Sul vecchio
e il nuovo 

 

 

 

 

     Come compositore di musica,
io non posso costringere altri allo studio e all'esecuzione dei miei errori: sarebbe un delitto di gravità estrema, e un disprezzo per l'Arte dalle conseguenze irrimediabili. L'arte, infatti, vive là dove il mondo non l'uccide con la sua inerzia. Così è per l'ebreo e la Torah, che è un libro vivente, in quanto si muove, si trasforma, si rende ineffabile. Per questo l'ebreo non mangia carni e latticini insieme: perché è un precetto religioso, e perché si esercita a non confondere il lecito (il latte) con l'illecito (il sangue che proviene dall'uccisione di un animale).
Ora, al capitolo IV di Genesi noi leggiamo un passo di difficile comprensione, che tradotto "alla lettera" suona così: «Caino disse ad Abele: e sollevò la mano e l'uccise». Questo vuoto del discorso di Caino a suo fratello è il luogo in cui i Maestri ci insegnano che l'omicidio e la colpa sono generate da un dialogo mancato, da un fallimento della comunicazione verbale.
Più avanti, Isacco giunge in prossimità del pozzo dov'è Rebecca, la sua futura moglie. Lei lo vede arrivare, e chiede al servo Eliezer: «Chi è quell'uomo che ci viene incontro per la campagna?». E il servo risponde: «È il mio padrone». Allora Rebecca prende il velo e si copre.
Su questo, Elena Loewenthal scrive: «Qui inizia una lunga, dolce storia d'amore. E il gesto di questa fanciulla, poco più che bambina, partita senza esitazioni per un luogo straniero e verso un uomo di cui nulla sa, è talmente bello che persino al Midrash [commentari rabbinici] non resta che tacere. Nulla si aggiunge a quella mano che si muove verso il viso con una leggerezza e una gravità, con una grazia che non hanno paragoni. [...]». Così concude osservando che: «Al progresso ci si prepara anche con la lezione dell'ebraismo, con quel suo talento a connettere il nuovo al vecchio, ad insinuare l'inedito nella trama del già detto. Già, proprio nel suo incessante e mai stanco ripetersi, l'ebraismo non ha mai, e di questo sono fermamente convinta, non ha mai conosciuto il luogo comune, l'espressione scontata e conformistica. Da sempre esso ci dice che in ogni rito, in ogni gesto, in ogni parola che ricorre per l'ennesima volta, si annida certamente un significato nuovo che qualcuno un giorno scoprirà, con il tocco fugace e disinvolto di chi preme il dito su di un interruttore.» (E. Loewenthal, Il velo di Rebecca, ovvero l'Elogio della conservazione, in "Materia giudaica", AISG n. 2, Bologna 1996).
Ecco due luoghi in cui un'aporia, o un'assenza del discorso, hanno due sensi opposti, e profondi, e dove la "leggerezza" dell'assenza presenta i tratti contrapposti del bene e del male, della luce e della tenebra.


In una lettera a qualcuno, mi era capitato di scrivere: «Equiparare il bene al male è cosa che pertiene o al satanista o allo stolto; oppure ancora a una società fondata sul "consumo", dove diventa necessario poter connettere e attraversare virtualmente tutte le sue direzioni, al fine di generare le sinergie necessarie alle dinamiche del mercato. Non si tratta infatti di una società che distribuisce e rende disponibili paradossi più o meno eccentrici, con lo scopo di rinnovare, rivoluzionandola in continuo, un'evoluzione; (questa è, più o meno, la società dei filosofi nostri contemporanei, in cui necessita un'educazione linguistica specifica e specializzata allo scopo di attuare e attualizzare l'esercizio dialettico destinato all'indagine filosofica, sicché tale necessità diventa prigione e confine per la maggior parte dei suoi prodotti) ma solo di un "motore" che pompa un flusso di "desiderio e necessità" in calibrata alternanza, così da coprire velocemente le distanze sulla superficie del mondo, e dominarlo dal basso (cioè con il "peso" dei suoi argomenti), costringendolo nei confini del "presente". Per questo il Talmud dice all'ebreo: «i figli d'Israele non saranno salvati per ciò che hanno fatto, ma per quello che potranno, in un futuro, realizzare»; ovvero si predispone un sistema "proiettivo" in contrapposizione a uno "riflessivo".
Ecco dunque che se la società dei consumi è il luogo dove diventa necessario alla sopravvivenza del sistema il bisogno del "nuovo" come "creazione" sorta dal vuoto rimasto nello spazio in cui il "vecchio" è stato "consumato", una simile società non può che avere una natura "pesante", cioè legata alle cose e agli oggetti, nei limiti del tempo e dello spazio, e non "leggera", ovvero capace di attraversare qualsiasi barriera fisica o metafisica, per il solo fenomeno della sua capacità di movimento al di sopra della rete d'accenti e gravità definite da un qualsiasi semplice sistema binario (...bene e male, bisogno e appagamento del bisogno, vecchio e nuovo, passato e futuro...).
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C. R.