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QUANT’ERA BELLA L’ENERGIA NUCLEARE…
1. Primi passiLa notizia dello scoppio della prima bomba atomica su Hiroshima riempì l’animo del giovane studente liceale, non dell’orrore per l’enorme numero di morti, ma di entusiasmo per le meraviglie e le conquiste della scienza. Forse fu per quell’entusiasmo che tre anni dopo scelse la facoltà di Fisica. Ma per il primo incontro, sia pure assai poco ravvicinato, con l’energia nucleare dovette aspettare ancora un po’.
Nell’autunno del ’51 avevo iniziato il quarto anno di Fisica a Milano. Si trattava di scegliere l’argomento della tesi, ma il professore, forse per valutarmi meglio, mi diede da fare una tesina. Lui, il prof. Carlo Salvetti, sedeva sulla cattedra di Radioattività, nome un po’ datato che ricordava più l’epoca della signora Curie che lo stato attuale delle conoscenze nucleari, e avrebbe volentieri aggiornato il nome in quello di Fisica Nucleare. Ma pare che non fosse così facile, almeno a quei tempi, cambiare il nome delle cattedre o aggiungerne di nuove. In ogni caso il titolo del suo corso era aggiornato ed io, seguendolo, avevo imparato un po’ di cose su come si pensava fosse formato il nucleo, cosa fossero i neutroni ed i protoni, da quali forze venivano tenuti insieme. Solo marginalmente il professore ci parlò dell’energia nucleare e di come si pensava poter realizzare delle macchine per sfruttarla, a scopi pacifici beninteso.
Salvetti, in realtà del problema se ne stava occupando assieme ad altri professori dell’Università e del Politecnico. Erano riusciti a convincere un gruppo di aziende con in testa la Edison - allora, prima della nazionalizzazione, la principale tra le aziende elettriche italiane – che l’energia nucleare avrebbe rappresentato il futuro per la produzione di elettricità. E così era nato il CISE, Centro Informazioni Studi e Ricerche, un laboratorio privato che di energia nucleare si doveva occupare anche se la parola nella sigla non figurava.
Io allora non avevo certo tempo per seguire questi avvenimenti esterni all’università tutto preso com’ero dal completare in tempo e bene i miei anni universitari. Non ero pertanto in grado di sapere quali studi si stessero facendo al CISE, e fino a che punto vi fossero idee chiare su come procedere. In ogni caso credo che da lì, dalle riflessioni che il mio professore stava facendo sull’energia nucleare, derivasse lo strano argomento della tesina. Avrebbe potuto darmi il compito senza troppe spiegazioni, come puro esercizio accademico per mettere alla prova le mie capacità. Preferì spiegarmi da dove derivava l’idea e perché poteva avere un certo interesse pratico. A partire dalla pila di Fermi – che aveva dimostrato nel 1942 all’Università di Chicago che era possibile realizzare una catena di fissioni che si autosostenesse - si sapeva che l’idea base per fare un reattore nucleare consisteva nel disporre un reticolo di barre di uranio in un moderatore (che poteva essere grafite, come nel caso della pila di Fermi), cosiddetto, perché aveva il compito di "moderare" (rallentare la velocità) dei neutroni che uscivano dalla fissione dei nuclei di uranio. I neutroni, se non venivano catturati prima, finivano poi per uscire dalla pila. Proprio per questa ragione, se uno avesse misurato la densità dei neutroni nella pila avrebbe visto che essa era più alta al centro che in periferia. Ma questo significava che le barre di uranio poste al centro si consumavano prima (il numero di fissioni è proporzionale al numero di neutroni che attraversano la barra) di quelle poste alla periferia. Sarebbe stato bello avere qualche idea che permettesse di appiattire un po’ la distribuzione dei neutroni nella pila. Ed il mio compito era proprio quello di verificare con la tesina un’idea che il professore aveva avuto.
In qualche articolo su una rivista scientifica il professor Salvetti aveva letto di esperienze fatte in USA su fasci di neutroni lanciati orizzontalmente nel vuoto. Gli sperimentatori erano riusciti a dimostrare che in realtà i neutroni non proseguivano in linea retta ma si piegavano verso il basso per effetto della gravità. La cosa non doveva risultare poi troppo strana se i neutroni avevamo, come avevano, una massa. Si dovevano comportare pertanto come delle piccole pietre che se le lanci, per quanto forte sia la velocità iniziale, sembra che vadano dritti per un po’, ma in realtà poi cadono descrivendo una curva a parabola. Se mai, l’esperimento era importante per dimostrare che la forza di gravità valeva anche per loro, per i neutroni. Ma allora – ecco l’idea del professore – se la loro massa per quanto piccola si comportava come tutte le altre masse, i neutroni avrebbero dovuto sentire anche l’effetto di altri campi gravitazionali. Ad esempio quello delle forze centrifughe.
Compito della tesina: mettere una pila di Fermi su una giostra e farla girare come una trottola a velocità sempre più grandi e vedere cosa succede alla distribuzione dei neutroni all’intero della pila. La distribuzione dovrebbe risultare più piatta, più uniforme nell’andare dal centro verso la periferia. E quindi le barre di uranio si consumerebbero in modo più uniforme. Evviva!
Più facile a dirsi… Naturalmente il
professore mi aveva un po’ semplificato il compito. Invece di una vera pila di
Fermi, prendere un semplice blocco di grafite con al centro una sorgente di
neutroni, Niente fissione. Non importa come realizzare la sorgente. Bastava
immaginare che ce ne fosse una capace di emettere in modo costante nel tempo dei
neutroni e poi vedere come essi si distribuivano nella grafite.
Calcolare la distribuzione dei neutroni in un cilindro di grafite fisso non era
difficile. Qualcuno comunque l’aveva già fatto. Ma se il cilindro ruota? Per
fortuna riuscii a trovare un libro inglese sulla diffusione dei gas che
considerava il caso di un gas in un campo di forze generale, incluso quelle
centrifughe. Immaginando che i neutroni si comportino come un gas che diffonde
in un certo ambiente, si potevano fare dei calcoli usando quelle stesse
equazioni. E l’effetto di appiattimento del flusso di neutroni all’interno
della grafite si vedeva, tanto più netto quanto più alta la velocità di
rotazione. Portai i grafici al professore che si congratulò.
Per fortuna nessuno pensò a trasformare l’idea in pratiche applicazioni,
magari brevettandola… Immaginiamoci, oggi che sappiamo come è fatta, una
enorme centrale nucleare posta su un piatto di giostra che gira, gira… per
poter migliorare l’efficienza con cui si brucia il combustibile.
Quello fu il mio primo incontro con il problema dello sfruttamento dell’energia nucleare.
Per la tesi, l’argomento fu assai diverso e più consono al contenuto del corso di Fisica Nucleare: stabilità dei nuclei. Fino a che punto cioè sia possibile frantumarli o comunque modificarli bombardandoli con proiettili vari (altri nuclei, protoni, neutroni, ed altro). Alcuni nuclei mostrano di essere molto più stabili di altri, mentre ci sono quelli che addirittura si disintegrano da soli (da qui la scoperta della radioattività ad opera della signora Curie).
Un nucleo è formato da un certo numero di neutroni e di protoni. La massa dei singoli componenti è nota, ma la massa del nucleo è più piccola della somma di quella dei componenti. Dove è finita la massa mancante? Ricordando la famosa equazione di Einstein, la massa mancante è finita nell’energia che lega i protoni e neutroni nel nucleo. Quindi più grande è questa differenza, maggiore è la stabilità del nucleo (per romperlo occorrerà spendere più energia). I dati già allora disponibili mostravano che vi erano nuclei particolarmente stabili aventi un numero di massa (numero totale di neutroni e protoni) particolare.
Il problema che si presentava ai fisici nucleari era spiegare perché l’energia di legame non fosse distribuita più uniformemente e, se possibile, ritrovare quella serie di numeri atomici un po’ magici che rappresentavano nuclei particolarmente stabili.
Un problema analogo era apparso ben chiaro in
chimica riflettendo sulla tabella periodica degli elementi (quella dell’abate
russo Mendeleiev). Alcuni elementi reagiscono più o meno facilmente con altri
formando molecole di vario genere. Nella tabella vengono messi su una stessa
colonna quelli che hanno un comportamento chimico affine. In una colonna si
ritrovano i cosiddetti "gas nobili" assai meno disponibili a farsi
coinvolgere in reazioni molecolari con la "plebe" degli elementi. Il
perché di questo comportamento era stato brillantemente trovato nella prima
metà del ‘900 descrivendo l’atomo come uno piccolo sistema solare: una
nuvola di elettroni che ruotano attorno al nucleo. E’ stato però anche
necessario applicare a questo modello le strane regole imposte dalla meccanica
quantistica, per cui solo alcune traiettorie sono permesse e su ognuna ci
possono stare solo un numero finito di elettroni (numero che varia da
traiettoria a traiettoria). La reattività dell’atomo dipende dal numero di
elettroni che stanno sulle orbite, in particolare su quelle più esterne. Sembra
che agli atomi piaccia avere orbite complete. Pertanto se, ad esempio, su un’orbita
ci possono stare 8 elettroni ed invece ce ne sono solo uno o due, l’atomo
cercherà di liberarsene cedendoli ad atomi di altri elementi che passino da
quelle parti. Se invece l’orbita è quasi piena, l’atomo cercherà di
appropriarsi degli elettroni mancanti per completarla. Da qui la facilità di
fare reagire elementi pronti a cedere elettroni con elementi invece desiderosi
di averne. Naturalmente siccome i primi diventano elettricamente positivi
(avendo perso degli elettroni) ed i secondi negativi, finiscono per attrarsi e
dover girare uno attorno all’altro. E’ così che nascono le molecole, pane
quotidiano dei chimici.
Tornando alla tabella di Mendeleiev, nella colonna dei gas nobili sono elencati
quegli elementi privilegiati che hanno tutte le orbite già complete, e quindi
solo a caro prezzo (ad esempio, ad alta temperatura) sono disposti ad entrare in
reazioni con altri.
Cosa c’entra questa divagazione sulla chimica con il problema della mia tesi? Non sarà che in realtà il nucleo è un piccolo sistema di neutroni e protoni che si muovono su orbite ben definite (ciascuna con una ben definita energia) e che essi siano più o meno stabili a seconda che le orbite siano più o meno complete di protoni e neutroni? L’idea non era certo venuta a me per via della tesi. C’era tutta una serie di lavori (che bisognava studiare e capire bene) che in qualche modo il problema l’avevano posto e cominciato a risolvere.
