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Prefazione

L'Italia è uno dei paesi europei a maggiore rischio. Il nostro territorio, infatti, è sismico per il 40%, ed il 65% delle costruzioni edificate in queste aree sono sismicamente insicure, come dimostrato anche in occasione del terremoto che, nel 1998, ha colpito l'Umbria e le Marche.

Centinaia dì piccoli bacini si affiancano ai 5 grandi bacini nazionali (Po, Arno, Tevere, Piave, Volturno) nel disegnare una mappa del rischio alluvionale estesa e capillarmente diffusa da Nord a Sud.

L'instabilità geologica dei nostri monti, in particolare dell'Appennino, rende le frane e i dissesti una regola, piuttosto che un'eccezione (frana di Sarno e Quindici del 1998).

Circa 2 milioni di italiani sono insediati in aree a rischio vulcanico e convivono - in modo non pienamente cosciente - con il rischio di eruzioni esplosive dalla tremenda forza distruttiva.

A questi rischi, che possiamo definire "naturali", dobbiamo aggiungere quelli originati o connessi con l'attività dell'uomo.

La densità di impianti industriali pericolosi in alcune aree del Paese pone il rischio industriale al vertice delle attenzioni degli organi di protezione civile, non solo locali. Il rischio incendi, è sempre altissimo nelle nostre città e negli insediamenti industriali.

A questo aggiungiamo il rischio connesso con il trasporto di sostanze tossiche o pericolose, su una rete viaria fin troppo congestionata come quella italiana.

Senza dimenticare, poi, il rischio nucleare e i pericoli derivanti, più in generale, dalle varie forme di inquinamento.

Alla grande categoria dei rischi dobbiamo aggiungere altri importanti capitoli: quello della tranquillità nello svolgimento delle attività produttive e, più in generale, nella vita civile del Paese, quello della realizzazione degli impianti sotto il profilo della progettazione, della realizzazione e della manutenzione (oggi purtroppo, di allarmante attualità, in alcuni settori particolarmente delicati come quello sanitario); la vita domestica e quella sui luoghi di lavoro, di recente regolata dalle disposizioni del decreto legislativo 626, sulla cui piena applicazione ancora molta strada c'è da percorrere.

Questo quadro, certamente allarmante, potrebbe facilmente essere definito sconfortante, ma così non è. Così non è grazie al fatto che una cultura della autoprotezione, come spiegano gli autori di questo libro, passo dopo passo, sta crescendo anche nel nostro Paese.

Una cultura della protezione civile che chiede, in primo luogo, a ciascuno di noi una maturazione delle scelte e dei comportamenti. Una cultura che passa dall'acquisizione delle norme fondamentali di auto-tutela fino all'impegno volontario nelle istituzioni e, più specificamente nella protezione civile.

Una cultura, quella del volontariato che trova un fondamentale presidio ed un origine sociale già nella costruzione dei primi sistemi di sostegno sia esso formale – proprio delle istituzioni – sia esso informale legami con parenti, amici, colleghi, persone con cui si condividono alcune basilari idee e concezioni di vita, affetti e interessi.

Il Volontariato, le strutture operative, gli Enti Locali, la comunità scientifica, un insieme di persone che condividono un territorio, in cui i fattori ambientali si sono via via fusi con l'opera dell'uomo, in un reciproco adattamento: un insieme che spesso non è riuscito a rispettare le regole che pure si era dato, realizzando, come dicevamo all’inizio, un concentrato di pericolosità e di rischio ad alta incidenza.

La trasformazione dei nostri paesaggi, le cause e le forme dei disastri ambientali, pone sul piano dell’intervento di protezione civile, la necessità di allargare il sapere interdisciplinare al contributo di altre figure professionali. Al militare e al vigile del fuoco "dell' era dell’emergenza", si sono affiancati prima il volontario, poi le comunità scientifiche, gli enti locali, gli ordini professionali, gli imprenditori fino alla costruzione e alla realizzazione di un sistema complesso ed integrato di protezione civile.

L'architettura di questo sistema complesso di servizi integrati porta a riconoscere il lavoro d’equipe rnultiprofessionale: rappresentanti degli enti locali, vigile del fuoco, volontario, scienziato, militare, cittadino che diventano cosi l'unità operativa di base di protezione civile.

