Al   viandante che dalla   Maremma   giunga sui colli che costeggiano la via   Francigena   e si affacciano sulla val d'Orcia, si offre il raro conforto di vedere il cammino ben segnato nella valle come su una carta geografica. Da qui sembra davvero che la natura e le opere dell'uomo si manifestino in tutta la loro chiarezza. Ma in questa parte della Toscana ci sono mille altri luoghi in cui quella vista dall'alto si riverbera e si moltiplica: torri, cattedrali, rocche, campanili. È dunque difficile sottrarsi a un'improvvisa sensazione di dominio o di distacco dal mondo. In questi luoghi, a loro volta sormontati dall'edenica mole dell'Amiata, i modi antichi di vivere lo spazio sono diventati naturali. Qui bene alligna il paradosso, e le altezze - non dimentichiamolo - sono tanto più sublimi quanto più vicine alla terra e alla sua umanità. Così la torre e il campanile, che pure tendono al cielo, finiscono per proiettare la loro ombra su una piazza di cui disegnano i confini. Allora il viaggio del pellegrino, attratto da un centro, si fa circolare, si trasforma in rotondo labirinto, in ritorno, in palinodia. Anche il tempo della rievocazione torna indietro, passo passo, dalla fine all'inizio, come nel Palio di Siena; tutte le grandi storie s'inaugurano con uno sguardo all'indietro, con un ricordo e un filo da non perdere. Ed è proprio questo modo di riandare il passato che fa del telaio lo strumento ideale del narratore. Ma - è bene precisarlo - la tela non è il gomitolo, e il racconto non coincide tanto con l'azione del tessere - che pare il vivere -, quanto con il suo contrario, col guastare la tela e riavvolgere il filo: raccontare per non morire. Il pellegrino, intanto, discende in quella sorta di rovescio del mondo, in quel caotico e goliardico regno dell'azzardo che è la taverna. Ora, l'alta e solitaria torre da cui scruta il mondo è la cantina, con tutto il suo potenziale divinatorio. Non gli resta che farsi poeta, per raccontare, in qualche modo, il suo cammino nelle inestricabili trame del mondo:
LUDUS VENTI
Factus de natura levis elementi,
foliis equalis, quibus ludunt venti,
feror ego velut sine nauta navis,
ut per vias celi vaga fertur avis.

Pluviis equalis, fluvio labenti,
sub eodem celo numquam permanenti,
non me tenet vinclum, non me tenet clavis:
iter mi morari res videtur gravis.
GIOCO DI VENTO
Fatto di una natura leggera e sottile,
come le foglie con cui giocano i venti,
sono trasportato come una nave senza guida,
e vago come un uccello per le vie del cielo.

Sono come pioggia, come fiume che scorre,
che non resta mai sotto lo stesso cielo;
non mi tiene nessuna catena, nessuna chiave:
mi sembra intollerabile ritardare il cammino.

ARACHNE'S CLEW
I'm a ropedancer on the clew
that you spin and spin, Ariadne,
that you spin and weave around me,
with the thinnest thread of dew.

I'm a ropedancer, am I a fly?,
on the web you weave, Arachne,
in the cobweb thickened around me,
with a tearful silky tie.

When you cut the thread or it tears,
with a smile or with the shears,
shall I live or shall I die?
Are you the Fate? Me, butterfly?


IL FILO DI ARACNE
Cammino sul filo
che fili, o Arianna,
che fili, tessendomi intorno
trame di fina rugiada.

Cammino, quasi fossi una mosca,
sulla tela che tessi, Aragna,
in dense ragne d'intorno,
lacci tessuti di lacrime e seta.

Quando taglierai il filo, o si strapperà,
con un sorriso o con forbice,
dovrò morire o camparla?
Sei la Parca? o io farfalla?

La ragnatela, poetica e musicale, cui il nome del gruppo stesso allude, non poteva mancare in una produzione basata sui ricordi di un viaggio, sull'esperienza di labirintiche fascinazioni. Il senso della breve composizione è quello di indicare nel viaggio una metamorfosi dell'anima. Il testo pertanto allude ai "fili" culturalmente più famosi e l'intreccio che se ne fa (il nodo vorremmo dire) suggerisce che non sono "fili" troppo diversi tra loro: l'intreccio del racconto, con le sue penelopiche trame, rimanda così ad Arianna e al labirinto, ovvero alla ragnatela di Arachne (che di Arianna pare una metamorfosi fonetica) , al bozzolo della metamorfica farfalla (che nell'antichità è simbolo dell'anima), infine alla Parca che taglia il filo, Atropo. Ed Atropo, non ci dispiace gozzanianamente notarlo, è il nome di una farfalla.
WINDSONG
(Palinode)

I felt like giving you
a precious gift.
Without a second thought
I offered you my soul.
I searched the Wind for it,
I think it might have flown away:
if you find it for me,
pray send it back in haste.

CANZONE DEL VENTO
(Palinodia)

Volevo donarti una cosa
preziosa,
e, senza riflettere,
ho pensato alla mia anima.
L'ho cercata nel vento
e un dubbio m'assale:
se ti capitasse di parlarci,
così, per caso,
dille di tornare.