Innanzi tutto dovetti capire che per trattare problemi molto complessi i fisici spesso sono costretti a definire dei modelli che non descrivono la realtà così come è, in dettaglio (il che potrebbe rappresentare un problema molto difficile da risolvere), ma che la sintetizzano, un po’ come se fosse vista da lontano. Con i modelli è più facile fare i conti e magari poi verificare che i risultati non sono così lontani dai dati sperimentali. Se si scende alla scala degli atomi, la fisica da usare è quella dei quanti e l’equazione fondamentale (che avevo ben studiato nel corso di Fisica Teorica) è quella di Shroedinger. Ma immaginare anche solo di scrivere e poi risolvere detta equazione per il caso di un sistema formato da molti corpi (nel caso nostro i neutroni e protoni che formano il nucleo) non è proponibile, anche per un giovane laureando incosciente e di buone speranze. Occorre imparare a fare ipotesi fortemente semplificative: adottare appunto un modello. Il modello proposto nel caso in questione era quello di considerare i componenti del nucleo come particelle di un gas che si muovono in una buca, sottoposti ad una forza uniforme che rappresenta l’insieme delle singole forze operanti su ciascuna di essi. L’operazione diventa semplice ed anche un laureando riesce con successo a sviluppare i conti. In effetti, la buca – analizzata con l’equazione sopradetta - viene caratterizzata da orbite energetiche con una certa tendenza a formare dei raggruppamenti: basta quindi riempire dette orbite con il numero massimo di protoni e neutroni permessi su ciascuna orbita e poi sommare l’energia totale. I famosi nuclei magici più stabili degli altri sono allora quelli che via via avranno riempito tutti i livelli di ciascun raggruppamento di orbite. L’importante è che la serie di numeri di massa così ottenuti sia uguale a quella verificata sperimentalmente. Evviva! Fine della tesi.
Con la tesi devo aver dato l’impressione che le cose le capivo abbastanza e che sapevo fare anche dei conti (allora si usavano macchine calcolatrici meccaniche che facevano le quattro operazioni elementari e che avevano un nome prestigioso: Mercedes). Mi venne così proposto di restare all’università con una borsa di studio. Al momento venni lasciato libero di navigare come meglio volevo nel mare delle cose possibili da studiare. Pensando all’importanza di approfondire gli strumenti matematici per fare bene il lavoro di fisico, ci impelagammo io ed un altro giovane borsista nello studio della matematica delle simmetrie, la cosiddetta teoria dei gruppi.
Per fortuna dopo un paio di mesi in cui voluminosi testi di matematica si erano accumulati sulle nostre scrivanie, venne a liberarmi Sergio Gallone, assistente del professore Salvetti e di qualche anno più vecchio (e più esperto) di me. Mi propose di lavorare insieme ad uno studio: l’idea era di capire come avveniva la fissione.
Qualcun aveva proposto di fare riferimento, per studiare il problema, al caso di una goccia. Ecco di nuovo l’uso di un modello fisicamente comprensibile, e comunque facile (forse) da usare, per fare dei calcoli che avrebbero dovuto predire i comportamenti di una realtà assai più complicata. Pensare ad una goccia per studiare il fenomeno della fissione credo fosse derivato dal fatto che non è difficile immaginare cosa succeda ad una goccia reale che, mentre cade nel vuoto, venga colpita da un piccolo proiettile. La goccia comincerà a deformarsi e poi o si ricompone o si spezza in due o più gocce. Rispetto ad una goccia di liquido, nel caso nucleare oltre alla tensione superficiale della goccia-nucleo occorre tenere presente che, grazie alla carica elettrica positiva dei protoni che ne fanno parte, vi è anche una forza di repulsione elettrica da tenere presente. Quindi, se per qualche ragione si deforma la goccia, passando dalla sfera iniziale ad una forma allungata, la tensione superficiale si riduce e la repulsione elettrica può giocare un ruolo più importante e contribuire alla separazione eventuale della goccia in due parti.
Come affrontare il problema? Esisteva per caso qualche studio fatto in altri campi della fisica da cui trasferire idee e modi di approccio? Nel caso della tesina avevo per fortuna trovato una similitudine molto stretta in testi che si occupavano della dinamica dei gas. Per il problema della goccia con una forza repulsiva interna, Sergio Gallone – studioso di vasta e diversificata cultura - aveva trovato analogia nello studio degli astronomi sulla formazione dei pianeti per distacco dalla stella-sole originaria. In questo caso il sole è considerato come un’enorme goccia che gira e quindi il materiale che lo costituisce, oltre alla forza di coesione per gravità, è sottoposto alla forza centrifuga. Gli astronomi avevano studiato come cambia la forma della stella aumentando la velocità di rotazione ed avevano trovato tra le forme di equilibrio non solo quelle appiattite ai poli, ma anche – udite, udite - forme a pera. Se ti taglia la pera un po’ sopra l’equatore si ottengono pertanto due parti una piccola ed una grande. Da qui l’idea che i pianeti piccoli derivassero da un sole o un pianeta più grande (ma ancora allo stato fluido) per distacco improvviso ad un certo punto della deformazione a pera, per poi ciascuna parte ritornare alla forma sferica di equilibrio.
Perché l’idea che la separazione avvenisse dopo una deformazione a pera era fondamentale per la fissione? Perché era noto sperimentalmente che i frammenti della fissione si dividevano in due gruppi di peso rispettivamente di circa un terzo e due terzi del peso del nucleo originale. Quindi uno spunto buono per partire con entusiasmo ad affrontare un problema non del tutto semplice.
L’idea di fondo era pertanto questa: un nucleo che venga eccitato per l’impatto di un neutrone, comincerà a deformarsi oscillando intorno alla forma sferica originaria. Per deformazioni ampie si può raggiungere una fase per cui sia energeticamente più favorevole dividersi in due parti. Naturalmente si trattava ora di essere in grado di fare dei conti, di verificare a quale punto della deformazione sarebbe avvenuta la fissione in due e che rapporto in peso avevano le due parti. Occorreva anzitutto essere in grado di rappresentare matematicamente in modo semplice la forma della goccia deformata per calcolare l’energia totale rappresentata dal contrasto tra tensione superficiale e repulsione elettrica. Anche per questo furono molto utili gli studi degli astronomi. Essi avevano usato il procedimento (sviluppo in serie) che ha fatto la fortuna dell’ applicazione della matematica allo studio di funzioni (forme) complesse, considerandole come la somma di funzioni (forme) note e su cui i calcoli si sapevano fare. Per il nostro caso la scomposizione usata dagli astronomi era in polinomi che hanno preso il nome da Legendre, matematico francese della seconda metà del ‘700. Fu così che imparai a conoscere che una forma complessa tridimensionale in realtà si può decomporre in dipoli, quadripoli, octupoli, ecc, dove il numero dei poli sta a indicare quante sono le bugne in cui è suddivisa la forma. Alla fine i calcoli (sempre con l’ausilio di una Merceds da tavolo) permisero di tracciare un grafico che rappresentava l’energia del nucleo-goccia a deformazione crescente. L’energia cresceva fino ad un certo punto al di là del quale decresceva, come quando si sale in montagna e si arriva ad un punto di sella. Se l’eccesso di energia fornito dalla cattura di un neutrone avesse permesso di raggiungere detto punto di sella, allora il nucleo si sarebbe spaccato in due nuclei: fissione avvenuta! Si poteva così arrivare anche a definire il peso dei due frammenti di fissione e questo rappresentava un elemento cruciale di verifica della teoria. E la verifica funzionò.
Il lavoro venne pubblicato ed entrò a far parte dei lavori citati nella bibliografia di lavori analoghi. Sergio Gallone, cui era dovuto il merito maggiore dello studio, volle che il lavoro fosse pubblicato mettendo gli autori in ordine alfabetico. Tanto più grande fu la sua magnanimità dal momento che il mio cognome inizia con B ed il suo con G. E poiché nei riferimenti bibliografici spesso viene indicato il nome del primo autore, mentre gli altri sono sintetizzati nella dizione latina et al., non so se non se ne sia poi pentito vedendosi rappresentato come il signor et al. Per fortuna, con il tempo la verità è emersa: navigando nel mare magnum di Internet ho trovato riferimenti di studiosi recenti che hanno dato un nome al punto di sella del grafico dell’energia, quello del cognome di tutti e due gli autori.
Durante l’anno passato all’università come borsista ho potuto fare un viaggio all’ estero per partecipare ad una conferenza internazionale, usufruendo pertanto di questa specie di fringe benefit della carriera scientifica (turismo scientifico con viaggio in treno in seconda classe di notte senza cuccette ed albergo due stelle). Nel mio caso la meta fu Glasgow in Scozia, mio primo viaggio all’estero. Confesso di non ricordare assolutamente nulla della Conferenza salvo il posto in cui si teneva e per essermi una sera, per curiosità, inoltrato in una sala da ballo. Qui la memoria è ancora viva: si trattava di una sala non molto grande a forma quadrata con tutt’attorno delle scalinate a mò di tribuna su cui ci si sedeva. Dalla tribuna si coglieva il flusso dei danzatori che a passi lunghi e svelti giravano come una trottola nel campo quadrato, realizzando una versione scozzese alla quadratura del cerchio. O forse anche quello avrebbe potuto essere un modello del nucleo con le coppie come vorticosi protoni e neutroni?
2. La cosa si fa più seriaDopo circa un anno mi venne offerto di seguire sia il professor Salvetti che Gallone ai laboratori CISE. Accettai con entusiasmo anche perché 60.000 lire al mese mi sembravano una bella cifra visto che era il doppio della borsa di studio. E’ vero che non ci misi molto ad accorgermi che anche così arrivavo a fine mese con le tasche vuote, ma non per questo si affievolì poi il mio entusiasmo. Anzi.
Siamo nel 1954 e un po’ di conoscenze circolavano su come e cosa fare per sfruttare l’energia della fissione nucleare, grazie anche a quanto nel frattempo si era venuto a sapere del progetto Manhattan, dopo Hiroshima e Nagasaki. Lo racconto nella maniera un po’ vaga e fantasiosa con cui l’avevo capito io allora. Dovevo pur farmi un quadro per capire che tipo di contributo potevo dare io, giovane fisico, allo sviluppo degli obiettivi del CISE che, certo, erano di arrivare al più presto allo sfruttamento della fissione nucleare per produrre energia elettrica. Non per niente i principali finanziatori erano allora soprattutto aziende elettriche.
