebbero messo in essere comportamenti violenti da
adulti) e, perché no, anche le tante donne che come Sara si avviano verso la
devianza sociale. Si tratta di soggetti fortemente sofferenti che utilizzano
la perversione o la violenza per mantenere un Sé coeso a scapito della
sofferenza altrui. Su questi aspetti interessante è la riflessione proposta
da Perrella.
Non possiamo continuare ad ignorare che ogni volta che permettiamo ad una
vittima di abusi e maltrattamenti, qualunque sia la sua età, di restare sola
con il suo dolore o, peggio ancora, di continuare a subire violenza, non
chiudiamo gli occhi soltanto sulla sua sofferenza ma anche sul danno, troppo
spesso molto grave, che quell’individuo potrà arrecare alla società intera.
Noi tutti, qualunque sia il nostro ruolo e la nostra professione, possiamo
contribuire a limitare o aumentare i danni delle violenze commesse ai danni
dei bambini.
Un ruolo particolare riveste lo psicologo e lo psichiatra, ai quali in modo
particolare il libro si rivolge, incaricati della diagnosi e della cura del
soggetto vittima di maltrattamenti. Lo psicoterapeuta ha una grande
responsabilità, anche se in casi tanto complessi (adulto perverso, bambino o
adolescente abusato) nessun psicologo o psichiatra può avere la presunzione
di lavorare da solo (Malacrea, Vassalli, 1990; Malacrea, 1998). La terapia
di soggetti coinvolti in abusi sessuali richiede la collaborazione di più
soggetti (insegnanti, polizia, assistenti sociali, magistratura etc.), da
attivare a seconda dei casi e con modalità da pensare di volta in volta, ed
è una sfida ancora aperta per tutti coloro che davvero hanno il coraggio di
condividere con i propri pazienti il dolore di riattraversare eventi tanto
devastanti. In quest’ottica va letto l’articolo di Roger Solomon sull’EMDR,
un nuovo tipo di psicoterapia per la cura dei disturbi post traumatici
(anche se può essere applicata in molti altri contesti). L’EMDR rappresenta
una sfida per tutti quegli psicoterapeuti che hanno l’umiltà di riconoscere
che di fronte a problematiche tanto complesse molto abbiamo ancora da
imparare.
La terza parte del libro affronta il fondamentale tema della prevenzione
e dell’intervento nei casi di abuso. Per una più esauriente trattazione
di questi argomenti rimando alle pubblicazioni del Centro Studi Hänsel e
Gretel e dell’Associazione Rompere il Silenzio.
In questa sezione ho scelto di presentare due interventi, di Daniela Bruno e
di Nadia Bolognini, che riguardano due fondamentali nodi della strategia e
della metodologia elaborata dal Centro Studi Hänsel e Gretel: la formazione
degli operatori che si occupano a vario titolo di abuso; l’educazione alla
sessualità e all’affettività come strategia preventiva primaria in tema di
abuso sessuale.
La riflessione di Daniela Bruno dimostra che lo sviluppo delle capacità di
ascolto, di attenzione e risposta ai bisogni del minore abusato, da parte
del genitore, dell’operatore, del professionista, del giudice, richiede
necessariamente una sufficiente capacità di coinvolgimento di tutti gli
aspetti della soggettività: in altri termini una capacità di attivazione di
quella dimensione emotiva, relazionale, infantile, che costituisce, assieme
a quella razionale, la soggettività in senso globale dell’adulto.
Più precisamente la crescita delle capacità di ascolto e protezione, nei
confronti di un minore abusato, presuppongono:
·
la capacità di pensare, rispettare e elaborare i propri
sentimenti e la propria vita emotiva;
·
la consapevolezza delle problematiche relazionali e “gruppali”
che attraversano la mente individuale;
·
un rapporto sufficientemente positivo, più o meno approfondito
ed elaborato, con le radici vitali della propria storia e della propria
infanzia.
Senza questi aspetti di sensibilità, di comprensione e di identificazione
con le dimensioni emotive, relazionali ed infantili della propria
consolidata soggettività di adulto non è possibile alcuna crescita delle
capacità di ascolto, di comprensione e di identificazione con la sofferenza
o il disagio del minore, e dunque non è possibile alcuna opera di
prevenzione.
L’adultocentrismo manifestato da tanti adulti nei confronti dei problemi dei
minori, specie se collegati a temi “tabuizzati” quale la sessualità, ha
radici nell’incapacità dei “grandi” a porsi in contatto con parti
problematiche della propria infanzia, che spesso vengono negate in una
logica di rigida autodifesa dell’equilibrio raggiunto.
Un operatore adeguatamente formato potrà invece,
come nell’esperienza raccontata nell’articolo di Nadia Bolognini,
suscitare nei minori un coinvolgimento e una autentica apertura e
disponibilità al dialogo.
La scuola (come del resto tutte le altri istituzioni minorili) ha, nei
confronti dei minori, una grande responsabilità. Già Freud diceva: «Mi
sembra incontestabile che la scuola per molti aspetti rimanga al disotto del
proprio compito, che è quello di offrire un sostituto alla famiglia e di
suscitare l’interesse per la vita».
Nell’esperienza riportata da Bolognini vediamo come i ragazzi hanno
espresso interesse e coinvolgimento quando si è dato spazio alla loro vita
emotiva e hanno potuto collegare la dimensione cognitiva con gli aspetti
emotivi e relazionali della loro esperienza di vita. In questo contesto
la “lezione” non proviene tanto “dall’esperto”, quanto dallo scambio delle
esperienze e dall’autentico e vitale confronto tra i ragazzi. Riteniamo che
solo in questo contesto e con questa metodologia si possa svolgere una
efficace opera di prevenzione.
Il terzo intervento, di Laura De Rui, chiarisce come il processo penale nei
confronti di un presunto abusante sia necessario e utile. Necessario perché
è l’unico modo possibile per fermare gli abusi, ma soprattutto utile perché
può “rimettere ordine nei ruoli dei protagonisti di queste tragedie: il
colpevole o i colpevoli e le vittime, con tutto quel che ne consegue a
livello di ritrovata fiducia nel mondo dei grandi, di ricostruzione dei
rapporti distrutti dall’abuso e di spinta verso il superamento del trauma.
In egual misura è necessario per dare al responsabile la possibilità di un
aiuto a ricostruire la propria vita”.
Ma la riflessione di Laura De Rui ci presenta anche un panorama che spesso è
in contrasto con i fondamentali interessi del minore: De Rui ci racconta la
sua esperienza fatta di “eventi processuali nella maggior parte dei casi del
tutto inadeguati rispetto alle esigenze dei bambini”. Il risultato
dell’applicazione rigida di principi adultocentrici all’interno dei
procedimenti penali, è che ancor oggi i processi per violenza sessuale,
soprattutto per i bambini, restano spesso esperienze traumatizzanti e
negative.
La proposta di prevenzione, di intervento, di “cura”, che in questo libro
presentiamo, si muove nella prospettiva, tutt’altro che scontata e di
difficile attuazione, di una sempre maggiore aderenza “all’interesse del
bambino”. L’aiuto fondamentale in questo processo di cambiamento proviene da
una teoria e una pratica capaci di avvicinarsi in modo vivo ed autentico
all’ascolto della soggettività dei bambini e degli adulti che hanno a cuore
l’infanzia.
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