La "cultura dell’emergenza e del soccorso" aveva dominato fino al 1994 senza alcun approfondimento scientifico delle cause, degli effetti e senza orientare mai "il sistema" alla previsione ed alla prevenzione, allineandolo solo sulla gestione dell’emergenza.

In questi ultimi cinque anni tanto si è fatto a partire dalla Conferenza di servizio della protezione civile del 1996 a Castelnuovo di Porto.

In quella sede si aprì il «processo» a com’ era e cosa doveva invece diventare la protezione civile: un servizio snello, veloce e vicino ai problemi del territorio e dei cittadini introducendo, tra l’altro, anche un diverso modo di comunicare, informare e finalmente oggi possiamo anche dire: di formare.

Da quella revisione radicale che si verificò a Castelnuovo, scaturì un nuovo approccio, questa volta meno casuale, che si manifestò mettendo al centro dell'attenzione la circolarità ricorsiva propria di un sistema di protezione civile e cioè: previsione, prevenzione, pianificazione,emergenza, gestione, rientro e ripristino della normalità.

E’ in questo contesto che giunge gradito il contributo degli autori di questo libro non a caso intitolato: "La pianificazione sociale delle emergenze. Informare, formare, comunicare la sicurezza". Perché al punto in cui siamo non si può più separare l’attività di protezione civile – di cui la pianificazione fa parte – dalla gestione dell’ambiente, delle città e delle comunità, né tanto meno, questa operosità, può essere ignorata dalla comune attività di informazione, formazione e comunicazione.

Franco Barberi

Direttore Agenzia Nazionale di Protezione Civile

 

Premesse

E’ dalla lettura di libri come questo che si comprende quanta strada abbia fatto nel nostro Paese la comunicazione pubblica e, soprattutto, quanto consolidata sia ormai la sua capacità di essere un elemento essenziale in processi amministrativi e organizzativi rilevanti.

In gioco c’è, come spiegano gli autori, una comunicazione intesa non come semplice trasmissione di notizie ma come un meccanismo articolato e complesso capace di fornire le risposte e le conoscenze necessarie per decidere.

Una disciplina in grado di parlare agli addetti ai lavori ma anche ai singoli cittadini, alle associazioni e alle diverse componenti delle nostre comunità secondo un’idea di servizio che in Europa è già largamente praticata e condivisa.

Già questo basterebbe a connotare il lavoro di Fabrizio Cola, Alberto D’Errico e Luigi De Luca non semplicemente come un manuale ben fatto ed efficace ma come un tentativo, largamente riuscito, di definire una visione d’insieme e un’organizzazione pratica di una comunicazione mirata a un settore sempre più strategico.

Un tentativo che, con competenza e chiarezza, tende a superare gli schemi e i luoghi comuni in cui spesso vengono relegate tematiche rilevanti e questioni fondamentali per lo sviluppo del nostro Paese.

La comunicazione di cui si parla, infatti, deve essere capace di garantire la conoscenza delle strutture e la trasparenza delle singole attività. Deve essere in grado di dare risposte precise e quindi coinvolgere il più largo numero di persone. Deve sapersi muovere in contesti complessi, con rapidità ed efficacia senza mai cedere all’improvvisazione e anzi, garantire un’alta qualità ed un livello di credibilità indispensabili a raggiungere i propri obiettivi.

Quando poi si tratta di protezione civile - ma il discorso potrebbe essere esteso anche ad altre istituzioni locali e governative - una comunicazione così intesa, rappresenta una svolta importante rispetto ad un modo tradizionale e burocratico di gestire i rapporti con la società civile.

I grandi eventi naturali, l’impatto ambientale, i rischi rilevanti, la sicurezza nei posti di lavoro sono oggetto di un’attenzione ed un interesse crescenti da parte della opinione pubblica cui raramente corrisponde un atteggiamento conseguente, almeno per quanto riguarda l’informazione.

