415


A tutti gli amici di Vittorio Nicolucci.


Vittorio Nicolucci è morto a Roma, in una giornata qualsiasi di settembre, l'anno scorso. Aveva un amore profondo per la musica, tanto da scegliere di educarsi come "dilettante", nella più bella delle accezioni: quella del "diletto". Vittorio ci ha scritto, stampato, rilegato, inviato per anni la sua piccola rivista dal nome breve da scrivere e lungo de leggere: 415. L'abbiamo letta, conservata, a volte amata proprio per quella sua "democratica" povertà di materiali: carta economica, fotocopiata e pinzata a mano... così a me sembrava sempre di ricevere a casa la lettera personale di un amico caro, amante della mia stessa amante, disincantato, a volte, altre entusiasta come un bambino, ma sempre luminoso, onesto, forte, saggio. Due mesi prima della sua scomparsa ero a casa sua, con il mio figlio più piccolo, Tobia. Vittorio ci raccontava dei suoi sogni e dei suoi desideri futuri. Amava la frase di un uomo dell'epoca dei Lumi, e ormai mi capita di pensarla solo più come una frase del mio amico Vittorio: «Amo la musica, ma ancora di più amo l'Umanità»; Charles Burney, Londra, 1771.

Era l'ultimo luglio di Vittorio. A Roma faceva molto caldo, e lui non ha ventilatori nella sua casa: solo correnti d'aria, porte aperte, specchi persino negli scuri delle finestre spalancate, per riflettere aria, vento, luce.
Il suo appartamento è chiuso solo da zanzariere (non ho mai visto una sola zanzara tutt'intorno a casa sua... ), che ti si abbattono sulle dita quando apri male le sue finestre a ghigliottina, quasi fossero l'unico "filtro" a chi entra per visitarlo: «la mia casa è come fosse la tua, ma stai attento a chiudermi bene finestre e rubinetti dell'acqua, che se no poi perdono, e non si trova più nessuno che li sa riparare.»
«Vittorio, non ti preoccupare» gli ho risposto; «abbiamo due giorni interi prima che tu parta per le vacanze, e nonostante il caldo romano, credo di riuscire a dimostrarti che ricordo tutta, proprio tutta la "Regola" di casa tua. Guarda:» e gli chiusi con il solo, delicatissimo gesto di un dito il rubinetto del lavandino in cucina, che faceva scorrere solo acqua così calda da non rinfrescare mai abbastanza per la nostra sete: non ne scorreva mai abbastanza... e scorreva come il sangue caldo, quando eravamo lì, nella sua casa, a raccontarci di quelle sue finestre e di quei suoi rubinetti, e io non capivo mai abbastanza di quante cose uscissero ed entrassero dalla casa di Vittorio, dal suo scorrere fluido, sereno, verso gli altri, verso il mondo degli altri.
Vittorio consegnava la sua casa a me e mio figlio Tobia, per il primo viaggio "da solo con papà" dato che aveva otto anni, e suo fratello a otto anni aveva fatto il suo grande viaggio con me. E Vittorio si sentiva felice, fiero di offrire quell'opportunità al mio fiero Tobia, per il suo "viaggio di iniziazione". La prima sera andammo in pizzeria tutti e tre. Ed è solo quello il giorno che mi è rimasto nella memoria, intensamente: quello del primo del viaggio di Tobia, insieme a Vittorio, come se tutto dovesse continuare domani.
Parlammo di tutto, di tanto, incrociando le domande di Tobia con le nostre e quelle del mondo intero, la musica con la politica con la pizza con gli ideali con i fanatismi col prosciutto con le passioni con gli amori. Poi arrivò una giovane donna con l'aria da vecchia, la bocca sdentata e le vene delle mani straziate dall'ago, e ci offrì dieci accendini per diecimila lire. Barattai per la metà, ma ne dovetti comprare venti per quel prezzo. Vittorio osservò che fumavo troppo.
Adesso, i sei accendini che mi sono avanzati dopo un mese e mezzo di troppe sigarette accese e gettate, sono gli unici oggetti che ho di Vittorio.
Sono uno strano feticcio di plastica comune, riempiti di un liquido che si consuma pian piano in fiammella, come anima che esce dal corpo e si sparge in calore. Feticci che non hanno importanza se non per un'istante, che si consumano e non si ricaricano, che si gettano e non si riciclano.
Vittorio, non voglio disperdere nel niente il tuo ricordo.

Così come vorrei che tu mi dicessi che non è vero che sei morto, così ti saluto.


Tuo affezionato amico,                      

Claudio Ronco


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