Dibbuk

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Ho gironzolato per ore in calli torride, colando sudore, urlandomi che mi sto negando ogni più piccola, elementare possibilità di sopravvivenza, ogni rimasuglio di speranza di trovare un buco nella rete e sgusciar fuori, salvarmi in qualche modo. Mi sono gridato addosso che nessuno può aver colpa della mia stupidità nel lasciar esistere quel dibbuk dentro di me, che impedisce al mio essere di compiere strategie, di ingannare il destino... Non "astutamente": sarebbe sufficiente solo osservare con cautela il reale, e anche solo quel "reale" che sono capace di riconoscere con i miei soli occhi! Mi sono chiesto se dentro di me io non stia creando un tranello ineluttabile, dal quale emergere come "altro", o morire, trasformarmi e trasformare la mia anima, o soccombere, disciogliermi, impazzire. Mi sono costruito a modello di un essere che non può più esistere, che è "modello" perfetto di ciò che dell'antico deve capitolare, finire, scomparire. Vivo quell'essere, lo proteggo in me, gli nego ogni contaminazione, ogni ibridazione, come godendo nel riconoscere ad ogni suo passo l'errore "ritmico" che gli nega l'ex-sistere. Non c'è tempo per me: il tempo è denaro... E' la persecuzione di una grande mente occulta, che ci ha già vinti nel semplice istante in cui cominciamo a percepire il desiderio di "essere normali". Ed è la coscienza, intelligente, di sapere che nessun essere umano possiede più quella mente globale: essa è indifferente all'uomo, perché autosufficiente "fuori" dall'uomo, eppure "nell'uomo", al tempo stesso. E' visibile (è la rete degli interessi commerciali, delle dinamiche economiche globalizzate dallo sviluppo dei media e dalle esigenze della natura del mondo), eppure invisibile, perché non ci è dato vedere nulla più del frammento, ed essa è situata solo nel "tutto". "Essa" ci ha privati anche del caos, dell'inatteso, dell'imprevedibile: essa "ordina" il caos e "si ordina" nel caos.
Sono corso a legare il mio braccio dei sette giri di cuoio dei Tefillin; ho posto sul mio capo la scatola quadrata col rotolo dello Shema Israel; ho recitato le benedizioni a voce alta nel campo del ghetto, con le parole che ri-suonavano tutta la mia passione. Solo così sono ora, nuovamente, nella mia casa: diviso, spezzato, ma con una parte di me che regge l'altra, con pietà. Ma che devo fare? Abbandonare tutto, famiglia, musica, violoncello, e "trasformarmi" in Rabbino? Per quale motivo mi è caduto addosso il senso della musica, la sapienza del violoncello? Domani ricomincerò ancora; oggi riesco solo a piangermi addosso, e temo di dovermelo concedere, anche se non riesco a fare a meno di colar lacrime anche su di te. Domani ricomincerò a "farmi furbo", senza occupare la mia mente col pensiero di "coloro che vincono, mio malgrado", ma solo di ciò che porta amore nel mondo. Cercherò di riconnettere il mio pensiero ai tempi e agli spazi che mi circondano, e non solo a quelli di cui "mi circondo". Ricomincerò ad obbligarmi allo scorrere dei minuti sull'orologio, seppure in attesa del sabato... seppure in attesa di quel sabato che tutto di me sembra contribuire a negarmi...

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Quando suonavamo lo "Stabat Mater" di Pergolesi, io eseguivo quel Basso Continuo come il lento strusciare dei piedi dei portatori della statua d'una madonna antica e pesantissima, barcollante sui sostegni umani in processione, dove le gambe si muovono scattando mestamente al lento dolore del trasporto... così i violini piangevano le lacrime delle donne, e le voci erano angeli del perdono e della consolazione. Tanto mi bastava a dirigere quella musica sublime, per quel poco che il suo ufficiale direttore m'avrebbe pagato... Ma ora ho fame, e non c'è rimasto nulla da mangiare per me...?
Perdona questa lettera, convinciti fino in fondo che ti sono sinceramente grato per la tua amicizia, che non sono neppure capace di odiare la massmedialità in sé (e sì che almeno mi darebbe sfogo e mi farebbe bene alla salute...); ti voglio il bene immenso che si vuole all'amico fraterno, col quale si guarda, appunto, anche il volto occulto della morte: per ingannarla ancora, e non farsi cogliere impreparati e indifesi... Ti abbraccio con forza e speranza.