E’, quindi, un inutile esercizio di retorica meravigliarsi se, ogni qual volta si attivano rapporti tra le Istituzioni e i cittadini, questi ultimi assumono atteggiamenti negativi. La gente è spesso priva di informazioni e troppo spesso viene informata in modo superficiale ed insufficiente.

Certo la sola comunicazione non farà arrivare i treni in orario, non terrà pulite le strade e, nel nostro caso, non eviterà i terremoti, le alluvioni o altre calamità naturali. Ma, quando si tratta di protezione civile, una buona comunicazione può, in certe occasioni, evitare il panico, consentire un’azione coordinata e sinergica e, quindi, salvare vite umane.

La comunicazione sulla quale gli autori si interrogano è quella che consente a ciascuno di conoscere per decidere e scegliere; è indispensabile per accompagnare ogni azione strategica; per garantire le modalità con le quali occorre confrontarsi con la gente; è necessaria per migliorare la qualità dei servizi resi, ma anche per modificare la percezione delle strutture pubbliche da parte dei cittadini.

Tenendo sempre presente che comunicare è qualcosa di più e di diverso che informare. Significa saper parlare ma anche saper ascoltare, identificare il proprio pubblico, usare un linguaggio capace di suscitare un dialogo, realizzare, in una parola, un vero e proprio servizio.

Ma allora come mai è così difficile comunicare in materia di protezione civile ?

Innanzitutto perché, anche in questo caso, si scontano limiti e ritardi che la nostra realtà ha imposto ai processi di comunicazione e che possono essere così indicati:

Limiti della comunicazione pubblica: intesa, sino ad ora, come elemento accessorio e aggiuntivo di un servizio e non componente fondamentale del servizio stesso. Da qui discende una scarsa considerazione non solo nei confronti di chi fa comunicazione ma anche un non adeguato impegno nella ricerca dei modi e delle forme più idonee per raggiungere gli obiettivi prefissati;

Limiti del sistema informativo: l’informazione nel nostro Paese, si è andata costruendo – salvo rare eccezioni – su di un meccanismo emozionale che non dà elementi certi per capire, che di ogni cosa o fatto fornisce descrizioni di maniera e che privilegia, nella maggior parte dei casi, il clamoroso e il sensazionale.

Una spettacolarizzazione così esasperata non ha risparmiato nessun settore: né quello della cronaca, né quello della politica, né, tantomeno, quello dell’amministrazione pubblica.

Limiti delle istituzioni pubbliche: ciascuna con il proprio ambito, le proprie norme, le proprie prassi. Ciascuna isolata e non comunicante con le altre. Un fenomeno di frammentazione sempre più evidente che in un saggio apparso qualche tempo fa sulla rivista "Esprit" veniva così definito:

"I poteri pubblici tendono sempre meno a pensare la loro azione in funzione delle esigenze degli utenti e sempre più in base a una suddivisione delle competenze, una delimitazione dei campi di intervento, in sostanza una spartizione del potere."

Questo scenario tende a mutare a partire dal 1990 allorché nuove leggi e regolamenti cominciano ad avviare profondi processi di modernizzazione che identificano nella comunicazione un elemento essenziale per il cambiamento della Pubblica Amministrazione. Una comunicazione che il Parlamento ha definitivamente legittimato nelle settimane scorse con l’approvazione della legge 150 che ne definisce strategie e compiti.

Oggi possiamo dunque misurarci con una comunicazione sempre più in grado di assicurare:

la trasparenza delle responsabilità dei singoli Enti

la trasparenza dei livelli di coordinamento

la trasparenza degli strumenti impiegati

la trasparenza dei risultati raggiunti.

Per ottenere questi obiettivi occorre innanzitutto definire i soggetti del messaggio, che schematicamente, possono essere così individuati:

amministratori, tecnici, strutture del volontariato, mass–media, opinione pubblica.

Avviando un percorso in cui siano chiaramente definiti quali livelli intendiamo attivare, quali modi vogliamo individuare, quali mezzi vogliamo utilizzare, quale pubblico vogliamo sensibilizzare, quali fini intendiamo raggiungere.

Sarà così possibile assicurare alla comunicazione della protezione civile quel ruolo e quel significato che in un Paese moderno le competono.