Windsong è un testo in inglese che tuttavia si muove sulle orme di una traduzione italiana basata sulle opposizioni semantiche "cosa | preziosa" e "mia | anima". Tali opposizioni danno il senso di un ribaltamento prospettico accennato fin dal titolo italiano "Palinodia" (che allude pur sempre al viaggio) o da quello inglese, in cui il vento è materializzazione caduca proprio della stessa anima e proprio del suono della voce o degli strumenti. Accentua l'opposizione semantica e strutturale il fatto che si tratta di una composizione musicale palindroma, cancrizans: le note che costituiscono la melodia di Windsong sono infatti le medesime che formano quella di Arachne's clew, ma esposte in senso retrogrado, dall'ultima alla prima. Ma entrambe le composizioni sottintendono un testo primitivo, più antico, che si finge come modello (anche se non è cantato). In questo modo il gioco di rimandi non è solo musicale, ma anche letterario; inoltre, la lingua inglese del testo trova la sua giustificazione proprio dal modello antico in italiano (perché lì sono le radici culturali del gruppo InChanto). Palindrome sono dunque le rime del madrigale; rime che legano un settenario ad un endecasillabo, e viceversa. Merita sottolineare come il ribaltamento speculare sia propiziato, baroccamente, da "Eco":


VAGO TREMOR LEVATO AL CIEL DAI FRONDI
(sonetto)
Vago tremor levato al ciel dai frondi,
che l'aere movi e dolcemente spiri,
ti prendi il core mio, i mie' desiri,
e teco ne le nubi mi profondi.

E voli in su la Luna et ivi ascondi
le tristi cure mie, i mie' sospiri.
Qui la Natura leve par ch'ispiri
novo consiglio; e pace al core infondi.

Dall'alto e monti e fiumi i' veggio, e mare;
e veggio l'huom, che mal per bene rende,
et odo le querelle e l'aspre pugne

humane: fioco 'l suon fin qui ne giugne;
pur c'è chi vince o piagne e chi s'arrende.
I' non vorre' giammai da qui tornare.

Del sonetto, che si richiama velatamente a simili esperienze dei secc. XVI e XVII, notiamo soltanto il "drammatico" e ossimorico enjambement che lega e divide le due terzine: "pugne | humane". Il sonetto è dunque un'ascesa purgatoriale verso una desiderata pace spirituale.
MULIERMALA

"Ut Calypso et Circe canis,
me circumdas verbis vanis;
fascinosa tu, sirena,
blanda vincis me catena.

Brevem mi dedisti amorem
et optati veris florem,
malum fructum venenosum,
primo viro perniciosum.

Cur nunc vis me liberare?
Dulce est malum malae menti,
gratum et laetum impaenitenti."

Mora mors est peregrinis
quod itineris est finis;
vates iam non recordantur
peregrini si morantur.

MALIARDA
(trad. it.)

"Tu canti al pari di Calipso o Circe
e mi cingi d'assedio con le tue parole.
Mi leghi, maliarda, sirena,
a una dolce catena.

M'hai concesso un breve amore,
il fiore della desiderata primavera:
quella mela velenosa
che tanto costò al primo uomo.

Perché ora vuoi liberarmi?
Ora che ho imparato le dolcezze d'amore!
Il male dà diletto a chi è malvagio,
e seduce soavemente l'impenitente."

La sosta è morte per il pellegrino,
perché è la fine del viaggio:
al poeta viene meno la memoria,
se il pellegrino si ferma.

CARMEN TABERNARIUM

Surgit Sol et surgit Luna,
nobis omnibus Fortuna;
simul homines consurgunt
sed ut astra mox recumbunt.
Sol demergi vult in mari,
cava Luna extenuari,
tu succumbes cibo obrutus
et non aqua, vino imbutus.

Haec militia, mi tiro,
est tam grata et matri et viro
veritate musti fiso,
nummis, ioco, gula, risu.

Mala malis deprecantes,
bonis bona propinantes,
nos qui sumus hic, canamus
et pro Baccho combibamus.

ALL'OSTERIA
(trad. it.)

Sorge il sole e sorge la luna
che governa i destini di noi tutti;
insieme agli astri si levano gli uomini,
Il sole vuole immergersi nei flutti
e la concava luna smagrire nel nulla,
tu invece soccomberai sopraffatto dal cibo;
non fradicio d'acqua, ma di vino.

Questa milizia, cara la mia recluta,
è tanto gradita a chi, donna o uomo,
sia convinto di trovar la verità nel mosto,
e creda nel denaro, nel gioco, nella gola e nel riso.

Senza augurare malanni ai malvagi,
agli onesti offrendo calici ricolmi di bontà,
dobbiamo cantare, noi che siamo qui,
e tutti insieme brindare a Bacco.

Questi due testi in latino, in ottonari "goliardici", ricordano i temi degli studenti medievali e dei famosissimi Carmina Burana; tali testi raccontano tuttavia degli allettamenti del pellegrino richiamandosi, attraverso il riferimento a Calipso e a Circe, al viaggio per antonomasia, quello di Ulisse. Non poteva dunque mancare la taverna, luogo di sosta e di ristoro, ma anche simbolo di ogni "altrove" e parodia della società.

   

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