forgia |
LE QUATTRO ETÀ DELLA VITA |
Il signor Giovanni faceva il fabbro ormai da quasi 40 anni. Aveva cominciato quando era ancora piccolo nella bottega di suo padre anche lui fabbro. Adesso si sentiva un pò vecchio, ma lavorava ancora. Però c'era suo figlio Giuseppe che ormai era lui il vero padrone. Giuseppe aveva imparato tutto, o quasi tutto quello che il padre avrebbe potuto insegnargli sul mestiere del fabbro.
Il figlio Giuseppe faceva tutti i lavori più pesanti. Per esempio era lui che ferrava un cavallo se c'era quello da fare. Oltre a fare i fabbri, infatti, loro facevano anche i maniscalchi malgrado ormai nel paese di cavalli da ferrare ce ne fossero pochi. Ma in compenso erano gli unici fabbri in tutta una vasta zona che ferrassero ancora i cavalli. Una volta il lavoro di ferrare i cavalli era così richiesto che alcuni fabbri si erano specializzati e facevano solo i maniscalchi. Anche il nonno di Giovanni faceva solo il maniscalco. Poi suo padre si era messo anche a fare il fabbro perché era diminuito il lavoro di maniscalco. Ma per ferrare un cavallo occorre essere anche un buon fabbro. Per ferrare un cavallo occorre preparare il ferro di cavallo partendo da una barra di ferro, metterla sulla forgia finché il ferro diventa ben rosso, poi prenderlo con le lunghe tenaglie, metterlo sull'incudine e batterlo per assottigliare la barra e per curvarla a ferro di cavallo. Poi di nuovo sulla forgia e sull'incudine per fare dei buchi nel ferro di cavallo da cui entreranno i chiodi che si fissano nello zoccolo.
Tutto questo era lo stesso tipo di lavoro per fare, ad esempio, un cancello. Si prendevano delle barre di ferro si scaldavano sulla forgia finché erano rosse, si prendeva poi la barra in due, da una parte il fabbro e dall'altra il garzone e si torceva la barra, come se fosse stata della pasta per fare dei torciglioni di pane. Poi si batteva sull'incudine.
Giuseppe era diventato bravo come il padre. In bottega c'erano poi due aiutanti. Il lavoro non mancava. Il babbo, il vecchio Giovanni che ora era anche nonno, faceva soprattutto dei lavori di fino, dei lavori artistici di ferro battuto. Era bravissimo a fare delle foglie che poi venivano messe sulle punte dei ferri delle cancellate.
Per l'officina girava ogni tanto anche il nipotino, Luciano, il figlio di Giuseppe. Aveva sempre qualcosa da chiedere. Ora voleva che gli si facesse un treppiedi per metterci sopra un suo orsacchiotto, ora voleva che gli venisse fatto un cerchio per correrci dietro, e tante altre cose. Suo papà lo mandava via, perché non aveva tempo, aveva tanto da fare. Ma il nonno Giovanni era più paziente, lo stava a sentire, e faceva un pò alla volta quello che Luciano chiedeva.
Così anche Luciano imparava un pò il mestiere. Era presto per mettersi a fare anche lui il garzone, ma non era presto per imparare, vedendo come lavorava il nonno. Un giorno non troppo lontano, finite le scuole, avrebbe anche lui preso le tenaglie in mano ad aiutare il babbo a piegare, a torcere, a battere il ferro rosso.
Nella bottega c'erano molti attrezzi, ma soprattutto era importante la forgia. Era un pò il cuore dell'officina. Il focolare era mobile, appoggiato su quattro gambe di ferro che finivano ciascuno su una ruota di ghisa, bella robusta. Così se necessario si poteva spostare la forgia da un punto all'altro dell'officina. Di fianco al focolare vi era una grande ventola che veniva fatta girare con una manovella. Più si girava svelto e più forte era il soffio d'aria che dalla ventola si immetteva sotto al focolare. Alla mattina la prima cosa che uno dei garzoni faceva era accendere il fuoco nel focolare della forgia. Prendeva della carta e dei pezzi di legno, poi ricopriva tutto con del carbone di legna o del carbone coke a seconda del lavoro da fare e poi accendeva con un fiammifero. Appena la fiamma si sviluppava nella carta, faceva girare la ventola e la fiamma diventava più potente, i legni si accendevano e poi a poco a poco anche il carbone. Quando era ben sicuro che il carbone fosse acceso, fermava la ventola, metteva altro carbone sopra, ed ora la forgia era pronta per lavorare. Quando il fabbro metteva sul carbone il ferro allora il garzone riprendeva a far girare la ventola, il carbone diventava rosso e a poco a poco anche il ferro. Poi, da rosso il ferro diventava giallo brillante, quasi bianco. A questo punto si era pronti per battere il ferro sull'incudine, per dargli la forma voluta.
