Che fine farà il monopolio? di Irene Raciti Era il 23 dicembre del 1998 quando un decreto, emanato dal Ministro delle Finanze, di concerto con il Ministro del Tesoro, istituì l’ETI (Ente Tabacchi Italiani), dando vita propria a quella che era solo una costola dall’Azienda Monopoli di Stato. La creazione di tale Ente rientrava nel programma di privatizzazione delle aziende statali, varato agli inizi degli anni ’90, programma che, secondo la previsione legislativa, si sarebbe svolto in due fasi. La prima con la trasformazione, nel caso specifico, dell’Azienda Italiana Monopoli di Stato in ente pubblico economico; la seconda con la trasformazione dell’Ente in società per azioni e successiva dismissione di queste sul mercato. La trasformazione dell’ETI sta suscitando non poche polemiche e preoccupazioni. In un nostro articolo precedente avevamo già rilevato come, pur raggiungendo dimensioni considerevoli all’interno del mercato europeo dei tabacchi, la produzione dell’AAMS non avesse rendimenti proporzionati alla grandezza dell’azienda nel settore e rappresentasse, inoltre, una percentuale irrilevante del PIL. Avevamo anche messo in luce come i maggiori guadagni derivassero non dalla produzione ma dal monopolio sulla vendita dei tabacchi (circa 15mila miliardi. Si pensi tuttavia che dal ’90 circa ad oggi i volumi di vendita dell’azienda hanno subito una contrazione fino al 50%). Ma adesso tutto dovrebbe cambiare. Sarebbe infatti lasciato alla libera iniziativa delle imprese la gestione di beni e servizi sinora riservati all’attività dell'Amministrazione dei Monopoli di Stato, dall’importazione, alla lavorazione, esportazione e, infine, vendita sul territorio nazionale del tabacco e dei suoi derivati. In questo modo lo Stato si libererebbe di una produzione non troppo redditizia, riscuoterebbe, oltre all'imposta di consumo e sul valore aggiunto, anche i proventi derivati dal fatturato delle imprese produttrici e soprattutto si potrebbe finalmente considerare un dialogo con le istituzioni senza imbarazzi. Finora, infatti, associazioni come la nostra si trovavano a disagio a chiedere aiuto (per una campagna antifumo, per una partecipazione alle attività, per programmi di prevenzione, per tutto ciò che insomma rappresentasse un impegno contro il fumo) proprio a chi le sigarette le vende. Ma le cose non sono così semplici. C’è un’azienda da ristrutturare, da rendere competitiva ed appetibile prima di immetterla sul mercato, in modo da venderla con alti profitti. Ed infatti diversi sono stati i piani di ristrutturazione aziendale (che hanno portato a tagli del personale! Ma non si era detto che il tabacco, per lo meno, crea posti di lavoro? ), si è studiata una nuova immagine per sigarette e sigari, a cui è stato rifatto il package, e per ultimo si sta pensando al lancio di un nuovo prodotto. Si sta preparando cioè la miscela per una nuova sigaretta made in Italy, che dovrebbe dare filo da torcere alle "bionde" della Philip Morris, che detengono ormai circa il 60% del mercato. Ricordiamo che è lo stesso ETI a produrre, su licenza, le sigarette americane (sono 16 milioni di chili), che vanno poi a "rubare" il mercato alle nostre MS. Da precisare però che quella su licenza rappresenta circa un terzo della produzione dell’ETI, che deve quindi la sua sopravvivenza, in primis, proprio al grande colosso americano. E la politica aziendale dell’ETI mira a rendere questo legame con la Philip Morris ancora più stretto, sebbene la compagnia americana sia stata travolta da scandali e processi. Tra questi quello del contrabbando: le sigarette penetrano nel mercato italiano anche per vie illegali (il 15% dei prodotti della Philip Morris passa per il mercato nero), ma il contrabbando non solo arreca danni allo Stato, che detiene il monopolio sulla vendita, ma anche ai tabaccai. Chi compra sigarette di contrabbando lo fa per "pagarle meno", non riflettendo che dietro ci sono, molto spesso, organizzazioni criminali che riciclano "denaro sporco". E le multinazionali (inconsapevoli?!) spesso accettano di vendere le sigarette a società di tramite che le smerciano poi agli importatori clandestini. Nel 1996 a Napoli fu aperto a carico della Philip Morris un fascicolo penale con l’accusa di associazione a delinquere e frode fiscale. Il colosso americano era infatti indagato per sospetta "evasione fiscale": le società straniere che operano sul territorio italiano, in base alla nostra legge fiscale, devono pagare un’aliquota fissa decisa nello stesso contratto di fornitura (ma solo se l’attività sul territorio è "episodica"), ovvero sono parificate alle società italiane qualora svolgano invece "stabilmente" attività sul territorio. Stando all’accusa, la Philip Morris avrebbe, attraverso società controllate, fatto in modo di apparire come operante in maniera sporadica, per sfuggire così ad imposizioni fiscali certo più elevate. Ma non finisce qui. Gli archivi segreti della compagnia americana sono stati portati alla luce e sono ora facilmente consultabili ( www.pmdocs.com ). Da questi è possibile accedere a fascicoli dove risulta chiaramente come tale società abbia cercato per anni di "ritardare" gli studi del IARC sugli effetti del fumo passivo, gli accordi politici e i contatti, stretti dalla multinazionale per "bloccare" legislazioni troppo restrittive, i piani e le strategie, pubblicitarie e di comunicazione, intese a "manipolare" il pubblico, e via dicendo. Tanto si potrebbe dire e raccontare (se volete farvi un’idea precisa di ciò che sta dietro, e anche dentro, le vostre sigarette basta visitare un’altra pagina web: www.report.rai.it/ipocrisia.asp), ma per una volta abbiamo pensato di parlare noi in prima persona facendo qualche domanda al dott. Pilato (responsabile dei progetti contro il tabagismo della nostra Associazione): D: Come associazione di volontariato avete attuato numerose campagne d’informazione, prevenzione, educazione,soprattutto nelle scuole e fra i militari di leva. Ce ne parli un po’.
D: Ma l’associazione ha anche contatti con l’Est europeo, dove, si sa, si fuma tanto e di coscienza salutista è ridicolo anche solo parlarne. Quali sono le vostre attività in questo settore?
D: Le istituzioni in che modo vi aiutano nella lotta al tabacco?
D:
In America i distributori automatici di sigarette sono stati vietati;in
Europa, nonostante sia stata dichiarata guerra al tabacco, i distributori
automatici sono in aumento e nei paesi senza monopolio (Spagna e
Inghilterra per esempio) i distributori si trovano in quasi tutti
i locali pubblici. Cosa ha da dire in proposito?
D: Sempre la CEE sovvenziona la produzione agricola di tabacco, con contributi che superano di gran lunga quelli riservati ad altre colture. Perché questi controsensi, non solo italiani?
D: Guarderebbe al modello americano per la lotta al tabagismo? (cartelloni pubblicitari lontani dalle scuole e dai terreni di gioco, multe salate per i negozianti che vendono sigarette ai minori, campagne antifumo sovvenzionate dalle stesse produttrici, assicurazioni sulla vita con premi più alti e tasse aggiuntive per i mutui sulle case per chi è fumatore, ecc.)
D: Quali sono gli impegni futuri dell’associazione nazionale volontari lotta contro i tumori?
D: Una volta privatizzato l’ETI, come immagina che si evolverà la situazione "fumo" e il dialogo con le istituzioni visto che le ragioni dell’economia hanno sempre (o quasi) la meglio su quelle della coscienza?
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