Innanzi tutto si avevano dati sulla fissione dell’uranio. Ogni neutrone che entrando in collisione con un nucleo riesca a convincerlo a scindersi in due nuclei più piccoli produce anche la fuoriuscita in media di 2,5 neutroni che se ne scappano via liberi, ad alta velocità. Se a loro volta ciascuno di questi fuoriusciti incontrando un nucleo di uranio desse luogo a fissione, si fa presto a vedere come si realizzi rapidamente una catena esplosiva. Viene in mente la storia indiana di quel giocatore di scacchi che aveva mandato in malora il ricco marahjà chiedendo che, se avesse vinto, gli sarebbe bastato avere come premio un chicco di grano sulla prima casella, due chicchi sulla seconda e così via raddoppiando.
La natura però non è così semplice. Purtroppo, per chi voleva realizzare rapidamente una bomba. Per fortuna per le possibilità di sfruttare a scopi pacifici l’energia di fissione. L’uranio che si trova in natura è formato da due isotopi (nuclei con stesso numero di protoni, ma numero diverso di neutroni). Per uno di quegli strani comportamenti dei nuclei di cui mi ero occupato un po’ nella tesi (per cui può a volte bastare passare da pari a dispari nel numero dei neutroni che ne fanno parte per cambiarne anche significativamente la stabilità), la probabilità che nell’urto con un neutrone avvenga una fissione è molto più alta per l’isotopo 235 che per il 238. Ma nell’uranio naturale del primo ve ne è meno del 1% (un altro purtroppo per la bomba). E per giunta il 238 non è indifferente all’incontro con i neutroni. C’è una certa probabilità che lo catturi diventando così uranio 239. Qui però non pare sentirsi a suo agio (troppi neutroni rispetto ai 92 protoni del nucleo) e con dei mutamenti interni, per me allora assai misteriosi, li tramuta in protoni (buttando fuori due elettroni: decadimento beta), tramutandosi alla fine in un nuovo elemento, il Plutonio 239.
La cosa non é simpatica per chi voglia fare energia elettrica, ma ha dato una mano al progetto Manhattan: infatti li Plutonio 239 è fissile. Per fare la bomba occorreva o essere in grado di estrarre l’isotopo 235 dall’uranio naturale o produrre plutonio (che essendo radioattivo non si trova in natura). Gli americani seguirono le due strade, ma per Hiroshima arrivarono prima con il plutonio. Per fare questo, costruirono ad Hanford grossi impianti nucleari che, in linea di principio, riproducevano la pila di Fermi con barre di uranio disperse in blocchi di grafite, disposti tuttavia in modo tale da rendere massima la cattura di neutroni da parte dell’isotopo 238 (pur assicurando il mantenimento stabile della reazione a catena). La temperatura nelle barre di uranio per via della fissione sarebbe cresciuta in modo non accettabile se non fosse stata mantenuta costante raffreddandole con gas (anidride carbonica) fatto circolare nei canali della grafite che contenevano le barre di uranio. Le barre di combustibile consumate nel reattore venivano estratte e per via chimica si separava il plutonio dal resto.
A questo punto, a chi si fosse posto il problema dello sfruttamento dell’energia nucleare, avrebbe dovuto risultare abbastanza chiaro come si sarebbe dovuto progettare una centrale elettrica nucleare. I materiali, barre di uranio metallico e grafite disposti tuttavia in modo diverso da Hanford per ridurre al minimo la produzione di plutonio e rendere massimo le fissioni del 235. Il calore raccolto nel gas di raffreddamento avrebbe rappresentato la fonte da trasformare, con macchine ben note, in energia elettrica. Sembra facile…
La probabilità di fissione nell’uranio 235 aumenta di molto se si riduce la velocità dei neutroni rispetto a quella che hanno quando sono prodotti dalla fissione. E’ per questo che Fermi immerse le barre di uranio in una pila di grafite. I neutroni che riescono a uscire dalle barre di uranio devono attraversare un mare rappresentato dai nuclei di carbonio (componenti la grafite) e prima o poi ci andranno a sbattere contro perdendo ad ogni colpo un po’ della loro energia. Collisione dopo collisione perdono velocità fino ad un certo livello (equilibrio termico con i nuclei di carbonio). Per quelli di loro che, così rallentati, rientrano in una delle tante barre di uranio di cui la pila è piena, la probabilità di dar luogo a fissione è ora elevata. Non è detto però che la catena delle fissioni si mantenga. I neutroni prodotti possono venire catturati strada facendo da altri nuclei presenti nella pila (oltre che dall’uranio 238) e, comunque, una parte di essi, raggiunto i bordi della pila, se ne scapperà fuori. Per ridurre quest’ultimo effetto negativo basterà costruire la pila abbastanza grande. Ma se così facendo si dovesse arrivare a raggiungere il punto critico in cui i neutroni prodotti sono uguali a quelli persi, sarà bene riuscire a fermarsi in tempo nell’ingrandire la pila per evitare che la catena diventi esplosiva. Enrico Fermi, che evidentemente sapeva il fatto suo, predispose un modo per spegnere la catena: inserire rapidamente delle barre di materiali che avessero un’altissima probabilità di assorbire i neuroni. Nel caso specifico utilizzò il Cadmio, un vero e proprio veleno per i neutroni. Queste barre vennero denominate barre di controllo, perché potevano venire utilizzate non solo per spegnere bruscamente la pila che fosse divenuta instabile, ma anche per mantenere costante la popolazione di neutroni nella pila, movendole avanti ed indietro attorno ad una posizione di equilibrio.
Già così si intravede come non sia poi così facile proporsi l’obiettivo di realizzare una centrale nucleare. Più semplice sarebbe, se uno lo volesse, realizzare una bomba nucleare: basta avere a disposizione in quantità sufficiente uranio 235 o plutonio. Ma al CISE non ce n’era neanche un grammo, e poi noi eravamo gente pacifica…
Il quadro di informazioni disponibili a quella data sembrava in ogni caso sufficiente per partire con l’idea che saremmo riusciti anche in Italia a sviluppare centrali elettriche nucleari. Per questo si erano mossi i più autorevoli rappresentanti della Fisica e dell’Ingegneria in Italia tanto da convincere le aziende elettriche ad associarsi e a mettere fondi a disposizione per lo sviluppo dell’iniziativa. Quando venni assunto nel 1954, il CISE era operante già da alcuni anni ed era ospitato in una sede messa a disposizione dall’Edison. Un vecchio edificio a Milano vicino al Cimitero Monumentale, in via Procaccini 33 (malgrado il tempo passato, difficile per me dimenticare quell’indirizzo) che ospitava ancora alcuni uffici dell’Edison. Quest’ultimo particolare è importante perché alcuni servizi fondamentali per lo sviluppo delle attività nucleari del CISE erano già presenti in loco. In particolare ricordo la mensa il cui menù riscuoteva molto successo, in particolare al giovedì per via dei famosi nervetti con fagioli (una qualche correlazione con l’alta creatività mostrata dai ricercatori del CISE?).
Gli ingredienti umani necessari per una
centrale nucleare sembravano chiari. Innanzitutto occorreva un gruppo di fisici
in grado di fare i calcoli non semplici per definire sia la scelta dei materiali
che la loro ottimale disposizione geometrica (ad esempio, quale doveva essere il
diametro delle barre di uranio, e quale la distanza tra di loro?).
Poi ci voleva un gruppo di metallurgisti che potessero mettere a
punto il processo per produrre le barre di uranio (che non si trovavano certo
sul mercato).
Non bastava comunque pensare di ottenere barre di uranio metallico partendo dal
minerale. Le barre andavano anche incapsulate in una guaina che le proteggesse
dal flusso del refrigerante che scorreva ad elevata velocità nel canale in cui
al barriera era immersa. Quest’ultimo era il compito più proprio di tecnologi
(ingegneri e chimici).
Poi vi era il problema fondamentale di come assicurare il controllo, la
stabilità, della potenza generata. Innanzitutto occorreva avere dei rivelatori
(allora così si chiamavano; oggi si chiamerebbero sensori, forse in omaggio ad
una civiltà sempre più volta alla soddisfazione dei sensi) in grado di rivelare
il flusso di neutroni per poter intervenire, comandando le barre di controllo,
per regolare la potenza generata nel reattore nucleare mantenendola al livello
voluto. Qui il regno era dei fisici sperimentali capaci di
sviluppare i rivelatori e degli elettronici per sviluppare l’intera
catena del controllo. Va tenuto presente che benché esistesse una tecnologia
consolidata per il controllo di centrali elettriche convenzionali, il problema
andava affrontato su basi del tutto nuove, non fosse altro per la necessità di
reagire in tempi brevissimi ai segnali dei rivelatori. Vi era poi la necessità
di coinvolgere ingegneri impiantisti che progettassero l’intera
centrale, mettendo assieme i vari pezzi.