La forgia sentiva l'importanza del proprio ruolo nella bottega. E un pò era anche vanitosetta. Guardava l'incudine d'alto in basso (infatti era più alta dell'incudine) buono solo, pensava, a prendere delle martellate. Ma se il ferro non fosse stato prima ben ammorbidito nella forgia, tutte quelle martellate non sarebbero servite a niente. Guardava anche le tenaglie con un pò di sussiego. Qualche volta poi si divertiva a fare degli sbuffi di fiamma sulle povere tenaglie quando si avvicinavano ai carboni accesi per afferrare il ferro, e così si scaldavano ancora di più di quello che già dovevano fare per tenere fermo il ferro caldo.
Quindi la forgia la faceva un pò da padrona in bottega. Le cure del fabbro erano tutte per lei. Ogni tanto la ungevano tutta d'olio perchè le sue gambe e le lamiere del focolare non si arrugginissero, ogni tanto rifacevano il letto del focolare con della terra refrattaria e del cemento, oliavano l'asse della ventola perchè corresse più veloce e silenziosa, pulivano il condotto che dalla ventola arrivava dentro la pancia della forgia fin sotto al focolare.
Ma con tutto quel lavoro che c'era, una forgia sola non bastava più. Giuseppe ne parlò con il padre Giovanni. Occorreva una forgia nuova, anche perchè quella che c'era ormai era vecchia. Malgrado tutto l'olio che gli era stato dato le gambe erano tutte arrugginite, la ventola non tirava più tanto bene, perchè l'asse della ventola con tutto quel girare che aveva fatto per tanti anni si era logorato. Quindi la ventola girando un pò oscillava e se si girava troppo in fretta si metteva a fischiare perchè toccava la parete della chiocciola che la rinchiudeva. Insomma, secondo Giuseppe, una seconda forgia sarebbe servita per fare meglio e più in fretta i lavori. La vecchia forgia sarebbe rimasta e l'avrebbe usata soprattutto il nonno Giovanni per i lavori più fini, più delicati per i quali non occorreva tanto fuoco e tanto girare svelto di ventola.
La forgia, che non capiva il linguaggio degli uomini, non seppe niente. Così fu una vera sorpresa per lei quando vide un giorno scendere da un carro una forgia tutta nuova fiammante, più grande di lei. Per farle posto Giuseppe ed i garzoni spostarono la vecchia forgia in un angolo della bottega e misero la nuovaproprio in centro. Fu un brutto colpo per la vecchia forgia. Quel giorno, poi, tutti erano così presi attorno alla nuova forgia, a guardarla, a farle il letto di terra refrattaria che lasciarono spegnere il fuoco nella vecchia forgia. Così quel primo giorno, non solo venne messa in un angolo, ma dovette anche sentire il freddo e l'umiliazione di vedere spegnere il fuoco prima che la bottega venisse chiusa. Normalmente alla sera, quando Giovanni da ultimo chiudeva la bottega - come aveva fatto sempre lui da quasi quarant'anni - c'erano ancora un pò di carboni accesi nel focolare della forgia e questi, con la serranda abbassata, davano un pò di luce ancora nella bottega e soprattutto un bel calduccio alla vecchia forgia. Quel giorno invece freddo e buio ancora prima che fosse sera.
Se una forgia avesse occhi, lei avrebbe pianto. Ma poiché non ne aveva, non pianse. E così anche la sua dignità ne guadagnò. Cosa avrebbero detto quegli invidiosi delle incudini (ce n'erano tre in bottega) o quelle farfalline delle tenaglie a vederla piangere, lei così altera, così fiera del suo ruolo? Ma per fortuna non poteva piangere.
