RIVOLTA
CONTRO IL MONDIALISMO MODERNO
di Carlo Terracciano
(Parte F)
Eppure le unità
geopolitiche e culturali di tipo imperiale sono nella realtà della suddivisione
planetaria del futuro e rispondono ad una esigenza reale dettata dalla Storia e
dalla Geografia.
Anche la Geopolitica,
criminalizzata per anni come “pseudoscienza nazista” è tornata in auge dopo
la fine del bipolarismo USA-URSS e la nascita di nuove nazioni e nuove realtà
supernazionali, cone l’Islam Rivoluzionario, il risveglio della Cina o la
nuova vitalità dell’Induismo.
Al momento attuale invece
l’Europa, inglobata nella NATO, non è altro che terra di occupazione,
“terza sponda” d’oltre oceano della potenza aereo-marittima dominante,
fronte avanzato dell’imperialismo nordamericano/atlantico verso il cuore
continentale, l’Heartland russo-siberiano.
In tale contesto TUTTI gli
eserciti e le polizie, i servizi e le strutture politiche delle nazioni europee
sono al servizio di Washington, strutturati ed armati in funzione degli
interessi strategici d’intervento rapido dell’imperialismo americano in ogni
angolo del mondo.
Come tali essi devono
essere considerati come COLLABORAZIONISTI DEL NEMICO OCCUPANTE, da parte di ogni
vero rivoluzionario e patriota europeo: e trattati come tali.
In fondo la guerra contro
l’Europa non si è mai conclusa, dal secolo scorso ad oggi.
E la stessa NATO, lungi da
essere una difesa e una garanzia per i sedicenti alleati europei, ha sempre
rappresentato lo strumento di
dominio americano sull’ Europa; in particolare oggi che non ha neanche
più il velo giustificativo del baluardo anticomunista ed antisovietico.
L’esperienza delle guerre
balcaniche e l’attacco alla Serbia sono solo gli ultimi tragici fatti sotto
gli occhi di tutti. E la vergogna del Tribunale Internazionale dell’Aja, che
processa i vinti e/o gli alleati scomodi per conto dei veri criminali mondiali,
non rappresenta che l’istituzionalizzazione dell’altra vergogna storica, i
tribunali di Norimberga e di Tokio.
Con la teorizzazione degli
“interventi umanitari” gli Stati Uniti si sono autoproclamati poliziotti
mondiali, oltre che carcerieri e boia, contro il “criminale” internazionale
di turno, scelto sulla base degli interessi correnti della strategia militare e
politica del Pentagono: ieri Hitler, Mussolini, Stalin e il Giappone, oggi
l’Iran komeinista, la Libia di Gheddafi, la Corea, o più semplicemtente
Saddam Hussein, Milosevic o Bin Laden!
Per tornare alla
proposizione delle unità geopolitiche autocentrate, noteremo come queste
rappresenterebbero anche la risposta al falso problema della dicotomia tra
GLOBALIZZAZIONE e LOCALIZZAZIONE.
Il mondo moderno sembra
tendere verso l’abbattimento di ogni barriera nazionale (internazionalismo,
governo unico mondiale), culturale (uniformismo dei costumi, delle mode, della
musica, del cibo, internet ecc..) economica (globalizzazione dei mercati,
liberismo assoluto), religiosa (sincretismo, fratellanza universale, modello
monoteista unico), ecc…; e comunque è in tal senso che spinge il progetto
mondialista di una cultura unipolare, modellata sull’american way of life.
D’altra parte la naturale
resistenza di uomini sani e popoli ancora vitali va nel senso apparentemente
opposto: il Localismo, il ritorno ai valori della terra, quando non anche del
sangue.
Si riscoprono usi e
costumi, tradizioni locali o ricette, si riabilita il rapporto armonico con la
natura che fu precristiano.
Fino alla rivendicazione di
autonomia o indipendenza per le “piccole patrie”, con la rinascita delle
lingue perdute, la riscoperta della storia occultata e di simboli e bandiere
dimenticati.
Un fenomeno certo positivo
che però rischia anch’esso di essere strumentalizzato dalle lobbies
mondialiste, per essere utilizzato come semplice folklore, come ulteriore
indebolimento interno della politica nazionale, quando questa non si pieghi
subito e completamente ai voleri e ai valori degli apolidi padroni del mondo.
Il teorico più noto di
questa tendenza “localista”, insieme ai vari I. Illich, V. Shiva e Bové, è
l’ecologista inglese Edward Goldsmith, autore di “Glocalismo”, cioè
appunto la tendenza globale al localismo nel mondo.
In una recente intervista (“La Stampa”,
15/7/2001) il teorizzatore di comunità stabili, territoriali, tradizionaliste,
autoregolate e a crescita zero, afferma:
“Si vuole creare un
paradiso per le multinazionali, rimuovendo le regole che proteggono i poveri e
le comunità locali. Il G8 lo fa sistematicamente…
Credo nei doveri verso la
famiglia e la comunità, nell’idea di religione e di tradizione. Orribile è
la società individualistica, atomizzata, di massa. Non c’è libertà ma solo
Coca-Cola, organismi geneticamente modificati, MacDonald’s.”
Ed ancora:
“La
globalizzazione è un fenomeno temporaneo, che non può durare: Pensi alle crisi
finanziarie che costellano questi nostri anni. ..La politica di Bush porta verso
l’estinzione dell’umanità: ma in tal caso non ci sarà più economia, non
ci sarà più nulla. Credo che le cose stiano cambiando.