Vale a dire un vero e proprio servizio che risponde non solo ad un generico diritto all’informazione, ma che garantisce a ciascuno di noi la possibilità di un reale rapporto e, quindi, di un controllo su ciò che questo settore è chiamato a realizzare.

Se saremo capaci di comunicare correttamente e costantemente sarà più facile, nei momenti di difficoltà e pericolo, non solo assicurare l’attenzione e la collaborazione della gente ma anche ridurre, se non evitare, equivoci, alibi, rimpalli di responsabilità, accuse e polemiche.

"Limiti" che da sempre rendono difficile e problematico il rapporto tra l’amministrazione e il cittadino.

Un rapporto il cui miglioramento rappresenta invece uno dei presupposti per rinnovare le Istituzioni, facendole sentire non altre e diverse ma vicine ed in sintonia con le aspettative e i bisogni delle nostre comunità.

Insomma, per dirla come gli autori, è indispensabile comprendere che "la necessità di un’attenta attività di informazione, di una mirata attività di formazione e di una efficace comunicazione, oggi più che mai, sono diventati strumenti di straordinaria importanza per la pianificazione delle emergenze".

Questo percorso è strettamente collegato ad un radicale cambiamento di cultura e necessita, per essere legittimato e sviluppato, di nuove professionalità.

Si tratta di formare una leva di comunicatori pubblici che sappiano progettare, realizzare e gestire sistemi comunicativi di grande qualità. Che conoscano le nuove tecnologie, le reti civiche, le banche dati e le utilizzino secondo una strategia che ponga al centro il cittadino e il suo diritto a conoscere.

La recente approvazione della legge 150 sulle attività di informazione e comunicazione nella Pubblica Amministrazione rappresenta una svolta decisiva per questi obiettivi.

La legge pone con forza il tema della formazione per assicurare al sistema pubblico professionisti in grado di gestire una molteplicità di strumenti secondo obiettivi complessi e in strutture diverse.

E’ una legge che ci avvicina all’Europa e che sancisce, in maniera definitiva, un’idea di comunicazione molto vicina a quella che gli autori sembrano privilegiare nel loro impianto teorico.

Il volume riesce, con successo, a dare alcune importanti risposte in questa direzione e, più in generale, tenta di definire aspetti teorici e pratici di una materia complessa con un approccio mai burocratico o banale. Ne esce un quadro di norme, modelli, progetti particolarmente interessante che fa di questo lavoro un indispensabile strumento operativo ma anche una bussola importante per orientarsi in un settore, quello della protezione civile, troppo spesso vittima di sbrigative semplificazioni.

Un lavoro importante e utile non solo per tutti coloro che nella Pubblica Amministrazione, nelle istituzioni scolastiche o nel terzo settore si occupano di prevenzione, di soccorso e di problemi legati alle emergenze ma anche per chi vuole essere un cittadino attivo e responsabile perché informato e non un superficiale spettatore della realtà.

 

Alessandro Rovinetti

Segretario Generale dell’Associazione Italiana della Comunicazione Pubblica ed Istituzionale

 

Introduzione

Quali parole, quali frasi, quali gesti potranno mai colmare il profondo vuoto ed il grande senso di smarrimento che pervade tutti gli essere umani i quali, magari nel momento più inaspettato della loro esistenza, vengono colpiti da eventi spiacevoli, piccoli o grandi.

Questi eventi avranno come unico denominatore l’inevitabile modifica del corso della loro vita e, facilmente, gli faranno "vedere" alcuni aspetti della vita stessa sotto una luce decisamente diversa da quella con la quale essi stessi fino ad un attimo prima li percepivano e li valutavano.

Quando intorno a noi regna l’angoscia, il silenzio e la paura di perdere anche le cose più care che ci sono rimaste, non rimane altro che la forza dei nostri sentimenti, la portata dirompente delle nostre emozioni e la capacità che ognuno di noi ha nel trasmetterle agli altri con gesti, parole e frasi.

Nessuna forma di costrizione diretta o indiretta, qualunque sia la sua connotazione, potrà mai arrestare la forza della "comunicazione", cioè di quella capacità che ogni essere umano possiede, anche se in maniera diversificata, di esprimere il proprio libero pensiero e di relazionarsi conseguentemente con gli altri esseri umani che lo circondano.