Dal giorno dopo la vita un pò cambiò in tutta la bottega.
La nuova forgia oltre che nuova era più grande della vecchia. Era tutta dipinta di rosso per evitare di arrugginirsi. Il soffio che mandava la sua ventola era potente e silenzioso. La manopola della manovella era di gomma e non di legno come nella vecchia forgia.
Lanuova forgia troneggiava in mezzo alla bottega come una regina. Così almeno pensava con un pò d'invidia la vecchia forgia, pensando: "Vediamo, vediamo cosa sa fare, così nuova e così lucente. Dopo un pò anche lei perderà la vernice, sarà più sporca ed arrugginita."
La forgia nuova era piena di entusiasmo. Per lei quello era il primo lavoro. Aveva tanta buona volontà e voleva mostrare cosa sapeva fare. Non pensava molto alla vecchia forgia, che quasi non vedeva sola nel suo angolo un pò buio. Giuseppe ed i due garzoni erano sempre indaffarati attorno alla forgia nuova. Il nonno Giovanni, invece, lavorava da solo attorno alla vecchia. Metteva lui il carbone, faceva girare la ventola quando occorreva, metteva il ferro nel fuoco e lo ritirava. I lavori che faceva erano lavori così detti d'arte. Venivano a commissionarli delle signore. Erano delle lampade tutte di foglie attorcigliate, odelle culle di ferro battuto per neonati, o dei fiori da dipingere e poi metter assieme a fiori veri nei vasi. Lavori delicati che richiedevano pazienza ed arte. Il carbone che usava il nonno era solo carbone di legna, più dolce e più adatto per quei lavori di fino.
Così la vecchia forgia a poco a poco si consolò di essere stata messa da parte. In realtà lavorando con il vecchio fabbro a lavori delicati e un pò preziosi finiva per sentirsi anche lei un pò artista. E così invecchiava tranquilla, o quasi. A volte aveva ancora nostalgia dei grandi fuochi, del grande martellare attorno, di essere caricata con delle grosse barre di ferro che occorreva fuoco alto e tempo per renderli rossi a puntino. Ma non se ne lamentava troppo.
La forgia nuova era carica al massimo fin dal mattino. Sempre carbone coke, con quel suo odore un pò strano e pungente di zolfo. Nel suo focolare, in mezzo a quell'odore e a quel gran caldo ci sarebbe potuto stare a suo agio anche Belzebù. E chissà che un pò il diavolo non ci mettesse la sua coda là dentro. Infatti dopo i primi giorni, la nuova forgiacominciò un pò a lamentarsi di essere troppo sotto carico, tutto quanto il lavoro pesante a lei, sempre la ventola che gira, sempre nuovo carbone sul fuoco e martella e martella sull'incudine così vicino. C'era da diventare sordi se uno avesse avuto le orecchie. Per fortuna che la forgia nuova le orecchie non l'aveva.
Quindi, ora un pò d'invidia per la vecchia forgia la provava. Perchè qualche volta anche lei non veniva caricata con il carbone di legna, perchè anche lei non veniva usata per fare lavori commissionati da signore gentili e non solo dai rozzi contadini che gridando per farsi sentire sopra le martellate discutevano con il fabbro Giuseppe su tutto: sul lavoro da fare, sul prezzo che era troppo alto, sul tempo che era troppo lungo per terminare il lavoro?
Alla sera la nuova forgia era stanca morta. La vecchia forgia avrebbe voluto un pò chiacchierare con la nuova, sapere da dove veniva, forse darle qualche suggerimento. Ma la nuova forgia cadeva subito in un sonno profondo, tanto era stanca. E poi forse era così indispettita con la vecchia forgia - che se la pigliava molto tranquilla con il lavoro - che non aveva neanche tanta voglia di parlare. E poi che cosa avrebbe potuto insegnare a lei, giovane e forte, una vecchia forgia che ormai si vedeva che era stanca e non ce la faceva più tanto a lavorare? Forse i padroni avrebbero fatto meglio a disfarsene del tutto. Avrebbe potuto fare tutto il lavoro lei, sia quello pesante che quello più delicato.