Bisogna preparare il
collasso di questo sistema, che arriverà comunque”.
Parole che condividiamo in
toto e che riproponiamo a chi ci lanciasse accuse di catastrofismo apocalittico.
Ci
sarebbe semmai da chiedersi come conciliare le idee di Goldsmith con quelle dei
globalizzatori dal basso, post-marxisti, internazionalisti e cristiani di base,
cioè le ideologie internazionaliste e mondialiste per eccellenza.
E anche con quelle di Bové o del subcomandante Marcos,
arrivato come rivoluzionario marxista nella foresta Lacandona del Chiapas con
“il Capitale” sotto il braccio, e convertitosi alla visione del “Popol-Vuh”,
il testo sacro dei Maya!
Del
resto è noto che, oltre ai succitati, tra i padri nobili dell’Antiglobal sono
stati inseriti, a ragione o a torto, nomi vecchi e nuovi di tutti i tipi: da
Marx a Keynes, dal solito J.J. Rousseau a Russell e Marcuse, da Morel a Tolstoj,
fino ai più attuali Mac Luhan e Jeremy Rifkin, che ha lanciato il termine
“Ecocidio”, titolo di un suo libro(autore anche di:“Il secolo biotec”),
Vandana Shiva, Luther Blisset e ovviamente gli ebrei americani Noam Chomsky e
Naomi Klein, la fortunata autrice di “No Logo”.
Né potevano mancare
religiosi e teologi da Madre Teresa di Calcutta (immancabile, appunto, in tutte
le salse), ad Hans Küng e Leonardo Boff.
Stranamente…non si parla
di Hakim Bey (alias Peter Lamborn Wilson), teorizzatore delle “TAZ”, “Zone
Temporaneamente Autonome” che sembra sia fra le letture preferite delle frange
dure anarco-insurrezionaliste del movimento antagonista. Un Sufi che propone una
lettura anarco-nihilista della rivoluzione antimondialista, sotto il segno non
del materialismo-marxiano ma
…della Dea Kalì, cioè sotto il segno della distruzione totale in quello che
appunto i tradizionalisti definiscono il Kali-Yuga, l’Era di Kalì, la sposa
di Shiva , distruttore ma anche restauratore. [notizie, tratte da forum
telematico, di Luigi Leonini, che riporta le critiche del sinistro Blisset ad
Hakim Bey, considerato quasi un nazifascista!].
Resta il fatto che il
“DIFFERENZIALISMO IDENTITARIO”, la Localizzazione, il particolarismo
etno-geografico non potrebbero comunque contrastare la Globalizzazione imposta,
il progetto Mondialista solo rinchiudendosi nel particolare; opponendo in
particolare piccole comunità ed economie da villaggio allo strapotere economico
e politico, per non dire militare, del mondialismo e dei suoi manutengoli.
Tantomeno prospettando solo un’opera di distruzione totale
(assolutamente necessaria, e prioritariamente indispensabile) delle strutture
del mondo moderno, senza proporre e preparare l’alternativa alla
globalizzazione e non una globalizzazione alternativa.
Né, al contrario,
si può restare in attesa di una crisi strutturale del Sistema
mondialista, che certamente E’ nel destino del Capitalismo Finanziario
Internazionale, ma di cui bisogna favorire il collasso, come giustamente dice il
Goldsmith.
Persino le nazioni nate
dalla Rivoluzione Francese e dalla decolonizzazione del dopoguerra sono
diventati strumenti politici inadeguati ad affrontare il fenomeno; tantomeno
potrebbero esserlo microcomunità d’ogni genere, se non inserite organicamente
in un’unità più grande, più complessa, garante delle specificità locali e
della difesa comune.
Sul problema del rapporto
tra “nazionalità”, “nazionalismo” e “impero” rimandiamo ancora una
volta all’ Evola di “Rivolta contro il mondo moderno”, che anche in questo
campo anticipava di decenni le critiche al nazionalismo che, tra isterismi di
masssa e guerre civili europee, già si scavava la fossa nel secolo trascorso.
Su di essa
il Mondialismo ha posto la sua pietra tombale.
La soluzione del problema
di superare la Globalizzazione mondialista difendendo dall’omologazione
planetaria del capitalismo finale le specificità locali, non può che essere
l’Europa Unita dall’Atlantico al Pacifico, dal Polo al Mediterraneo-Mar
Nero-Caucaso-Siberia: l’Europa di cento bandiere, di mille piccole comunità
sempre più particolari e specifiche nella loro cultura.
Ma un’Europa che sia
comunque omogenea, unitaria nelle sue radici etniche e spirituali più antiche,
in un vasto spazio geopoliticamente
delineato ed economicamente autarchico.
Del resto è proprio questa
l’essenza dell’Imperium tradizionale , descritto da Evola e conosciuto da
tutte le Civiltà autentiche.
Perché l’unità dell’Impero è data dalle élites spirituali, politiche e militari tratte dai popoli
componenti l’Impero stesso portatore di una visione anagogica, spirituale,
metapolitica e metafisica, che compenetra ma supera idealmente gli interessi e
le tradizioni dei popoli compresi nei confini imperiali, ciascuno dotato del suo
spazio geografico particolare.
Ancora una volta la
soluzione più realistica e avveniristica del dramma del nostro tempo risiede
nella saggezza della Tradizione che, in quanto tale, non è né antica né
moderna perché eterna.
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