Tuo Claudio, Humilissimo Devotissimo povero musico di questa corte di fessi e incoscienti... che pure dobbiamo sempre servire e ringraziare...

 

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Forse l'arte e la poesia sono vive ormai solo più nel bisogno estremo: la memoria di quello è solo più una nozione sterile; tutto ciò che so sperare è che l'umanità non voglia finire col procurarsi la più grande delle tragedie, al solo fine di riconquistarsi il bisogno di esistere... l'economia mondiale non sempre ha bisogno della pace per svilupparsi ed espandersi: più spesso ha bisogno di odio e guerra, forse solamente perché non è mai accaduto diversamente nella storia del mondo. Muovere un'idea nuova dell'arte attraverso il bisogno di indifferenza e quello di emozione tragica non può più essere il compito dell'artista: sfuggire a un desiderio suicidario, però, è la sua necessità. A questa, forse risponde proprio l'atto del narratore, come un padre, o una madre stretti intorno alle loro famiglie, a far emergere e a connettere i desideri più profondi di comunicarsi e ascoltarsi.

Tuo Claudio.

 

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...Non sarebbe meglio trovare il coraggio di rinunciare a quei quattro soldi, venire a Venezia e suonare insieme, e recitare insieme le nostre preghiere? Ma chi me lo fa fare di sprecare più della metà della mia vita in questi letamai? Anche io, un po' come te, non ho la forza di mollare nulla. La caccia al quattrino mi sta logorando sempre di più, né riesco a concepire pensieri alti come quelli dei quali a volte mi rendi partecipe, cosa di cui ti sono infinitamente grato. Che mi rimarrà di questo luglio metropolitano così pieno d'afa e di veleno? Non riesco a suonare una nota, tante sono le buffonate di cui devo occuparmi per gestire questa mia deteriorata economia familiare. E non riesco neanche a pregare, cosa che un tempo facevo. Sogno il silenzio: l'ultima volta che l'ho vissuto era il 1993, nel parco naturale dell'Isonzo, a Gorizia. Ricordo che in pieno inverno mi sdraiai per terra e rimasi nascosto nel verde per un'ora. Mi sembra un sogno che non potrò mai più rifare! Vorrei vivere "primitivamente, agrestemente", come diceva Lucio Mastronardi, che si gettò nel Ticino quando, passando sotto le finestre delle case del centro di Vigevano, non sentì più le le voci degli uomini, ma soltanto quella della televisione. Sono veramente molto stanco e confuso, anche fisicamente: mi sostiene solo un ottimismo caratteriale che ogni sera, quando vado a letto, mi fa sperare di mettere in banca qualche milione: forse allora potrò fermarmi un momento, solo un momento, e riappropriarmi di tutto ciò che la vita ha eroso impietosamente dentro di me negli ultimi anni. Che fatica, Claudio. Ma quando arriverà per me questo Sabato?...