E così passarono i giorni, sempre a lavorare sodo, sempre in fretta, sempre a fuoco alto.
Un giorno arriva in bottega un contadino con sul carro
un grosso vomere che si era rotto in due. Mentre stava arando, il vomere
aveva trovato una grossa pietra e si era rotto. Era tempo di semina e bisognava
fare in fretta a ripararlo. Giovanni ed il nonno si misero a parlare tra
loro. Il lavoro era difficile e per Giuseppe era la prima volta che capitava.
Il babbo ne aveva fatti degli altri in gioventù, prima che i vomeri
venissero costruiti con le macchine nelle grandi fabbriche. Ma quelli erano
più piccoli. Questo invece era grande e non ci stava tutto sulla
forgia. Scuotevano il capo, il lavoro non si poteva fare. Ma il contadino
insisteva. "Ci sarà ben un modo per farlo, ovvia sor Giovanni. Lei
che ha tanta esperienza, che ne ha viste tante, ci pensi un pò su.
Ci deve pur essere una possibilità."
Ed il vecchio sor Giovanni, dopo un pò, dopo essersi grattato
la pera, dopo aver dato uno scappellotto, ma leggero, al piccolo Luciano
che era venuto proprio in quel momento con una delle sue richieste 'urgentissime'
per il nonno, disse al figlio: "Forse se mettiamo accanto le due forge
il vomere ci sta tutto sul fuoco e possiamo farcela."
E così la vecchia forgia ritornò al centro della bottega tutta stretta accanto alla nuova. Questa all'inizio ebbe un moto di ribellione: "Ce la faccio da sola, ce la faccio da sola", urlò. Ma nessuno degli uomini intendeva il linguaggio delle forge, e così nessuno le diede retta. La vecchia forgia, sorrideva con un pò di pazienza e di saggezza. La saggezza dei vecchi che ne hanno viste tante. "Stai tranquilla," disse alla nuova forgia, "mica ti mangio. Vedrai che assieme potremo fare un bel lavoro."
I due fabbri, i due garzoni ed il contadino erano
ora tutti attorno alle due forge. Vennero caricati i focolari con tanto
carbone e sotto a girare le due ventole, svelti, svelti. I due pezzi in
cui si era rotto il vomere vennero messi su nei due fuochi che ora formavano
praticamente un unico focolare. A poco per volta divennero rossi: "Ancora
carbone intorno," ordinò il nonno che ora aveva preso il comando
del lavoro come ai vecchi tempi.
Quando tutto il metallo fu rosso uniforme, disse: "Dai, ora!"
Il figlio ed un garzone da una parte afferrarono con due tenaglie ciascuno
il pezzo più grande del vomere ed il vecchio e l'altro garzone dall'altra
parte afferrarono l'altro pezzo. Avevano anche messo nel frattempo vicino
le tre incudini a farne quasi uno solo. E su quelli posarono i due pezzi
rotti in modo che combaciassero. "Dai con la mazza ora, e voi due - disse
ai garzoni - teneteli ben fermi con le tenaglie."
Il figlio ed il vecchio fabbro martellavano le due labbra della ferita
del vomere che si assottigliarono e si allargarono. Poi le sovrapposero
e martellarono di nuovo perchè si saldassero. Nel frattempo il vomere
da rosso chiaro che era diventato bruno. Ma i due pezzi ormai erano saldi.
Bisognava ora lavorare più di fino e riscaldare il tutto per ribattere
meglio sulla saldatura. Poi bisognava fare dei buchi sulle due labbra sovrapposte
per inserire dei chiodi da ribattere per essere sicuri che il tutto tenesse
meglio. Di nuovo sul fuoco, di nuovo rosso vivo, di nuovo giù sull'incudine,
e poi di nuovo sul fuoco.