Ma era proprio sicuro che un reattore nucleare dovesse seguire la ricetta "uranio naturale e grafite"? Un primo problema era legato all’uso dell’uranio naturale. In un vero reattore nucleare per produrre potenza si finiva per introdurre dei materiali che nella pila di Fermi non c’erano, come le guaine per proteggere il combustibile, che non erano del tutto trasparenti per i neutroni. Il margine disponibile nel difficile equilibrio tra neutroni utili e neutroni persi (o catturati o fuggiti all’esterno) quindi si riduceva. Se si fosse riusciti ad aumentare anche di poco la quantità di uranio 235 presente nelle barre di combustibile sarebbe stato tutto più facile. Da qui la necessità di avere un gruppo che si occupasse del cosiddetto arricchimento dell’uranio. Il loro compito fondamentale doveva consistere nello sviluppare tecniche di separazione degli isotopi. Trasformando l’uranio in un gas (esafluoruro di uranio) e facendolo diffondere dal basso verso l’alto in colonne di materiale inerte, si poteva giocare sulla diversa velocità di diffusione dei due isotopi dell’uranio (il 235 più leggero si diffonde più rapidamente del più pesante 238) e quindi il gas spillato in alto doveva essere leggermente più ricco in 235 di quello spillato più in basso nella colonna. Naturalmente il gas arricchito così spillato doveva venire reintrodotto in una nuova colonna e così via, fino a raggiungere l’arricchimento desiderato
Ma c’era anche un altro punto importante che poi finiva con far sorgere problemi di separazione di isotopi. Nella pila di Fermi e nei reattori nucleari realizzati dagli americani per produrre plutonio si era utilizzata grafite per rallentare i neutroni. I nuclei di carbonio della grafite sono abbastanza leggeri (una palla dodici volte quello del neutrone), ma certo sarebbe stato molto più efficace poter utilizzare nuclei ancor più leggeri. L’ideale sarebbe utilizzare l’acqua come moderatore, perché contiene idrogeno il cui nucleo ha massa circa uguale a quella del neutrone. Purtroppo l’idrogeno mostra una rilevante predisposizione a catturare il neutrone che andasse a collidere con lui, trattenendolo per formare il deuterio, un isotopo, appunto, dell’idrogeno. Il deuterio, a differenza dell’idrogeno, è abbastanza indifferente ai neutroni e quindi potrebbe andar bene come moderatore. Nell’acqua che si trova in natura, solo una molecola ogni 7000 ha deuterio al posto dell’idrogeno. Riuscendo a separare le molecole con deuterio dalle altre si otterrebbe la cosiddetta acqua pesante. Se si potesse usare l’acqua pesante come moderatore…
Dei due problemi di separazione isotopica quello dell’uranio sembrava di gran lunga il più difficile da affrontare. Si sapeva di enormi impianti di diffusione gassosa realizzati in Usa. Il discorso della produzione di acqua pesante sembrava invece più alla nostra portata. Sfruttando la sia pur piccola differenza nella temperatura di ebollizione delle due acque si poteva pensare di agire con colonne di distillazione frazionata ben note ai chimici (ed anche un po’ al sottoscritto che da giovane liceale con un amico aveva prodotto un elementare distillatore per ottenere alcol dal vino, da vendere poi ai soldati americani che svernavano, era il 1944, nel nostro paese al limitare della linea Gotica). Un sistema più efficiente, ma che comunque richiedeva forte disponibilità di energia, era basato sulla differente cinetica con cui si separavano idrogeno e deuterio nell’elettrolisi dell’acqua. Le cronache parlavano di una e vera propria guerra dell’acqua pesante avvenuta in Norvegia dove esisteva un impianto di produzione situato vicino ad una centrale idroelettrica. Sembra che i fisici tedeschi avessero puntato sull’acqua pesante per riuscire realizzare un primo impianto dimostrativo della fissione ed aspettavano di poter disporre di una sufficiente quantità di acqua pesante da produrre in detto impianto. Avendo i servizi segreti inglesi probabilmente saputo della cosa vennero decise diverse azioni militari (commandos di paracadutisti e bombardamenti aerei) per distruggere l’impianto, oltre a riuscire a colare a picco una nave che stava trasportando in Germania quella già prodotta.
Il primo passo negli obiettivi del CISE era realizzare un esperimento che fosse almeno l’equivalente della pila di Fermi, per mostrare la nostra capacità di affrontare i difficili compiti legati alla progettazione e realizzazione di centrali nucleari. Tra le due alternative, grafite od acqua pesante, si pensò alla seconda ed un gruppo di fisici e di chimici si gettò nella mischia per realizzare degli impianti di laboratorio che migliorassero le tecniche di produzione dell’acqua pesante. E mi pare che ci riuscissero inventando un metodo nuovo che doveva essere brevettato, ma che poi scoprirono che era già stato sviluppato in USA e fino ad allora coperto da segreto militare. Cesare Marchetti, un genio fiorentino, che aveva sviluppato il metodo se ne andò in Argentina a cercare di realizzare laggiù un impianto per la produzione di acqua pesante.
In sintesi, al CISE erano riuniti esperienze diverse, dai fisici teorici ai fisici sperimentali, dai metallurgisti ai chimici e chimici fisici, dai tecnologi agli ingegneri progettisti. Man mano che gli studi nei vari settori si approfondivano si prese coraggio e venne deciso che si doveva procedere avendo come obiettivo di realizzare un vero reattore che producesse un po’ di energia. Obiettivo 10 megawatt, poca cosa rispetto ai 1000 delle centrali future, ma comunque abbastanza per incontrare tutti problemi che dovevano essere risolti per una centrale più grande.
Questo era il punto quando arrivai al CISE. Venni inserito nel gruppo che si doveva occupare della progettazione fisica del reattore. Altri miei compagni di corso vennero assunti e messi a lavorare in altri gruppi. Il mio amico Sergio fu inserito nel gruppo che si doveva occupare dell’elettronica e del sistema di controllo, e Stelio nel gruppo della produzione di acqua pesante. Un anno dopo sia io che Sergio convincemmo il nostro comune amico Lino, un chimico, a lasciare il lavoro su come fonde lo zucchero che stava facendo nel laboratorio di una azienda chimica, per venire ad affrontare ben più impegnativi argomenti di chimica al CISE.
Oltre ad avere l’impressione di fare un lavoro molto importante si stava bene al CISE. Era popolato da brillanti giovani studiosi e per di più diretto da professori che conoscevamo bene dall’università e che, benché allora ci sembrassero molto più anziani di noi, col tempo si scopriva che la differenza di età non era poi così grande, un decennio o meno. Inoltre era ben visibile che si erano buttati sul compito nuovo con un entusiasmo che non ti saresti aspettato da rappresentanti della baronia universitaria. Uno solo aveva aspetto un po’ arcigno. Se ti incontrava rispondeva al saluto senza sorridere: era il professo Bolla, direttore dell’Istituto di Fisica del Politecnico e che svolgeva anche la funzione di direttore del CISE. Ma poi, se avevi occasione di parlargli sentivi nel suo sguardo penetrante tutto l’appoggio che cercavi.
A capo del gruppo dei fisici teorici era Carlo Salvetti, il professore con cui avevo fatto la tesi, coadiuvato da Sergio Gallone. Io sedevo ad una scrivania in una stanza che dividevo con Alberto, un fisico laureatosi qualche anno prima di me, ma che aveva la mia stessa età. Uno di quei studenti prodigio che riescono a saltare anni non solo alle elementari, ma anche al liceo per poi laurearsi a 20-21 anni. Non parlava molto anche perché in bocca teneva sempre una sigaretta accesa. Sedevamo di fronte con le nostre scrivanie una contro l’altra nel piccolo studio. Sulla sua, al confine con la mia, stava appoggiata una grande insalatiera. Nessun portacenere per quanto grande avrebbe potuto contenere le cicche di un giorno intero. Da parte mia io non avevo mai fumato, e non imparai neanche allora malgrado gli sforzi di Alberto di avviarmi a quell’arte.
I nostri lavori erano complementari. Lui
utilizzava il suo indubbio ingegno e capacità di sintesi nell’esame di
situazioni complesse per esaminare e dare dei giudizi sui vari tipi di
configurazioni proposte per realizzare delle centrali nucleari. Le informazioni
che si trovavano in letteratura erano scarse, prive di dettaglio. Si sapeva ad
esempio che negli Stati Uniti una prima centrale dimostrativa per produzione di
elettricità era già entrata in funzionava ed era a neutroni veloci. In altre
parole, non aveva moderatore e la catena di fissioni era mantenuta utilizzando i
neutroni veloci così come uscivano dalla fissione. Doveva certamente utilizzare
uranio arricchito e/o plutonio. Sembrava che gli inglesi optassero per centrali
a grafite e uranio naturale, mentre i canadesi - che grazie a grande
disponibilità di energia idroelettrica si erano buttati sulla produzione per
elettrolisi di acqua pesante - sembravano aver scelto la via uranio naturale ed
acqua pesante. Ma come veniva in quest’ultimo caso estratto il calore dalle
barre di combustibile? Facendo circolare tutta l’acqua pesante oppure solo una
parte tenuta separata dal resto attraverso dei canali che contornavano ciascuna
barra?
Poi in quello stesso 1954 ci fu la notizia del varo del Nautilus, il primo
sommergibile nucleare americano. Il suo reattore usava acqua leggera ed uranio
arricchito in 235. Ma quanto arricchito?
Occorreva qualcuno che sapesse integrare e razionalizzare le poche informazioni che si riusciva ad ottenere per dare un quadro un po’ più completo delle varie alternative. Ed Alberto qui trovava pane per i suoi denti,
Io invece lavoravo sul dettaglio facendo dei calcoli che dovevano servire a definire le caratteristiche geometriche della soluzione che era stata decisa al CISE per la prima realizzazione: barre di uranio naturale metallico incapsulate in alluminio ed immerse in acqua pesante. Quali calcoli andavano fatti per caratterizzare la soluzione? Innanzitutto, una variabile era data dal diametro della barra. Erano meglio barre molto piccole, diciamo del diametro dell’ordine di un cm, o barre assai più grosse? E che distanza tra una barra e l’altra?
Intanto si era meglio definito il linguaggio da usare. Visto che per produrre energia nella parte nucleare dell’impianto avvenivano delle reazioni, era invalso l’uso di parlare di reattore nucleare e di nocciolo per la parte centrale del reattore dove si trovava il combustibile nucleare. Il termine "pila" usato nel caso di Fermi venne sempre meno usato: il nome era derivato dal fatto che l’insieme sperimentale visto dall’esterno aveva in effetti l’aspetto di una grossa pila o catasta di blocchi di grafite.
E chi, magari con una laurea in Fisica come
il sottoscritto, si occupava di fare calcoli di progettazione per il nocciolo
del reattore come avrebbe dovuto qualificarsi?
I fisici all’università erano suddivisi tra teorici e sperimentali. Io non
facevo esperimenti al CISE e quindi avrei dovuto definirmi un fisico teorico?
Paragonato ai fisici che facendo ricerca nelle università potevano usare detta
qualifica, la cosa sarebbe risultata un po’ strana, forse ridicola. Per
fortuna nel frattempo al Politecnico ci si era preoccupati di fare dei corsi che
preparassero futuri ingegneri ad occuparsi del promettente settore dell’energia
nucleare. E tra i corsi, quello che doveva introdurre ai fenomeni fisici che
avvenivano nel nocciolo del reattore venne denominato Fisica del Reattore
Nucleare. Il lancio di questa nuova disciplina, permettendomi di qualificare
quello che facevo impedì di sviluppare perniciose depressioni per carenza di
identità. "Che lavoro fai?" "Mi occupo di Fisica del Reattore
Nucleare". "Ah, però".