Le idee, i sentimenti, le emozioni espresse con linguaggi verbali e non verbali, non conoscono limiti di appartenenza, non si arrestano innanzi alle differenze di lingua, di sesso, di religione. Accorciano le distanze, abbattono ogni ostacolo, avvicinano persone che si trovano nelle parti più disparate del mondo e che nell’atto del "comunicare", si sentono "vicine" anche se sono fisicamente separate da migliaia di chilometri di distanza.

Al tempo stesso visto che nel mondo esistono diverse culture, diverse religioni, diversi modi di concepire insomma la vita, la "comunicazione" diventa l’unico strumento utilizzabile per superare le barriere e mettere le basi per la costruzione di un "villaggio globale" che non sia solamente "virtuale" ed effimero in quanto legato alla "tecnologia applicata alla comunicazione", cioè alla presenza di sistemi e strumenti di trasmissione avanzata delle informazioni, ma si fondi invece, sulla concreta condivisione di valori comuni.

A quanti di voi sarà capitato di parlare per la prima volta con una persona che si trova all’altro capo del telefono e che non avete mai sentito ne visto: in qualche caso succede che abbiate la netta sensazione di conoscere quella persona come se la frequentaste da tempo, come se foste dei "vecchi amici".

Questo accade quando due esseri umani che si sentono per la prima volta sono in grado di attivare un processo di comunicazione interpersonale che si muove nelle due direzioni, e quindi quando il segnale fisico di fonia, analogico o digitale che sia, trasmesso attraverso la linea telefonica passa in secondo piano per lasciare spazio ai contenuti del dialogo e quindi il mezzo non diventa esclusivo strumento di comunicazione.

Succede che il "contenuto" delle parole prende il sopravvento sul loro significato letterale, che il "suono" della voce trasmette segnali che si aggiungono e si sovrappongono a quelli semplicemente definiti dalle onde elettromagnetiche: in altri termini, significa che non stiamo solo parlando bensì "stiamo comunicando".

E se questo può avvenire attraverso un mezzo che presuppone l’esclusiva trasmissione della voce, pensate solo un attimo a quello che un essere umano è capace di trasmette a chi gli sta vicino quando oltre al segnale della voce viene messo nelle condizioni di esprimere anche un linguaggio non verbale, come ad esempio quello del corpo.

Avete mai pensato a quanti significati può trasmette un semplice sorriso?

Un sorriso può comunicare felicità, approvazione, benessere, simpatia, affetto, benevolenza, ironia, sarcasmo: tutto questo racchiuso nella forza di un movimento semplice come quello di portare le labbra in posizione più vicina alle orecchie.

Immaginiamo adesso di aggiunger al sorriso lo sguardo, cioè la capacità espressiva degli occhi: ed ecco che l’elenco delle cose che possiamo comunicare diventa ancora più lungo e complesso.

La società dell’informazione è legata al progresso tecnologico, allo sviluppo delle tecnologie avanzate, la società della comunicazione deve invece essere legata, ai potenziali sviluppi delle capacità umane di relazione, ovverosia, allo sviluppo delle capacità di trasmettere non soltanto informazioni sotto forma di "bit", ma anche e soprattutto informazioni sotto forma di sentimenti ed emozioni tradotte in linguaggi verbali e non-verbali.

La necessità di un’attenta attività di informazione, di una mirata attività di formazione e di una efficace comunicazione, oggi più che mai, sono diventati strumenti di straordinaria importanza per la pianificazione delle emergenze.

Tali attività assumono una straordinaria valenza sociale nelle fasi preventive della pianificazione e diventano vero e proprio strumento operativo sia nel momento dell’emergenza vera e propria che nelle fasi di ritorno alla normalità.

Ognuna di queste attività vede coinvolte, in un ruolo di primo piano, tutte le Istituzioni in senso lato, sia quelle facenti parte della Pubblica Amministrazione che quelle accreditate presso di essa, organizzate su base volontaria e facenti capo al cosiddetto Terzo settore.

Gli autori