Quando al vecchio Giuseppe sembrò che il lavoro fosse soddisfacente lasciarono raffreddare il vomere. Erano tutti un pò stanchi. Il vecchio fabbro forse meno degli altri tutto eccitato com'era per essere riuscito a mostrare a suo figlio qualcosa che lui non aveva ancora fatto. Le due forge stanche per il gran soffiare ed il gran caldo, i garzoni stanchi per tutto quel tenere fermi con le tenaglie i due pezzi del vomere, il contadino stanco di saltare da una parte all'altra attorno ai fabbri per cercare di vedere come procedeva il lavoro. Anche Luciano che aveva dimenticato la sberla del nonno era stato lì intorno a vedere. Alla fine tirò i calzoni al nonno che, senza girarsi perchè era ancora intento a guardare il vomere, gli passò una mano sui capelli.
"Adesso però viene la parte più difficile",
disse il vecchio fabbro. " Adesso bisogna temprare il vomere. Se non lo
si fa bene potrebbe rompersi. Deve essere tutto a temperatura uniforme.
Occorre poi un grande bidone per l'acqua, grande abbastanza perchè
ci stia tutto il vomere. Dove andiamo a prenderlo?" Qui fu Luciano che
ebbe un'idea: "Nonno, c'è la vecchia vasca da bagno in ghisa che
è ora nell'orto piena di prezzemolo."
"Bravo Luciano," disse il nonno, "buona idea. Andiamo a prenderla."
"Il mio prezzemolo, il mio prezzemolo!", gridò la nonna Antonia quando vide i garzoni che con il badile toglievano la terra dalla vasca. "Stai tranquilla, mettiamo le zolle qui in terra con il tuo prezzemolo ben in vista," la rassicurò il nonno. Maintervenne anche Luciano, con fare saccente, come fosse lui il padrone: "Taci, donna. Dobbiamo fare un lavoro importantissimo."
La vasca venne pulita, trasportata sulla soglia della bottega e riempita d'acqua. "Che cos'è la tempra?" sussurrò la forgia nuova alla vecchia che gli stava accanto. "Fanno scaldare il ferro, che questa volta si chiama acciaio, e poi lo mettono a raffreddare nell'acqua. Perchè venga una buona tempra il calore deve essere uniforme. E' qui che si vede l'importanza di una buona forgia. Devi cercare di fare uscire l'aria della ventola in modo uniforme da tutti i fori sotto il carbone in modo che bruci tutto allo stesso modo."
I garzoni questa volta pulirono bene i due focolari,
tolsero tutto il carbone coke che era rimasto e ci misero tutto carbone
di legna: "Ci vuole il carbone di legna - disse il nonno - perchè
il coke brucia meno bene. E poi lo zolfo dà noia alla tempera."
Quando il fuoco fu vivace, venne rimesso il vomere sulle due forge,
venne coperto tutto da altro carbone di legna mentre i garzoni giravano
e giravano le ventole, finché anche il carbone di sopra prese fuoco.
Quando il ferro prese un colore rosso bruno uniforme, venne tolto dal fuoco
e: "Presto, presto, subito nell'acqua", urlò il nonno. "Tu vai lontano
da qui", e con la mano spinse via Luciano che cercava di infilare la testa
vicino alle forge.
Fu un grande stridore, sfrigolio, vapore, schizzi
di acqua fuori della vasca. Poi a poco a poco il rumore cessò, continuò
invece ancora il vapore, poi anche quello finì. Il nonno fece togliere
allora dalla vasca il vomere, prese un martello e lo percosse. Ne venne
fuori un suono lungo ben vibrato, come di una campana. "Sembra tutto a
posto", disse il vecchio. "Adesso puoi tornare ad arare, caro sor Cesare."
Luciano prese in mano un martello più piccolo: "Posso provare
anch'io?", e senza aspettare la risposta diede un colpo con tutta la sua
forza sul vomere: "Suona bene, suona bene," sentenziò. Il nonno
gli allungò un piccolo scappellotto, ma Luciano aveva previsto la
mossa e si era scansato in tempo, ed era corso via. "Con te facciamo i
conti a casa", minacciò con la mano il nonno.
Era ormai arrivata sera, ed il nonno chiuse la bottega. Le due forge vennerolasciate là dov'erano, una attaccata all'altra. Erano stanche tutte e due e si misero subito a dormire.