In effetti mi venne anche chiesto, tra un calcolo di fisica dei reattori ed un altro, di far parte dei docenti che dovevano insegnare ai giovani laureandi in ingegneria i segreti della energia nucleare. Come docente ero certamente molto giovane, ma sopratutto impreparato ad insegnare qualcosa che a fatica stavo cercando di capire anch’io. Devo dire che comunque mi comportai meglio dell’anno prima in cui ero assistente all’università. Allora di reattori sapevo ben poco e quindi scelsi la via per me più semplice, visto gli studi per la tesi, e cioè parlare loro di come era fatto un nucleo. E così questi ignari giovani ingegneri prendevano sul serio una lavagna piena di schemi di livelli energetici interni al nucleo. E su ogni livello ci stavano solo due protoni o neutroni, purchè tuttavia uno avesse lo spin in su e l’altro lo spin in giù. Spin è una parola inglese che significa trottola: e i neutroni ed i protoni, si comportano come delle piccole trottole. Se girano in senso orario hanno, diciamo, lo spin in su, mentre hanno spin in giù se la trottola gira in senso antiorario. Muniti di queste importanti nozioni i giovani ingegneri avrebbero potuto poi affrontare con cognizione di causa la progettazione di impianti nucleari! Uno di loro, che poi ebbe grande successo nel settore avendo coperto anche la carica di direttore di centrali nucleari sia in Italia che all’estero, incontrandomi un giorno mi confessò che in tutta la sua lunga carriera nucleare, per quanto si fosse sforzato, di spin non ne aveva mai incontrato neanche uno, né volto in su né in giù.
Tornando al lavoro che facevo nel gruppo di Fisica del Reattore Nucleare, le informazioni di cui si disponeva nel 1954, non andavano molto nel dettaglio: si conoscevano i tipi di fenomeni che avvenivano, ma pochi erano i dati di base da utilizzare nei calcoli. Ad esempio nel cercare di definire il diametro ottimale della barra di combustibile si sapeva che i neutroni prodotti nella fissione prima di uscire dalla barra potevano dar luogo, sia pure con una piccola probabilità, a delle fissioni. Quindi più grossa era la barra maggiore questo effetto positivo. Nel contempo aumentava anche la probabilità che venissero catturati dall’uranio 238 e quindi persi. Fare dei calcoli non era di per sé facile. Per di più che valore potevano avere se mancavano od erano imprecisi i dati sulle reazioni nucleari? Altro problema, la determinazione della distanza tra le barre. Se esse erano tenute troppo vicine, i neutroni veloci usciti da una barra non erano sufficientemente moderati quando rientravano nell’altra e quindi più bassa la probabilità di dar qui luogo a fissione. I conti erano sempre difficili da fare, ma qui essi erano meno dipendenti dal dati sperimentali.
La vaghezza di dati in un certo senso aveva un effetto positivo. Non si dava niente per scontato. Ad esempio chi aveva detto che la distanza tra le barre dovesse essere uniforme in tutto il nocciolo? E se uno avesse diviso il nocciolo in una parte centrale in cui le barre fossero più vicine tra loro ed un anello esterno con le barre più lontane? La velocità media dei neutroni nella parte con le barre più vicine sarebbe stata più elevata e magari a compensare la minor probabilità di fissione si poteva ottenere un miglioramento nella riduzione della probabilità di perdere neutroni per cattura. Magari era una buona idea. Perché non sottoporla a qualche verifica teorica?
Il vento della creatività spinto dallo stato ancora primordiale della tecnologia nucleare aleggiava su tutto il CISE e non solo tra i fisici. Ad esempio, pensavano gli ingegneri, per estrarre il calore generato nel nocciolo del nostro reattore sarebbe stato meglio far circolare all’esterno tutta l’acqua pesante per fargli cedere calore in uno scambiatore, oppure tener l’acqua pesante ferma nel reattore e togliere calore con del refrigerante fatto circolare in serpentine immerse nel reattore? Questo per quanto riguarda gli ingegneri impiantisti. Ed i tecnologi responsabili di disegnare e realizzare le barre di combustibile? Eravamo sicuri che la guaina in alluminio fosse la soluzione migliore? Perché non esaminare altre leghe che meglio resistevano alla corrosione e che nel contempo avessero bassa propensione a catturare neutroni? A quanto si sapeva lo zirconio sembrava più adatto, ma non si comperavano tubi di zirconio al mercato, ed allora via con gli studi metallurgici necessari per realizzare prototipi di nuove leghe.
Molto bene, molto eccitante per un gruppo di ricercatori. Ma di quel passo sarebbe stato difficile arrivare presto alla realizzazione del prototipo di reattore come era negli obiettivi del CISE. Ad un certo punto si dovette convergere su una configurazione definita che per quanto riguarda il nocciolo doveva consistere in un reticolo uniforme di barre immerse nell’acqua pesante che circolava alla velocità richiesta per poter estrarre tutto il calore generato nella barra e mantenerne costante la temperatura.
I calcoli che dovevamo fare erano assai complessi e richiedevano tempi lunghi anche perché i mezzi di calcolo a disposizione erano rappresentati da calcolatrici meccaniche da tavolo. Tuttavia la situazione stava per cambiare. Al Politecnico era entrata in funzione un enorme calcolatore elettronico. Ci precipitammo là per vedere di semplificare le nostre fatiche di calcolo. Non era poi così evidente. Il calcolatore, in linea con la tecnologia del momento, per quanto enorme non era molto veloce, e doveva venire alimentato di dati sotto forma di schede perforate e sputava fuori i risultati a fatica e con lo stesso mezzo. Inoltre non esistevano linguaggi di programmazione - di alto livello come si dice oggi - che semplificassero la vita del programmatore. Per esempio, per fare la somma di due addendi si doveva specificare la casella di memoria in cui mettere il primo addendo, quella per il secondo ed infine la casella in cui mettere il risultato. In ogni caso un qualche aiuto l’ottenemmo ed oltretutto avevamo imparato a mettere le mani sul mostro.
Il mio primo anno al CISE passò presto ed i calcoli non erano certo finiti anche perché man mano che si procedeva si scoprivano sempre altri effetti di cui si doveva tenere conto. In ogni caso ciò evitava di sentire la noia di fare esercizi ripetitivi.
Qualche dettaglio può illustrare la situazione. Un nocciolo di reattore è un insieme di materiale fissile e di altri materiali che svolgono funzioni diverse. Come caratterizzare detto insieme dal punto di vista della sua efficienza come generatore di energia nucleare? La domanda più semplice (come domanda, non certo come risposta) è la seguente: per ogni fissione, dei 2,5 neuroni che in media che vengono prodotti, quanti ne resteranno di utili per dare luogo ad altre fissioni? Nella vulgata della fisica del reattore nucleare si tratta del fattore di criticità K. Se quel numero è minore di uno, la catena di fissioni nucleari si spegnerà rapidamente. Se è uguale ad uno, quell’insieme avrà raggiunto la criticità e la catena si manterrà ad un livello costante di fissioni nel tempo. Il grande valore dell’esperimento di Fermi con la sua pila fu proprio di dimostrare che era possibile raggiungere detta criticità. Se K è maggiore di uno allora la catena divergerà esponenzialmente ed l’insieme sarà sopracritico. Per poter realizzare una centrale nucleare è bene che detto fattore sia il più grande possibile rispetto all’unità. Il reattore verrà mantenuto critico attraverso le famose barre di controllo che hanno il compito di assorbire i neutroni in eccesso. Man mano che il reattore funziona il numero di nuclei di uranio 235 a disposizione diminuisce. Inoltre i prodotti che derivano dalla fissione rimangono sul posto e contribuiranno a far sparire neutroni catturandoli. L’insieme diventerebbe quindi sottocritico se non si provvedesse a bilanciare la situazione estraendo via via dal nocciolo un poco le barre di controllo.
Il nostro compito come fisici era pertanto di scegliere la disposizione delle barre ed il loro diametro che assicurassero il maggiore eccesso di criticità possibile. Poiché un reattore ha dimensioni finite, una parte dei neutroni si perderà fuoriuscendo dal nocciolo. Aumentandone le dimensioni si aumenteranno i neutroni che restano disponibili per la fissione. Ma configurazioni diverse del reticolo potevano permettere di raggiungere una dato valore del fattore K con dimensioni diverse. Più piccolo era il nocciolo, meglio sarebbe stato, se non altro perché il costo di tutto ciò che sta attorno al nucleo aumenta con le dimensioni. Per valutare una data configurazione il trucco utilizzato era quello di calcolare il fattore K per un mezzo infinito.
Tra gli effetti vari che dovevano via via venir considerati, uno importante era legato alla temperatura sia della barra di uranio che del moderatore E non solo andava valutato l’effetto che ciò aveva sulla reattività, ma era opportuno evitare configurazioni per le quali l’aumento di temperatura aumentasse la reattività invece di diminuirla. Infatti, in tal caso l’aumento di temperatura avrebbe causato un aumento delle fissioni che avrebbe richiesto un rapido intervento della barre di controllo per controbilanciare l’effetto. Qui si entrava nel discorso complesso, ed anch’esso nuovo, della sicurezza del reattore, della possibilità di garantirne un uso non solo controllato, ma intrinsecamente sicuro. Come sarebbe stato il coefficiente di reattività legato alla temperatura in Chernobil?
Naturalmente le incertezze nei dati di base rendeva incerti i risultati di calcoli per quanto raffinati. Era pertanto necessario poter eseguire delle esperienze che permettessero di verificare la bontà dei calcoli sulla reattività delle configurazioni studiate. Data la scarsità di materiali disponibili, sia di barre di uranio che di acqua pesante, occorreva inventare un qualche esperimento che desse risultati significativi pur con misure fatte in insiemi ben lontani dalla dimensione che li rendeva critici. Com’era possibile? Si pensò che se si fosse iniettato un getto di neutroni al centro dell’insieme si sarebbe avuto un effetto moltiplicativo per via delle fissioni indotte dal getto iniziale. Misurando con dei rivelatori i neutroni che uscivano all’esterno dell’insieme moltiplicante si sarebbe visto – essendo l’insieme sottocritico - che il flusso decadeva nel tempo. Più rapido il decadimento e meno moltiplicante era il mezzo.
Un po’ di uranio sotto forma di minerale
era arrivato al CISE negli anni precedenti e se andavi, attraversata la corte
interna di via Procaccino 33, nei laboratori dei metallurgisti, Alberto Cacciari
era lieto di mostrarti alcune lisce barre di uranio metallico da loro ricavate
da quei minerali. E se poi ci andavi con il mio amico Sergio del gruppo degli
elettronici, lui magari si portava dietro dei rivelatori di radioattività da
loro messi a punto, lo avvicinava alle barre e ti faceva sentire il ticchettio
che usciva dall’ apparecchio a denunciare radioattività presente, ticchettio
prodotto da un piccolo altoparlante che, grazie all’elettronica annessa al
rivelatore, riceveva amplificate le piccole scariche elettriche causati dall’attraversamento
delle particelle radioattive nel rilevatore.