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...ma il dibbuk non puoi ricacciarlo all'inferno, perché non è cosa che gli appartiene: il dibbuk è del mondo, solo del mondo. Tutto quel che può fare è crearsi un inferno nel mondo, intorno a sé... distruggere ogni tua energia, imprigionarti nella sua trappola, far morire l'amore in te, intorno a te. Leggerezza che una volontà dirige e domina, non altrimenti. Il peso delle nostre esperienze, altrimenti, ci legherebbe troppo alla terra, facendoci già "morti" ben prima di poter vivere, soddisfatti solo dall'approvazione di altri "morti" come noi. Ancora, la profonda tristezza che ha accompagnato il tuo scrivermi questa volta, non deve opprimerci: forse altro linguaggio più leggero avrebbe dato qualche sollievo, ma certo sarebbe stata superficialità di poco costrutto. Il Messia, insegna il Talmud, non è da qualche parte, separato dal mondo in un essere speciale: egli è in ognuno, ovunque e sempre, frammentato, separato, incompiuto. Nessuno può compattarne l'essenza in un tempo e in uno spazio, ma ad ognuno è data la possibilità di unire, ricongiungere, dar vita ai frammenti sparsi della sua luce. Ogni giorno è buono, ogni ora, ogni istante, là dove si ricrea armonia, dove si riforma l'accordo coll'ineffabile.
Forse il "dividere" la vita in spazi ben separati, ognuno con ben chiari nella mente tutti i compromessi necessari a viverne le varie sezioni, ognuno con le sue precise finalità, è cosa che può avvenire solo nella fantasia della sua progettazione, e in nessuna delle realtà a noi concesse. In fondo, le strategia per "dominare" la nostra psiche al fine di conservare il più possibile intatta la nostra identità preferita, non è diversa da quella destinata a "dominare" gli altri, negli ambienti e "luoghi" della vita sociale. Là tu eserciti complessi equilibri di prudenza e propositività, qua altrettanto. Ora, gli antichi probabilmente non vivevano nulla di radicalmente diverso, quanto a strategie degli ordinamenti sociali, ma potevano godere di due o tre cose che a noi moderni ormai sono negate: una centralità che era Dio, una rarefazione che poteva esistere prima che si realizzassero le attuali saturazioni, un mondo in cui la natura era ancora capace di rimettersi in ordine senza troppa violenza. Certo, per contro vivevano meno a lungo, erano maggiormente consci della fatalità e soggetti al suo dominio psichico, tuttavia gli restava abbastanza tempo e intelligenza per capire che nulla poteva essere "separato", se non l'essenza dell'anima, come olio in sospensione sull'acqua. E' per questo che gli antichi Re venivano "unti"; è per questo che nell'ebraismo il Messia si lega alla metafora dell'olio, e Abramo alla metafora dell'acqua. Riuscire a dominare le energie telluriche, anche quelle della nostra mente "terrena" (cioè legata al tempo del nostro corpo e delle sue possibili azioni), risulterà sempre simile all'azione più o meno violenta di agitare l'acqua, finché l'olio vi si mischia intorbidendola. Là non si vede più nulla e ci si muove a tentoni, solo su percorsi conosciuti, con prudenza. Se solo potessimo fermarci, o anche solo calmare i nostri gesti, l'olio troverebbe nuovamente il suo stato di sospensione, e farebbe da "lente" verso l'alto o verso il basso, concentrando la luce nei suoi perfettamente simmetrici equilibri molecolari. Se nell'arte lavoriamo a purificare le essenze di visioni, emozioni, sentimenti, sublimiamo coscienze e pensieri, eleggiamo oggetti di bellezza e armonia a modello e guida dei nostri percorsi, possiamo ben arrivare al punto di credere che l'arte stessa possa diventare una centralità qual era Dio per gli antichi. Ma tutto ciò è negato dalla complessità del nostro tempo storico, dalla sua saturazione, dalla velocità dei suoi fenomeni. Forse allora ci può (o deve...) bastare l'esercizio a sollevare il nostro pensiero a un'accorta leggerezza (una volta ancora: "il nous faut la légérté de l'oiseau, non pas de la plume"), che salga e si separi così come un olio, e condensi e ordini la poca luce che ci è dato contemplare, così osservando Dio, e così ricostituendo -come insegna la Qabbalah medioevale- la sua "forma" originaria nell'Adam qadmon, l'Adamo primordiale, di cui ogni essere umano è frammento sparso, nel bisogno di ricongiungersi agli altri frammenti. Se dunque si può, in fin dei conti, usare un mezzo così superficiale, effimero, banale come l'e-mail per indagare sull'ineffabile, per consegnare pensieri che non si possono arrestare nelle parole dette o scritte, che non si possono leggere solo per poterle "capire" e "dividere" in un unico senso, imprigionate in quello, appesantite del "significato" e del "significante" di cui si caricano di fronte a chi le riceve, ciò può solo dimostrarci che l'azione a noi indispensabile è solo quella di liberare sempre, giorno dopo giorno, ora dopo ora, ogni nostra azione dal senso univoco, greve, che il mondo tende a darle. Ogni azione può diventare ed essere Arte: ce l'ha insegnato Duchamp, o la Pop art, o la "necessità" che deriva dalla cultura globale... Come olio sull'acqua, l'arte filtra e abbellisce la luce sul mondo. Ti abbraccio forte.

Tuo Claudio.