Il giorno dopo era domenica e nessuno venne in bottega. Così le due forge poterono parlare un pò. Finalmente!
"Vedi - disse la vecchia forgia - tu, a quanto ho
visto, sei molto brava, ma c'è sempre qualcosa da imparare. Io nella
mia lunga vita ne ho viste molte, ho fatto i lavori più diversi
e strani, compreso fare da braciere per una bella bisteccata. Ah, che bei
momenti di festa quelli! Lo spruzzo del grasso dei salamini sul carbone
che poi schizzano in mille scintille ed in fumo odoroso, la festa dei bambini
intorno che aspettano la loro parte di carne, ben brasata, il vino che
vien fatto scaldare vicino al fuoco..."
"Mi diventi lirica, adesso", disse la giovane forgia.
"Vedrai, vedrai, verrà anche per te il momento", ribatté
la vecchia. "Comunque con tutta la mia esperienza è stato ieri la
prima volta che ho lavorato assieme ad un'altra forgia, come se fossimo
una forgia sola. Sì, c'è proprio sempre da imparare. Tu non
devi avere troppo fretta. Sai già fare molte cose, ma molte altre
le imparerai. Buona volontà ne hai e forse anche un pizzico di ..."
"Vuoi dire che sono ambiziosa? Sì è vero sono ambiziosa,
voglio fare tutto anche le cose più difficili e delicate, come quelle
che fai tu con il vecchio."
"Devi avere pazienza. Verrà anche il tuo tempo. A poco a poco diventerai sempre più brava. Poi diventerai vecchia anche tu. Io allora non ci sarò più, sarò un vecchio rottame. Giuseppe sarà diventato lui il nonno e Luciano farà da padrone. Compererà una forgia nuova e tufarai i lavori delicati e di fantasia. Ma a suo tempo, a suo tempo."
Il giorno dopo le due forge vennero di nuovo separate, di nuovo la vecchia venne messa in un angolo a lavorare con il vecchio. La nuova forgia era di nuovo al centro del mondo, anzi no, al centro della bottega.
Tutto sembrava essere tornato come prima. Ma forse no. Forse dalla nuova forgia era sparita un pò della sua superbia, ed alla sera stava ad ascoltare contenta quello che la vecchia forgia aveva da dirle. Aveva tanto ancora da imparare.
"Bravo nonno Battista. Questa storia mi è
proprio piaciuta. E quand'è che Luciano si metterà anche
lui a lavorare? Anch'io voglio fare come te, anch'io voglio fare il contadino.
Perchè non m'insegni?"
"Ma ti sto già insegnando, anche se non
sembra, come il vecchio nonno Giovanni con il nipotino Luciano. Quando
vieni con me al campo, e mi guardi lavorare,allora
impari. Guardandomi, impari. Ma forse tu non farai il contadino da grande,
tu vivi in città."
"Ma io voglio fare il contadino come te."
"Vabene
a suo tempo deciderai. Adesso devi andare a scuola. Io non ho potuto farne
molta di scuola. Ho fatto solo le elementari. Masi
può diventare un bravo contadino anche studiando fino all'università.
Anzi, diventi un contadino più bravo, più sei istruito."
"Ma nonno, non c'è l'università per
contadini! L'unversità è per gli ingegneri, per i dottori."
"Caro Carletto, ti sbagli. Si può diventare
dottore in agraria. Invece di curare gli animali come i veterinari o gli
uomini come i medici, si cura il mondovegetale.
Le piante sono anch'esse degli esseri viventi molto complicati. E si ammalano
anche. Così se vorrai fare il contadino puoi diventare un contadino
istruito, un dottore dell'agricoltura. Ma c'è tempo, c'è
tempo. Devi ancora finire la prima età quella dell'adolescenza,
e poi devi passare attraverso l'età della giovinezza, quella più
pericolosa. Lì potrai cominciare a preoccuparti di cosa fare quando
entrerai nell'età della maturità. C'è tempo."
"Va bene, nonno. Allora studierò per fareil
dottore dei campi."
"Bravo Carletto. Ma adesso a nanna."
"Ma, nonno, c'è ancora la storia per l'età della vecchiaia."
"Quella è per domani sera."