Per l’acqua pesante si era lavorato molto al CISE. Ma per realizzare impianti
produttivi della dimensione necessaria occorrevano mezzi che certo non erano
alla portata del CISE. Ed allora? La si poteva comperare sul mercato, magari in
Norvegia dove avevano ripreso la produzione? Sembra che fosse carissima. Per
fortuna gli USA erano ora disponibile a venderne a prezzi molto bassi. Quindi si
sarebbe potuti partire.
I fisici sperimentali erano pronti a realizzare l’esperimento, ma toccava a
noi, fisici del reattore nucleare, sviluppare il metodo per analizzare i dati
sperimentali sì che fossero significativi ai nostri scopi: valutare la bontà
dei nostri calcoli sul fattore K.
Se l’obiettivo che il CISE si era prefisso era chiaro, tuttavia la strada da percorrere era piena di curve che rallentavano i tempi. Ma poi venne il 1955.
3. Arriva l’Atomo per la PaceNel ‘53 all’assemblea generale delle Nazioni Unite il Presidente Eisenhower aveva pronunciato un famoso discorso con cui lanciava un appello per la collaborazione internazionale per lo sfruttamento pacifico dell’energia nucleare. La proposta venne accettata anche dalla Russia ed un primo grande evento sarebbe avvenuto nell’agosto del 1955 a Ginevra con la prima Conferenza Mondiale "Atomo per la Pace".
Nel frattempo molti Paesi, oltre a Stati Uniti, Inghilterra e Russia, si erano dati un’organizzazione per sviluppare gli studi nucleari. La Francia non aveva ancora realizzato la sua prima bomba, ma aveva concentrato ingenti risorse nel Commissariat à l’Energie Atomique presieduto dal premio Nobel Francis Perrin. La Spagna aveva una Junta de Energia Nuclear e perfino la Svizzera aveva dato vita ad un Comitato Federale per l’energia nucleare. E l’Italia? Il CISE era una istituzione privata e dotata di pochi mezzi, certo insufficienti per sviluppare il programma di realizzare un prototipo di reattore nucleare. I tentativi per svegliare l’attenzione del governo a partire dalla fine degli anni ’40 non avevano dato molti risultati. Finalmente a fine ’53 con un decreto legislativo venne istituito il CNRN, Comitato Nazionale Ricerche Nucleari. A presiederlo fu chiamato Francesco Giordani, professore di Chimica a Napoli e che aveva presieduti negli anni della guerra il Consiglio Nazionale della Ricerca. Nel Comitato sedevano alcune importanti figure della Fisica italiana (come il professor Edoardo Amaldi, che aveva fatto parte del famoso gruppo di via Panisperna, a Roma, guidato da Fermi), il presidente del CISE ing. De Biase (che era anche il grande capo della Edison), ed altri.
Il CNRN non aveva risorse di ricerca proprie e come strumento operativa vi era solo il CISE dotato di laboratori e personale che potevano vantare competenze specifiche. Era pertanto naturale che noi sperassimo di poter finalmente ottenere le risorse finanziare necessarie per realizzare il reattore il cui progetto era ormai ben delineato. La cosa non era poi così semplice. Giordani veniva ogni tanto in visita al CISE in via Procaccini ed io stesso ricordo questo signore anziano, imponente non solo per la statura, ma anche per la barba. Mi immaginavo che così, con barba da profeta, dovessero apparire i veri baroni universitari, almeno quelli della facoltà di Chimica, perché tra i professori di Fisica e di Matematica di barbe non ne avevo incontrate nessuna. Prima di cacciare i soldi, in ogni caso il CNRN pretese che nel CISE entrassero aziende a partecipazione statale come IRI ed ENI.
Per chiarirsi le idee il CNRN approfittò dell’apertura degli americani a mostrare ciò che stavano facendo di pacifico nel nucleare, e nella primavera del ’55 venne organizzata una missione in USA cui parteciparono anche i capi dei vari gruppi del CISE. La missione durò circa un mese anche perché le attività nucleari americane erano ripartite in molteplici grandi laboratori detti nazionali, finanziati dalla Atomic Energy Commission, sparsi in vari Stati dell’Unione e dati in gestione ad industrie o ad università. Molti di questi laboratori si erano dotati di uno strumento di ricerca importante sotto forma di reattore sperimentale il cui scopo principale non era tanto di dimostrare come si realizzava un prototipo di centrale per produrre potenza, ma di avere a disposizione una forte sorgente di neutroni con cui poter fare esprimenti di varia natura. Ad esempio, poter ricavare dati fondamentali per la progettazione di reattori come le probabilità di cattura in vari materiali. Oppure, realizzare esperimenti per verificare il possibile danneggiamento che i neutroni potevano produrre attraversando materiali strutturali, come l’acciaio in cui doveva essere contenuto il nocciolo. Questi reattori non erano tutti uguali. Per esempio nei laboratori di Brookhaven, a Long Island, vi era un reattore con uranio leggermente arricchito ed acqua pesante come moderatore. Il nocciolo era racchiuso in un recipiente di acciaio. Ad Oak Ridge, nel Tennessee, il nocciolo era invece immerso in una piscina a cielo aperto piena d’acqua che, oltre che da moderatore, faceva anche da schermo delle radiazioni emesse dal nocciolo. Dall’alto della piscina si poteva guardare giù e si vedeva, avvolto da una viva luce blu, il nocciolo. Salvetti al suo ritorno mostrava a tutti con orgoglio la sua foto mentre guardava il nocciolo. La foto di un vero nocciolo in piena attività nucleare! La luce blu che usciva dal nocciolo non era dovuta a lampade che lo illuminassero, ma ad un noto effetto legato al rallentamento subito dalle radiazioni per urto contro i nuclei quando attraversano un mezzo, nel nostro caso l’acqua. Il rallentamento causa nella radiazione una perdita di energia che viene compensata con la produzione di uno sciame di onde di luce.
Questi reattori per condurre esperimenti erano stati progettati e realizzate da aziende industriali che sarebbero state ben felici di ottenere commesse per realizzarne altri simili. L’Atomic Energy Commission era pronta a dare non solo i permessi necessari, ma anche l’uranio per il combustibile e l’acqua pesante. IL CNRN, ed in particolare il suo presidente, guardava con notevole interesse a questa possibilità, perché avrebbe accelerato il momento in cui si sarebbe potuto mostrare al mondo che anche l’Italia aveva un reattore nucleare. I fisici che avevano partecipato alla missione in USA erano rimasti impressionati dall’idea di poter disporre rapidamente di una macchina che permettesse di svolgere una varietà di esperimenti avendo a disposizione una sorgente molto intensa di neutroni. Dalla visita agli impianti di Brookhaven e di Oak Ridge erano rimasti particolarmente impressionati dalla selva di apparecchiature sperimentali che affollavano la grande sala tutt’attorno al reattore. Ogni apparato sperimentale era realizzato attorno ad un fascio di neutroni che usciva da un lungo tubo che si affacciava alla parete del nocciolo.
Di diverso avviso erano gli ingegneri del CISE. Per loro l’importante era imparare facendo. Costruire il reattore interamente concepito e realizzato con le nostre forze avrebbe significato veramente fare un passo nella giusta direzione per poi essere capaci di affrontare il problema di progettare e realizzare vere centrali nucleari. Mario Silvestri che a buona ragione si poteva considerare come la mente più acuta e preparata dietro al progetto, in un libro-denuncia pubblicato una decina di anni dopo - amaro fin nel titolo: "Il costo della menzogna" - descrive i retroscena della disputa che poi porterà il CNRN a scegliere la via meno rischiosa per i politici, interessati più a tagliare il nastro dell’inaugurazione il più in fretta possibile che ad utilizzare, sviluppandolo ulteriormente, il grande patrimonio di capacità ed entusiasmo che in quegli anni si era costituito al CISE.
Confesso che di quella disputa, anche aspra, non me ne ero molto accorto allora. Sapevo sì delle due correnti, ma non percepivo la grande occasione che si sarebbe persa comperando in America il primo reattore come macchina strumentale per approfondire le ricerche nucleari. E poi era in arrivo il grande evento di Ginevra che avrebbe aperto gli scrigni segreti dell’arte nucleare. Probabilmente avrei scoperto che le analisi da noi fatte per calcolare la reattività di un dato nocciolo di reattore erano fortemente approssimative e che nuovi orizzonti si sarebbero aperti a chi come me pretendeva di voler diventare un fisico del reattore nucleare esperto ed affidabile.
La Conferenza era prevista per il mese di
agosto. Nel mese di luglio ebbi la fortuna di partecipare ad un importante
evento che in qualche modo mi preparava meglio a trarre il massimo dalla
partecipazione alla Conferenza.
A Villa Monastero in quel di Varenna sul lago di Como (proprio a cavallo dei due
rami di manzoniana memoria) ogni anno la Società Italiana di Fisica organizzava
una Scuola Estiva di Studi e quell’anno la scuola era proprio dedicata alla
Fisica del Reattore Nucleare. Era una specie di scuola-seminario in cui i
professori docenti quando non erano in cattedra sedevano tra i discenti. Tra i
docenti vi erano tutti i professori italiani che avevano avuto modo di
approfondire la materia. Oltre a Salvetti ed a Gallone vi era Bruno Ferretti che
era allora a Roma assistente di Edoardo Amaldi (e che poi l’avrei sempre più
spesso rivisto al CISE), ma soprattutto vi erano docenti provenienti da altri
paesi, in particolare da USA e Gran Bretagna che sui reattori nucleari avevano
messo le mani veramente.
Il personaggio più significativo era certamente Alvin Weinberg che era stato
giovane assistente di Enrico Fermi a Chicago all’epoca della pila e che ora
era il direttore del Laboratorio Nazionale di Oak Ridge. Forse era stato
Salvetti nella recente visita laggiù con la delegazione CNRN a convincerlo a
passare da Varenna sulla strada per Ginevra. Weinberg, tre anni dopo,
pubblicherà assieme a Eugen Wigner, un mostro sacro della fisica nucleare, un
libro dal significativo titolo "Fisica dei Reattori Nucleari". Era
quindi la persona più adatta per fare il punto dettagliato sui problemi da
affrontare per la progettazione nucleare del reattore e sulle tecniche
fisico-matematiche da adottare. Ma non si limitò a questo. Ci indicò anche i
punti deboli, dove erano necessario approfondimenti ulteriori. Uno di questi
riguardava la durata del nocciolo. Si partiva con un nocciolo pulito, in cui gli
elementi presenti erano ben definiti. In particolare, nel combustibile, gli
isotopi di uranio in funzione del grado di arricchimento in 235. Man mano che le
fissioni procedevano nel tempo, non solo diminuivano i nuclei di uranio che
avevano dato luogo alla fissione, ma aumentava nel combustibile la popolazione
dei nuclei derivanti dalla fissione – i cosiddetti frammenti di fissione - che
avrebbe pertanto contribuito ad aumentare la probabilità di perdere per cattura
dei neutroni utili. Col tempo ci si sarebbe quindi mangiato tutto l’eccesso di
reattività iniziale a disposizione, il reattore si sarebbe spento e nel
nocciolo andavano messi elementi di combustibile nuovi. Era pertanto importante
riuscire a valutare il comportamento dei frammenti di fissione. La loro
popolazione però era formata da tanti nuclei diversi, per molti dei quali non
si conoscevano dati sperimentali sulla relativa probabilità di cattura di
neutroni. Parlandone, assieme a Gallone, con Weinberg a lato delle lezioni, si
riuscì a mettere a punto un’idea di come si sarebbero potuto fare delle stime
teoriche per valutare detta probabilità basandosi sulla teoria dei livelli
energetici interni al nucleo (di cui mi ero occupato per la tesi). Cominciammo a
lavorare sul problema Gallone ed io già a Varenna e poi continuammo, finita la
kermesse ginevrina, al CISE. Inviammo i risultati ottenuti ad Alvin Weinberg ad
Oak Ridge e poi pubblicammo la ricerca. Confesso di aver provato un certo frisson
quando, pochi anni dopo, trovai che sul libro di Weinberg e Wigner non solo
veniva descritto il problema, ma come fosse stato risolto citando il nostro nome
nel testo e dando a piè di pagina il riferimento al nostro lavoro. Purtroppo
per Sergio Gallone il suo destino anche lì fu di ritrovarsi nascosto dietro un
anonimo et al.
La villa Monastero è immersa in un grande parco che facilitava le discussioni peripatetiche e non solo di tipo scientifico. In due settimane eravamo diventati tutti, giovani ed anziani, docenti e discenti, dei commilitoni. E la sera si organizzavano anche eventi ludici. Conservo una foto in cui il professore Salvetti, in modo assai poco professorale, brandendo uno schiedino a mo di spada, guida un treno di samba attorno ai tavoli di un ristorante locale seguito da tutti i fisici, giovani od anziani, illustri o meno, presenti alla Scuola.
Ma eccoci finalmente arrivati al 8 Agosto seduti nell’enorme e strapiena sala del Palazzo delle Nazioni a Ginevra per l’apertura della Conferenza. Le cronache riportano che vi parteciparono più di 1400 delegati da 76 diversi Paesi e che ci girarono attorno ben 900 giornalisti. Dopo la seduta inaugurale la Conferenza venne suddivisa in sessioni parallele organizzate su tre temi principali: fisica e pile atomiche; chimica, metallurgia e tecnologia; medicina, biologia e isotopi radioattivi. I lavori scientifici presentati furono più di 3000 tra i quali la presentazione da parte di Salvetti e Gallone del lavoro per la ricerca della disposizione ottimale di reticoli ad uranio naturale ed acqua pesante svolto al CISE negli ultimi due anni. Questa enorme massa di papers venne raccolta poi in ben 16 volumi che rappresenteranno i nostri livres di chevets dei mesi a venire.
La delegazione del CISE era alloggiata in un
albergo al di là del lago. Un tram ci portava al Palazzo delle Nazioni da cui
non tornavamo se non a notte fonda. La giornata passava correndo da una sessione
ad un’altra curiosi di sentire ora un americano, ora un russo od un inglese.
Non so quanto mi fosse rimasto impresso da quelle presentazioni: in ogni caso ci
sarebbero poi stato i proceedings della Conferenza da leggere con calma.
C’era anche una mostra cui dedicare tempo. Gli americani, per strafare,
avevano installato nel parco del Palazzo un vero e proprio reattore funzionante,
del tipo a piscina come quello che Salvetti aveva potuto vedere ad Oak Ridge. La
potenza termica generata era di 10 kw ed anch’io per la prima volta ho potuto
vedere la luce blu del nocciolo.
Mentre cercavi di correre da una sala dove si teneva una certa sessione ad un’altra
per arrivare in tempo a sentire una relazione che sembrava dover essere
particolarmente interessante, magari venivi incrociato da uno dei giornalisti
italiani presenti che ti scambiava per uno che di reattori nucleari se ne
intendeva e ti chiedeva che cosa ne pensavi della Conferenza, ed in particolare
se era vero che i russi la sapevano lunga come gli americani o di più. In
effetti nella mostra i russi avevano presentato un plastico della centrale
nucleare di Obninsk entrata in funzione un anno prima. In quanto produceva
energia elettrica, sia pure solo 5 Mw, a buon titolo i russi potevano vantar di
esser arrivati prima degli americani, che di centrali che producessero energia
elettrica ne avevano una più grande, ma ancora in costruzione (centrale di
Shippingport). Obninsk era a uranio e grafite raffreddata a gas, mentre
Shippingport era ad uranio leggermente arricchito e ad acqua naturale (leggera)
in pressione.
Oltre alla mostra e alle sessioni scientifiche vi erano altri eventi cui cercavamo di non mancare nel limite del possibile: erano i rinfreschi offerti dalle varie delegazioni. Confesso anche che in una pausa domenicale osai varcare la soglia del Casinò. Con una qualche apprensione puntai un franco sul rosso ed il franco si raddoppiò. Pensando che non si dovesse tentare troppo la fortuna raccolsi i due franchi ed uscii.
La cosa forse più impressionante che ricavai dalla Conferenza fu la ridda di sigle che dovevamo cercare di decifrare. Ma chi aveva detto che i reattori nucleari erano una cosa semplice? C’erano PWR, BWR, GCR, LMFR, HWPWR, HWBWR ed altri ancora (già presenti alla conferenza o che sarebbero usciti fuori in seguito) come alternative possibili su cui focalizzare l’attenzione di chi avesse dovuto scegliere quale fosse la soluzione migliore. Anche per chi si doveva occupare della parte fisica, le varie alternative rappresentavano interessanti sfide una diversa dall’altra. I PWR - reattori ad acqua leggera pressurizzata ad uranio leggermente arricchito - presentavano forse la situazione più semplice per i calcoli neutronici: barre di uranio uniformemente distribuite nell’acqua. L’alternativa in cui si permetteva all’acqua di bollire (BWR, Bowling Water Reactor) nel nocciolo per uscire come vapore dal recipiente a pressione, presentava già un’importante disuniformità nella parte alta del nocciolo dove si formava il vapore. Come tenerne conto? I calcoli che avevamo fatto al CISE sul reticolo di barre di uranio in acqua pesante erano forse abbastanza rappresentativi per il caso HWPR (acqua pesante a pressione), ma non per l’alternativa bollente (HWBR). E che dire delle proposte di reattori raffreddati a metallo liquido (tipo sodio fuso) o addirittura in cui il combustibile era lui stesso sotto forma di sale liquido (LMFR, Liquid Metal Fuel Reactor) che veniva fatto circolare all’esterno del nocciolo in uno scambiatore da cui usciva vapore per alimentare una turbina? I tipi di reattore si distinguevano anche per la velocità media dei neutroni nel nocciolo. C’erano quelli a neutroni veloci e quelli a neutroni termici: ma c’erano anche quelli intermedi se non addirittura misti (parte del nocciolo veloce e parte termico).
Ma la vera novità, per chi come me, aveva
fino allora pensato a reattori ad uranio naturale o leggermente arricchito era
rappresentata dalla nuova parola: reattori breeder. Il verbo to breed (generare
progenie), sembrava più adatto ad un allevatori di cavalli, che era un breeder
in quanto mettendo insieme stalloni e femmine produceva nuovi cavalli. E per
il caso dei reattori nucleari, che significato aveva?
Il ragionamento era un po’ questo. Di uranio nel mondo ce n’è assai.
Tuttavia con la fissione del solo isotopo 235 ne sfruttiamo meno del 1%. Se
tutto il bisogno di energia elettrica nel mondo dovesse venir coperto dal
nucleare, per quanti anni potremo andare avanti prima che si esauriscano le
risorse di uranio esistenti ed economicamente sfruttabili? Un secolo? Ma se
riuscissimo ad ottenere la fissione di tutti gli isotopi dell’uranio, allora
moltiplicheremmo di 100 volte detto periodo. Abbastanza per i pronipoti dei
pronipoti. Per riuscire ad utilizzare anche il 238, il trucco principale è di
sfruttare il fatto che in un reattore lo si può trasformare in plutonio 239.
Ecco quindi i reattori breeder che oltre a produrre energia elettrica
generano anche altri nuclei fissili. In italiano, con riferimento più ai
contadini che agli allevatori di cavalli, è invalso l’uso di chiamarli
reattori autofertilizzani. Tra i nuclei si distinguerà tra quelli fissili
(come l’uranio 235) e quelli fertili (come l’uranio 238) così detti
perché possono dar luogo a nuclei fissili. E poiché l’autofertilizzazione
funziona meglio con neutroni veloci che lenti, ecco la nuova sigla da aggiungere
al già lungo elenco: FBR, Fast Breeder Reactor.
Non mi ricordo se tra le centinaia di relazioni presentate a Ginevra in qualcuna
riferisse anche del fatto che si potevano generare nuclei fissili non solo dall’uranio
238, ma anche dal Torio, elemento che si trova in natura ed è tre volte più
abbondante dell’ uranio. Il Torio è prevalentemente formato dall’isotopo
232 che non è fissile, ma per cattura di un neutrone si trasforma in 233 che è
instabile e si diverte poi a trasformarsi in uranio 233 che invece fissile è.
Quindi presto o tardi avremmo dovuta aggiungere una T alle varie sigle.
Tornati a casa non c’era certo il problema di come passare il tempo al CISE. Già il digerire la massa di informazioni di Ginevra. Poi dovevamo portare a termine il lavoro iniziato a Varenna sui prodotti di fissione. Per di più venne presa la decisione di acquistare in America un reattore da utilizzare per esperimenti, del tipo di quello installato a Brookhaven, ad acqua pesante ed uranio leggermente arricchito. Il reattore era noto con la sigla CP5, sigla che non ho mai saputo da dove derivasse. Il reattore sarebbe stato fornito dall’azienda USA che aveva già costruito quello di Brookhaven. Per guadagnar tempo e per prepararci a meglio discutere con il costruttore americano, ci buttammo a fare dei calcoli su quel tipo di nocciolo che tra l’altro aveva elementi di combustibile diversi come forma da quelli su cui noi avevamo concentrato i calcoli nel passato.
Della delusione che questa decisione di comperare il CP5 produsse in chi al CISE sosteneva che avremmo invece dovuto realizzare un reattore tutto nostro, non sono stato testimone diretto, perché nel frattempo il gruppo di Fisica del Reattore venne spostato in un ufficio in via Serbelloni in centro a Milano. Sospetto che questa separazione fosse dovuta non tanto alla necessità di lasciare più spazio in via Procaccini per gli sperimentatori e gli ingegneri, ma quanto perché ci fosse qualcuno che facesse da contorno agli uffici del nuovo amministratore delegato voluto per il CISE dai soci statali. Infatti, nel 1956 arrivò il dr. Nordio e per lui si affittarono nuovi uffici lontani dalla mischia. Prima di venire a Milano era stato capo del personale alla Finmeccanica a Genova e là aveva avuto fama di duro. Tanto che il suo arrivo venne accompagnato da voci che parlavano di muri di Genova tappezzati da manifesti che lo ritraevano impiccato.
Il professor Bolla se ne tornò nel suo ufficio all’Istituto di Fisica del Politecnico, non senza aver prima soddisfatto una mia impellente richiesta di aumento dello stipendio. La cosa andò così. Ero seduto davanti alla sua scrivania dopo aver fatto la mia richiesta e spiegatogli le ragioni che mi avevano indotto a tanto. Lui, dopo aver guardato la scheda che riportava i miei dati, così parlò: " Lei dice che con 60 mila lire al mese arriva a fine mese senza più una lira. Capisco. Ottanta mila lire andrebbero meglio, vero?" Io feci un entusiastico cenno affermativo col capo e lui riprese: " Vede, io potrei anche dargliele le ottantamila lire, ma sono sicuro che lei dopo un po’ si abituerà, aumenterà le sue spese ed arriverà a fine mese sempre con le tasche vuote. Che senso ha? Tanto vale che si tenga le sue sessantamila attuali." La forza della logica in questa argomentazione era evidente. Ciononostante uscii dal suo ufficio piuttosto contrariato. Ma il mese dopo la busta paga era stata aggiornata come da richiesta.
Mi sono chiesto anni dopo, leggendo il libro
di Mario Silvestri, perché mentre il gruppo degli ingegneri era fortemente
contrario alla decisione di comperare il CP5, il gruppo dei fisici non fece
obbiezione ed anzi ne fu contento. Credo che non fosse solo perché vedevamo con
favore la possibilità di avere rapidamente a disposizione una macchina che
permetteva di pensare e realizzare tante esperienze, ma anche perché veniva
così liberata la nostra fantasia di concepire tante soluzioni diverse di
noccioli nucleari, mentre la realizzazione del reattore nostro avrebbe richiesto
di concentrare tutte le nostre risorse sui calcoli di approfondimento di un
unico tipo di nocciolo. E ciò tanto più dopo la kermesse ginevrina e le tante
sigle che avevamo imparato ad usare e per ognuna delle quali sarebbe stato
divertente capire come funzionasse il nocciolo e vedere i pro e contro delle
varie soluzioni possibili e cercare la soluzione ottima.
Col senno di poi penso che avesse ragione Mario Silvestri. Se avessimo seguito
la strada che lui voleva fare, il futuro dell’industria nucleare del nostro
paese sarebbe stato diverso. Invece, negli anni successive le risorse umane e
finanziarie nel frattempo cresciute notevolmente vennero disperse su tanti
progetti alternativi spesso limitandosi, per ognuno, ad una fase di studi
generali.
In ogni caso il gruppo dei Fisici, Salvetti in testa, si buttò con entusiasmo sull’idea del CP5. Tra le altre cose da fare si trattava di trovare un sito dove installare il reattore, contornato da laboratori in cui si sarebbe dovuto trasferire potenziandolo tutto quello che c’era al CISE. Il sito non doveva essere troppo lontano da Milano, ma era bene comunque che non fosse vicino a centri troppo popolati. La scelta del sito avrebbe avuto ripercussioni pratiche sul futuro di ciascuno di noi se non altro per le implicazioni logistiche e familiari. Così ne discutevamo tutti. Io ricordai il paese di mio nonno lungo l’Adda a circa 30 km da Milano dove avevo trascorso tutte le mie vacanze da piccolo. Non mi sarebbe dispiaciuto che là vicino sorgesse il nuovo centro. E mi sembrava di ricordare che, un po’ a monte, a Brivio sulla sponda comasca, ci fosse una grande piana coltivata a granturco, sicuramente l’ideale per il CP5 secondo me. Mi agitai tanto che convinsi il professor Salvetti ad un sopraluogo. Ci andammo di mattina, perlustrammo i campi di granturco. Il viaggio non fu del tutto inutile perché fu anche l’occasione di fermarci a pranzo in un’osteria del posto. Ma poi la scelta cadde su un sito più a nord, ad Ispra sulla sponda varesina del lago maggiore.
Il professor Bruno Ferretti, che rappresentava il ponte tra il CNRN ed i fisici del CISE era ora spesso da noi ed era interessato a farci approfondire problemi legati a configurazioni diverse del nocciolo, disponendo zone ad arricchimento diverso nell’uranio, a quanto plutonio si sarebbe formato e così via. Quindi le sollecitazioni per fare nuove analisi, per sviluppare metodologie sempre più raffinate di calcolo non mancavano. E così pure il nostro entusiasmo anche perché c’era qualcuno esterno al gruppo che non solo sollecitava nuovi studi, ma apprezzava anche i risultati ottenuti.
Nel frattempo con Gallone si concluse il lavoro sui prodotti di fissione. Con Alvin Weinberg vi era stato uno scambio di corrispondenza. Ci inviò nuovi dati sperimentali nel frattempo resi disponibili che migliorarono notevolmente i risultati ottenuti. Ed il lavoro andava presentato ad un convegno internazionale che nel maggio 1956 si tenne in un posto incantevole: in cima a Monte Faito sopra Castellamare di Stabia. Lassù, dall’albergo cui si giungeva con la funicolare, si poteva vedere tutto il golfo di Napoli. E lassù apprezzammo non solo il tempo dedicato alla presentazione dei lavori ed alla discussione, ma anche le pause caffè sulla terrazza ad ammirare il panorama.
A Monte Faito era venuto anche Weinberg. A Varenna le sue lezioni erano state molto importanti per chi voleva approfondire le tecniche di analisi della fisica dei reattori. Gli studenti avevano preso delle note. Si trattava di metterle assieme, ordinarle e completarle ove necessario. Volentieri accettai il compito relativo. Fu un’altra ragione di contatti con Weinberg. Il testo così raccolto delle lezioni venne poi pubblicato in inglese sulla rivista Il Nuovo Cimento ed il mio nome vi apparve come editor.
Un altro evento importante per me in quell’anno
fu l’accompagnare Bruno Ferretti al Centro nucleare inglese di Harwell. Non so
perché scelse proprio me per quella visita. Forse era stato impressionato dalla
quantità di carta che producevo con note e calcoli vari. In ogni caso accettai
con entusiasmo anche perché mi ero sposato da appena un mese ed il viaggio di
nozze era stato molto breve: periplo del lago di Garda a bordo della vecchia
topolino prestatami dal mio amico Sergio. Così proposi al professor Ferretti di
darci appuntamento a Londra e portai con me mia moglie che poi lascia a Londra
alle cure di mia sorella che là viveva, mentre io sarei andato ad esplorare
cosa era successo nel vecchio campo di aviazione militare in cui era stato
installato il famoso centro nucleare inglese. Harwell è un paesino non troppo
distante da Oxford. Lo raggiungemmo dopo un’oretta di treno fino ad Oxfrod e
poi su una auto che credo ci fosse inviata dal Centro. In fondo il professor
Ferretti era membro del consiglio del CNRN e l’Italia era pur sempre un
potenziale partner nucleare. Di quella visita non ricordo gli argomenti di cui
discutemmo. L’incontro fu con il responsabile della progettazione nucleare, un
certo dr. Linch se ben ricordo. Mi è rimasto invece ben impresso lo stato dei
luoghi. Innanzitutto quelle specie di baracche sparse per il vecchio campo che
alloggiavano direzione e laboratori. Con i muri senza intonaco che mostravano
chiaramente che erano stati costruiti all’insegna di spendere poco con grossi
blocchi di cemento rugoso, sembrava dover racchiudere dei baraccati più che
alti ingegni nucleari. All’interno la stessa spartanità nell’arredamento,
ma in compenso tutte le stanze erano piene di apparecchiature e di persone che
non sembravano aver tempo da perdere.
Ferretti era interessato anzitutto a capire il perché della scelta inglese a
favore della soluzione uranio naturale e grafite. L’orgia di sigle e soluzioni
diverse presentate alla Conferenza ginevrina poneva certo in primo piano il
problema di quale fosse la scelta ottimale per chi come il professor Ferretti,
come componete del CNRN, si sentisse in qualche modo responsabile delle scelte
che il nostro Paese doveva fare. Credo che io cercasi di capire un po’ di più
che metodi loro utilizzassero per la valutazione della reattività del reattore.
Dopo la spartana colazione inglese nella cafeteria del Centro, i tre
percorsero a grandi passi i viali del centro discutendo animatamente. A dire il
vero i grandi passi erano quelli del nostro ospite. I nostri, ed in particolare
quelli del professor Ferretti piccolo e grassoccio, erano in realtà dei
saltelli per star dietro all’ andatura naturale del gigante.
Non so se fu a causa di quel viaggio, aver così creduto in me da portarmi con sé per quella visita, che il professo Ferretti se la prese particolarmente a male quando seppe a fine ’56 che io lasciavo il CISE per la FIAT. Entrò un giorno nel mio ufficio (in via Serbelloni avevo un ufficio tutto mio) e andando avanti ed indietro cercò prima di dissuadermi, perché il CISE partiva con grandi programmi concreti ed io avrei avuto l’occasione di dare un contributo importante. Cosa poteva fare la FIAT di buono oltre alle automobili? Poi, visto che non riuscì convincermi, uscì arrabbiato dall’ufficio senza salutarmi e forse dandomi del transfuga. Se non lo disse, l’avrà pensato.